Io non avevo paura della guerra, anche se avevo solo 14 anni; non
avrei mai lasciato Napoli come invece volle fare mio padre per
sfuggire ai bombardamenti. Lui, però, era quello che comandava,
che decideva e noi dovevamo obbedire senza fiatare. Mamma, se
solo sentiva parlare di bombe, tremava tutta e in campagna si
sentiva più protetta. A mio fratello Guido, invece, non importava
nulla se io e nostra sorella Federica trascorrevamo tutta la
giornata fra pecore e mucche, tanto lui scendeva per lavoro in
città quasi tutte le mattine, si metteva la sua bella giacca lunga, la
cravatta consumata e andava via per tornare a tarda sera.
Federica dove la mettevi, lì la trovavi, non muoveva opposizione
a nulla, faceva tutto quello che dicevano i nostri genitori e
trascorreva le giornate a sbucciare i fagioli, a pelare le patate, a
dar da mangiare alle galline. Io, invece, non amavo stare in
cucina, non amavo fare i lavori di casa, così, appena potevo,
scappavo via e me ne andavo nel campo di grano, mi stendevo a
terra a pancia in su e osservavo le nuvole che cambiavano forma.
Oggi non ricordo se era la mia fantasia o se era il vento a
divertirsi, ma quelle soffici nuvole prendevano magicamente le
sembianze di oggetti, animali e di tante altre cose. La figura che
vedevo più spesso era il telefono forse perché mi affascinava
molto; non ne avevo mai visto uno prima di andare in campagna
dalla zia. Che bella invenzione il telefono, pensavo, riusciva a far
sentire la voce di una persona anche se era lontana.
Ricordo che una mattina ero molto attratta da una nuvola sulla
vetta di una collina, aveva la forma di un’enorme torta e il mio
stomaco non faceva che brontolare: era così scarso il cibo che
avevo sempre fame. Mamma ci faceva mangiare delle disgustose
zuppe: fave, piselli, farro, orzo. Le odiavo! Io sognavo la carne, la
mozzarella, i dolci ma in quel paese non c’era neanche il pane
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 7
bianco.
Insomma, ritornando a quella mattina, ricordo che all’improvviso
sentii un pesante rumore di passi sulla strada vicino al campo di
grano e delle voci maschili che cantavano “Fratelli d’Italia”. Mi
alzai e restai seduta fra il granoturco da dove sbirciavo senza
farmi vedere: avevo paura di quelle divise e di quelle armi sotto al
braccio, anche se erano italiani. Mio fratello diceva sempre che
dovevamo guardarci dai tedeschi, ma io avevo paura di tutti i
soldati.
Il vento smuoveva i miei capelli, io cercavo di toglierli dal viso,
ma era inutile, ritornavano sempre nello stesso punto e per
rinchiuderli in una coda, non mi accorsi che un soldato stava
venendo proprio verso di me.
- Oh ragazzina, cosa ci fai fra le spighe? – mi domandò con uno
strano accento.
- Guardo.
- Guardi?… E guardi cosa?
- Il cielo, le nuvole… le colline...
- Sei napoletana?
- Sì, e tu perché parli così strano?
- Sono di Firenze.
- Firenze!
- La conosci?
- No.
- Ma tu cosa fai… guardi solo? Non vai a scuola?
- Scuola?... Ci andavo tanto tempo fa.
- Quanti anni hai?
- Quattordici.
Il soldato, guardandomi, aprì il suo zaino e prese un libro, me lo
porse e chiese:
- Lo vuoi? È una bella storia, tanto io l’ho già finito.
- Lo vorrei, ma non so leggere. - risposi, mentre il mio stomaco
continuava a brontolare.
- Ho capito!
Il ragazzo, allora, prese dalla tasca della sua giacca un panino e
sorridendo, mi disse:
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 8
- Prendi!
Sorrisi anche io e afferrai il panino.
Riaprendo la borsa, il giovane soldato stava per il riporre il libro,
ma l'osservai curiosa ed egli, accorgendosene, esclamò:
- Oh bimbetta, vuoi anche questo?
Accennai un “Sì” con la testa.
- E va bene, io te lo do, ma solo se tu mi prometti che imparerai a
leggere e a scrivere.
Feci un sorriso ancora più grande e lui mi diede il libro,
salutandomi come fanno i militari, se ne andò raggiungendo i suoi
compagni.
- Chissà cosa c’è scritto? – mi chiesi guardando la luccicante
copertina.
Osservando il cielo, vidi che non c’era neanche più una nuvola,
allora, mi alzai e con passo lento mi avviai verso casa.
Da quando avevamo lasciato Napoli, ero sempre molto triste e
quando qualcuno lo notava, Federica mi prendeva in giro dicendo
che era perché non potevo vedere Cristian. Forse, però, non aveva
torto, lui era così bello, simpatico... almeno per me perché i miei
lo chiamavano il “forestiero” e non lo sopportavano. Cristian era
il figlio dei signori Cirillo che abitavano al quarto piano nel nostro
stesso palazzo di Napoli; era un ragazzo molto intelligente, aveva
diciannove anni e frequentava l'università. Io non sapevo neanche
cosa fosse l'università, sapevo solo che quando parlavo di lui, mio
padre mi mollava sempre un ceffone:
- Sei troppo piccola per pensare ai ragazzi! - gridava.
Eh sì, ero piccola, ma perché non potevo neanche parlarne? In
fondo, non dicevo nulla di male, io pensavo solo alla sua
istruzione, una cosa che sognavo, ma che per me era molto
lontana. Certo, Cristian mi piaceva e molto, solo che ad una
ragazzina, come ero allora, non era permesso fare degli
apprezzamenti e così, qualsiasi cosa pensassi che agli altri
appariva scabrosa, me la tenevo per me. Avrei parlato sempre
bene di Cristian, avrei trascorso ore a guardarlo e gli avrei detto -
Sei bellissimo! - ma lui era chissà dove ed era cinque anni più
grande di me.
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 9
Se avessi potuto esprimere i miei pensieri, avrei fatto tanti bei
commenti anche su Francesco Magai, il figlio di un'altra famiglia
sfollata. “Occhi di cerbiatto” lo chiamavo, sempre nella mia
mente! E com’era bello quel suo sguardo misto di timidezza e
sicurezza. È vero, anche io lo vedevo fare il “pagliaccio”, come
diceva mia madre, con le ragazze della cascina, ma per me era
adorabile perché ad osservarlo bene, si notava che in realtà era
molto chiuso e faceva una guerra con sé stesso per apparire
disinvolto e socievole. Non era alto come Cristian, ma in
compenso aveva delle fossette sulle guance, quando rideva,
veramente adorabili, mentre i suoi bruni capelli corti splendevano
come il castano iride dei suoi occhi. Come mi piaceva, come era
bello, avrei fatto di tutto per farmi notare da lui, solo che
puntualmente facevo sempre brutte figure. Era ormai molto tempo
che la famiglia Magai abitava nella tenuta della zia e da tutto quel
tempo io mi struggevo d’amore per Francesco. Quando i miei
genitori dicevano che ero troppo piccola per pensare a certe cose,
io rispondevo, nella mia testa però: “E vallo a dire al mio cuore!”.
Una mattina, mentre impastavo le pagnotte da mettere nel forno,
Francesco entrò in cucina e sorridendo ironico, iniziò a prendere
in giro Giuseppina per i suoi 120 chili.
Era il compleanno della primogenita degli zii, si doveva
festeggiare la sua maggiore età e sembrava l'evento dell'anno.
Antonia, mia zia, aveva dato a Giuseppina il compito di rendere
tutto perfetto e lei aveva intenzione di ubbidire rompendo le
scatole a noi!
Mentre tutto intorno a me era un continuo vociare, io stavo con le
mani nell’impasto. Dalla bianca cuffia usciva una ciocca ribelle,
nera come i miei occhi, e come quella mattina nel campo di
grano, la toglievo dal viso, ma tornava sempre allo stesso punto.
Si fermava proprio accanto al naso e mi faceva starnutire. E
quanta farina si alzava! Mia madre mi richiamava in
continuazione e io la guardavo come a dirle che non me ne
fregava nulla. Nel frattempo, cercando di non farlo notare a
nessuno, guardavo sottocchio Francesco che giocava con
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 10
Federica; mi faceva rabbia, lei era più grande e quindi nessuno le
diceva nulla perché era in età da marito. Fingendo di annoiarmi,
sbuffavo per distrarli.
“Uffa, e come stiamo oggi!... È proprio antipatica quando fa
così!” disse Francesco lamentandosi della cuoca e guardandomi.
Il mio sangue si gelò improvvisamente. Mi trovai, sorpresa, i suoi
occhi da cerbiatto proprio rivolti a me e come una scema non
risposi, mentre lui già ritornava accanto a Federica.
Innervosita dal mio comportamento stupido e imbarazzante, presi
le pagnotte dal tavolo infarinato, anche se ero più io infarinata, e
mi avviai verso il piano accanto al forno; non ho proprio idea di
come feci, ma inciampai e caddi a terra facendo sparpagliare le
pagnotte sul pavimento.
- Martina, ma che cavolo fai? - gridò la cuoca con la sua grossa
voce.
Provai a mettermi in ginocchio, ma mi faceva male il piede e
restai per un po' distesa.
- Giuseppina, non la sgridate, è una bambina! - esclamò
Francesco venendo vicino a me per aiutarmi. Io, agitata, feci un
rapido scatto e mi alzai, non volevo essere toccata.
Senza badare alle pagnotte a terra, scappai via dalla cucina, avevo
fatto una pessima figura e già le lacrime mi bagnavano il viso.
Nelle orecchie mi rimbombava quell’odiosa frase: “È una
bambina”. Me la sentivo dire sempre, quasi tutti i giorni, dai miei
genitori, dagli zii, dalla servitù e così, innervosita, me ne andai,
zoppicante, nel fienile ad osservare i campi dalla finestra.
Sbuffando ancora, mi tolsi la cuffia e i miei capelli lunghi scesero
tutti insieme fino a coprirmi le spalle. Guardandomi in un vetro
abbandonato, mi dicevo di non essere una bambina, di valere più
di quanto pensassero gli altri. Era sempre per colpa degli altri che
spesso mi perdevo nei miei pensieri perché non potevo parlare
con nessuno.
- Perché una ragazza della mia età non può dire cose serie, cose
importanti? - mi chiedevo.
Ad un tratto sentii qualcuno chiamarmi, mi voltai verso l’ingresso
del fienile e vidi lui, “Occhi da cerbiatto”. Feci uno sguardo che
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mostrava tutta la mia sorpresa e mi dissi emozionata:
- Ricorda il mio nome.
- Martina, - riprese - perché sei scappata?
- Perché ho fatto una brutta figura.
- Ma può capitare a chiunque di cadere.
- Eh sì, lo so, ma capitano tutte a me!
- Dai che non è vero.
- Sì che è vero.
- Beh… comunque volevo dirti che per me non hai fatto nessuna
brutta figura… Anche io ero convinto, quando avevo la tua età,
che capitassero tutte a me, ma crescendo mi sono reso conto che
non è così. Bisogna solo essere più sicuri di sé.
- E tu parli così perché sei uomo, sei grande.
- Credi veramente che ad un uomo non accadano cose
imbarazzanti?… Allora, senti questa. Ieri sera ero a cena con i
tuoi zii, per contorno portarono delle olive e cercai di prenderne
una con la forchetta ma l'oliva scivolò dal mio piatto e finì proprio
nel decolté della signora!
- Oh cielo, veramente?
- Eh sì, non immagini l’imbarazzo.
- Ma com’è che a voi vi fanno mangiare con loro? A noi mai!
- Beh, perché non siamo ricchi, ma stiamo alquanto bene e i
padroni cercano sempre di appioppare quelle figlie a qualcuno.
- E... a te... piacciono?
- Le figlie dei padroni?
- Sì.
- Non possono mai aspirare alla bellezza delle cugine napoletane.
Cos'altro poteva dire Francesco per farmi arrossire? Diventai un
peperone e per cambiare discorso, gli domandai:
- Hai fratelli, sorelle?
- No, i miei genitori non possono avere figli.
- Come… e tu?
- Io sono adottato, mi vennero a prendere dalle suore quando
avevo due anni.
- E ti trovi bene?
- Beh è un po’ come quando nasci in una famiglia, non hai scelto
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tu i tuoi genitori, ma ci devi stare.
- Non ti trovi bene?
- Sì certo, ma mio padre vuole farmi fare il dottore come lui.
- E a te non piace fare il dottore?
- Io vorrei scrivere, creare poesie e pubblicarle, ma lo studio mi
porta via tanto tempo.
- Ne hai già scritta qualcuna?
- Sì!… Beh, adesso è meglio che vada.
- Un giorno mi farai leggere una tua poesia?
- Va bene.
Francesco sorrise, si voltò e se ne andò; aveva l’aria sconsolata e
io non capivo come si poteva essere tristi, quando si aveva la
possibilità di studiare e vivere in una famiglia in cui non mancava
nulla. Però ero contenta che fosse venuto a parlare con me.
La sera di quel giorno mio fratello Guido pensava a come sarebbe
cresciuta la nostra piccola attività, se non ci fosse stata quella
maledetta guerra e, invece, si arricchivano solo quelli che
fabbricavano armi e i contadini che andavano a vendere i loro
prodotti in città. E così, mentre noi poveri piangevamo per la vita
che non potevamo avere, dalla casa degli zii si vedevano tutte le
luci accese e si udiva il suono di
un'orchestra. Quella sera tutti i lavoratori della cascina e noi
sfollati stavamo nel cortile, i maschi giocavano a carte e le donne
chiacchieravano sedute in cerchio sulle vecchie sedie di paglia. Io,
mia sorella e le altre ragazze della tenuta stavamo con le
ginocchia a terra e con la testa fra le ringhiere del cancello laterale
per vedere gli abiti delle invitate alla festa: che eleganza quei
capelli raccolti in alto o i tagli corti, i guanti e le borsette. Io
osservavo le giovani fanciulle dell’alta società e sognavo
d’indossare uno di quei vestiti, ma non era tanto per i vestiti, ma
perché credevo che in tutto quello c’era la libertà.
Dopo qualche secondo abbassai la testa in avanti, mentre con le
mani mi tenevo ancora al cancello; chissà cosa pensavo, so solo
che ero una grande sognatrice.
Giuseppina con i suoi gesti decisi, ma non aggressivi, ci fece
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 13
alzare e disse a tutte noi che dovevamo pensare ad altro, così ci
accompagnò fino al tavolo al centro del cortile a ci fece sedere.
Io, come al solito, me ne stavo in silenzio ad osservare gli altri, le
mie amiche invece si lamentavano perché volevano entrare nella
casa del padrone, ma questa volta però, per vedere i bei ragazzi
che avevano intravisto dal cancello.
Ad un tratto sentii il mio amico Giovanni che mi chiamava, mi
voltai e lui mi fece segno di seguirlo; mi alzai e gli andai dietro e
come al solito tutti commentarono dicendo che noi due eravamo
destinati a sposarci. Nessuno capiva che fra me e lui c’era solo
una reale amicizia, anche perché la sua testa stava sempre a
pensare al teatro.
Seguendo Giovanni nell’aia, arrivammo fino a casa sua dove il
mio amico prese un abito femminile da festa e me lo mostrò.
- È bellissimo! - esclamai restando incantata.
- Indossalo, così vai alla festa. - mi disse sorridendo.
- Cosa?
- Sì dai, io ho questo. - rispose prendendo dalla stessa cesta un
vestito da uomo.
- Ma cosa hai in mente e dove hai preso questi abiti?
- Il tuo è di mia cugina e questo del fidanzato. Dai, vai in camera
tua e preparati.
- Tu sei pazzo, non possiamo entrare in casa dei signori e poi ci
riconoscerebbero, almeno a me.
- Ma dai, Martina, non ci riconosceranno! Secondo te i padroni
conoscono tutti i loro lavoratori? A te poi non ci faranno caso con
tutti gli invitati che ci sono.
Presi l’abito fra le mie mie mani e cominciai a guardarlo, lo
volevo indossare, ma avevo paura: in mezzo a tanti signori cosa ci
avrei mai fatto?
- E se poi se ne accorgono e ti licenziano? - chiesi preoccupata.
- Vuol dire che è la volta buona che ce ne andiamo in città.
- Oh, e va bene! Vienimi a prendere, però, io da sola non ci entro.
- Va bene!
Cercando di nascondermi agli occhi degli altri, mentre un canto
popolare si elevava fra gli alberi che coprivano la luna, mi avviai
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 14
verso casa; nel tragitto sentivo le donne cantare e vedevo mio
padre osservare le vigne.
Mi chiusi in camera e iniziai a cambiarmi, andavo di fretta e non
sapevo neanche il perché, ma ad un tratto qualcuno bussò alla
porta ed io mi gelai.
- Martina, cosa stai facendo? - mi domandò Federica.
- Niente… mi preparo per la notte. - risposi un po' tremante.
- Già vai a dormire?
- Eh… ho tanto sonno.
- Dai fammi entrare, ti devo raccontare una cosa.
- Facciamo domani, adesso ho troppo sonno.
Mia sorella non rispose subito e io aspettavo trepidante un suo
cenno, poi lei disse:
- Eh va bene, ciao!
A quel saluto sospirai come chissà cosa stessi facendo.
Appena vestita, mi guardai allo specchio e cercai di pettinarmi
come meglio potevo; presi un fiore da un vaso e lo misi sul fiocco
che mi teneva i capelli. Com’ero bella vestita da signora!
Qualche minuto dopo, Giovanni cominciò a chiamarmi, mi
affacciai alla finestra e gli dissi di fare silenzio, poi, verificando
prima che in casa non ci fosse nessuno, scesi le scale e me ne
andai. Sgattaiolando via insieme, ci avvicinammo ad una delle
grandi finestre della casa degli zii, ci affacciammo e vedemmo
tante persone eleganti, ricche e nobili: c’era il sindaco del piccolo
paese, alcuni amministratori comunali e degli uomini che
sinceramente non saprei neanche dire chi fossero.
Girando intorno alle mura della villa, trovammo un ingresso
secondario ed entrammo nella sala da pranzo che per fortuna era
vuota; spalancando gli occhi, mi fermai ad osservare le belle cose
che c’erano in quella casa: statue, tende con merletti, vasi,
ceramiche e quadri. Tutti oggetti che non avevo mai visto.
Senza far rumore, ci avviammo verso la sala di ricevimento da
dove proveniva la musica e il vociare degli invitati.
- Ho il cuore in gola! - esclamai fermandomi.
- Dai, Martina, nessuno farà caso a noi. Passeremo per i figli di
qualche invitato, così ci divertiamo un po’. - rispose Giovanni
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 15
sorridendo.
Non finì neanche di replicare che mi tirò in sala e mi ritrovai in
mezzo a tutta quella gente che odorava di confetto; la prima cosa
che pensai, fu che avrei fatto sicuramente un'altra figuraccia.
- Fai la disinvolta. - mi diceva il mio amico.
Ma come potevo? Non ero per nulla elegante, ma goffa e
impacciata.
La sala era immensa ed era circondata su due lati da enormi
finestre abbellite con tende rosa; in un angolo c’era l’orchestra, al
centro delle persone che ballavano e in fondo un uomo con un
grosso pancione che beveva insieme ai suoi invitati.
- Ecco, Martina, quello è il padrone. - mi disse Giovanni
indicando la stessa persona che guardavo io.
- Allora, è lo zio?… Ma mia cugina? - chiesi un po' perplessa.
- Non lo so, non l’ho mai vista.
Mentre giravo su me stessa per ammirare gli invitati,
m’immaginavo figlia di un conte, a parlare con altre ragazze
nobili dei grandi fatti della vita. Mi vedevo bella, con i boccoli
che scendevano sulle spalle, con le mani inguantate e con una scia
di delicato profumo dietro di me.
Ad un certo punto il maggiordomo annunciò l’ingresso di Rosalia
Poerio Bassi, mia cugina, e fu allora che anche io mi chiesi
com’era possibile che dei nostri stretti parenti potessero tenerci
così alla larga solo perché eravamo poveri.
- Andiamo al buffet? - mi chiese Giovanni fregandosene che
bisognava aspettare la festeggiata.
- Non credo che si possa in questo momento, forse è meglio andar
via. - risposi mentre gli invitati facevano gli auguri a Rosalia.
La confusione, la musica e quell’ansia che avevano gli invitati nel
voler assolutamente salutare la famiglia Poerio mi mettevano una
grande agitazione.
Mezza intontita, mi avviai verso l’uscita e per farlo cercai di
superare tutte quelle persone che si accalcavano, ma ad un tratto
Giovanni mi prese la mano e credo disse: - L'uscita è di qua!
Lo seguii senza battere ciglio e ci ritrovammo su un terrazzo che
dava in giardino, ci fermammo e ci guardammo: non era il mio
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 16
amico.
- Allora, piccola principessa, cosa ci fai qui? - mi chiese
Francesco sorridendo.
Volevo sprofondare! Quei suoi occhi, che mi fissavano,
m’imbarazzavano tremendamente. Cosa potevo rispondergli?
Avevo addosso qualcosa non mio, ero fuori luogo ed ero
un’imbranata nata.
- Allora, cosa ci fai qui? - riprese non distogliendo neanche un
attimo lo sguardo da me.
- Gioco! - risposi cercando di mostrarmi tranquilla e a mio agio.
- Giochi?… Ho un'idea!
- Cosa?
- Vieni con me.
Francesco mi prese la mano e cominciò a tirarmi per farmi
camminare, io gli chiedevo cosa avesse in mente perché un po’
avevo paura; poi scendemmo gli scalini che portavano in giardino
e attraversammo un arco che conduceva nel parco privato della
famiglia Poerio. Non sapevo cosa pensare e quella volta anche io
mi ripetevo di essere piccola, ma lui continuava a dirmi di stare
tranquilla. Dopo poco entrammo nella cucina, dove la mattina
avevo fatto cadere le pagnotte e Francesco mi lasciò la mano;
preoccupata, feci un passo indietro e lui mi guardò chiedendomi:
- Hai paura?
- No! - risposi fingendo disinvoltura.
- Voglio solo farti divertire veramente.
- Come?
- Siediti!
Mi sedetti, perplessa, su una sedia accanto alla finestra, Francesco
prese un foglio di carta e si accomodò anche lui. Osservandomi
ogni tanto, si mise a scrivere qualcosa.
- Cosa scrivi? - gli chiesi.
- Dopo ti faccio leggere, ma non dire nulla adesso.
Se mamma avesse saputo che ero in una stanza da sola con un
uomo, mi avrebbe picchiata sicuramente, ma io cominciavo a
sorridere e Francesco mi disse di essere brava. Brava per cosa?
Stavo solo ferma immobile! Mentre vedevo la luna riflessa nei
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 17
suoi occhi, lui scriveva alla fioca luce di una lampada e
sorridendo si formarono sulle guance le sue dolci fossette. Io
avevo il cuore che batteva molto forte e per poco non mi saliva in
gola.
Poi Francesco si fermò, alzò la testa dal foglio e disse:
- Vuoi leggere?
- Sì. - risposi.
Lui si avvicinò a me, mi diede il foglio e si mise al mio fianco, io
fingevo di leggere: mi vergognavo troppo a dire di non saperlo
fare.
Avevo gli occhi incollati sulla sua elegante grafia, sulle “a”
tondeggianti, sulle artistiche “i” ed erano le uniche lettere che
conoscevo.
- Ti piace? - mi domandò.
- Sì. - risposi imbarazzata.
- Che ne pensi?
- Beh… posso dirti che a me piace molto, ma darti un giudizio…
- Ma ti piace?
- Sì, sì… molto!
- Bene!
- Come la chiamerai?
- Beh… visto che sei tu la mia musa ispiratrice, la chiamerò
Martina.
Feci un sorriso istintivo, era la cosa più bella che mi avessero mai
detto. Non credevo a quello che stava accadendo, stavamo là io e
lui con una sua poesia dedicata a me e questo confermava quello
che pensavo di lui: era dolce e timido. Poi Francesco poggiò la
mano sulla mia spalla e mi spiegò il significato di alcune parole,
ma in quel momento si accesero anche le altre lampade ed io
sentii la voce di mia madre gridare “Disgraziato!”.
Come una tempesta improvvisa entrarono in cucina mio padre e
altri lavoratori della cascina che si avventarono su Francesco
bloccandolo.
- Disgraziato, cosa volevi fare a mia figlia? - chiese arrabbiato
mio padre.
- Ma papà, stavamo leggendo una poesia. - risposi.
© Nuvole ed orizzonti – Annalisa Caravante 18
- Stai zitta tu, svergognata! Maria, portala a casa.
Francesco cercava di giustificarsi, ma uno dei contadini gli teneva
un fucile puntato contro; papà sbraitava come un cane e mentre io
gridavo che non mi aveva fatto nulla, mia madre mi spingeva
stringendomi il braccio. Mi faceva male, ma sinceramente
soffrivo più per quello che stavano facendo a lui. Gli dicevano
brutte parole, lo chiamavano maniaco e lo intimavano di lasciare
la cascina. Qualcuno gli diede anche un pugno e infatti l’ultima
immagine che ebbi di lui, fu il suo bel viso pieno di sangue.
- Non ti preoccupare Martina, - mi gridava - riuscirò a pubblicarla
e tu mi troverai!
- Che cosa sei, eh?… Una puttana? - mi strillava mia madre nel
cortile verso casa.
- Voi siete pazza! - rispondevo io.
- Ah, io sono pazza, e tu vestita così? Mo vedrai!
Gli altri lavoratori e le ragazze della tenuta stavano impalate ad
osservare la scena, io cercavo di difendermi da quelle ingiuste
accuse ma tutti credevano a ben altro.
E fu così che la famiglia di Francesco dovette andare via, mentre
io fui costretta a restare in camera per molti giorni. Piangevo
perché avevo paura di non rivederlo più