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Autore: scarry    24/07/2013    3 recensioni
'Il tempo guarisce tutte le ferite', a chi non hanno mai detto questa frase?
Qualsiasi cosa succeda, che ti faccia un po' bruciare lo stomaco o che ti logori l'anima.
'Non ti preoccupare, il tempo guarirà tutto'.
Il tempo -il tempo-, come se qualche secondo, qualche attimo, qualche mese, anno, secolo, o ciò che sia, possa guarire qualcosa che ha mandato a pezzi ciò che avevi costruito in una vita.
E ricostruire tutto non è semplice, non lo è.
E la gente lo ripete alle persone ferite, continua a ripeterlo, senza pensare che loro ormai si sentono un po' come quei prigionieri condannati alla ghigliottina, ormai senza testa.
È come se li dicessero 'non preoccuparti, la testa ricrescerà, col tempo', e in quell'esatto momento sono già caduti a terra stramazzati.
E poi basta, poi il silenzio.
Il tempo non cura le ferite, ci fa solo essere abituati a vederle sulla pelle. Sono ferme lì, come tatuaggi tanto desiderati. Ferme lì, immobili. Forse non sanguinano più da anni, ma continuano ad esserci. E fanno male, sì, fanno male.
Fanno male e niente farà alleviare il dolore, niente e nessuno.
Neanche il tempo.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                 Prologo. The same shoes.

 



Erano davvero molte le cose che Reenie Callaway non sopportava.
Non sopportava i capelli appiccicati al collo quando si svegliava la mattina.
Non sopportava le persone che le parlavano mentre leggeva un libro.
Non sopportava il vento afoso in estate, la sabbia che si attaccava ai piedi dopo che si faceva il bagno.
Non sopportava quando l’acqua bollente della vasca si raffreddava, quando la schiuma diminuiva, quando la gente si contraddiceva da sola e quando le persone le gridavano contro.
E poi, poi non sopportava svegliarsi con il mal di schiena, oppure con la matita sbavata sul viso perché la sera prima si era scordata di toglierla, non sopportava il traffico, la madre che si lamentava di una brutta giornata a lavoro e il gatto dei vicini che miagolava a notte fonda.
Ma più di tutto, non sopportava  sentir litigare suo fratello e suo padre. Odiava doversi chiudere in camera per cercare di soffocare le grida dei familiari. E, forse, da quel giorno non le avrebbe sentite più, perché uscendo in fretta dalla camera, vide una scena che le mozzò il fiato.
Vide la scena che aveva sempre sperato di non vedere. Quella che la notte le tormentava il sonno, quella che le avrebbe portato via ogni sorta di appiglio per non cadere nel burrone.
Suo fratello, valigie alla mano e occhi arrossati, stava uscendo velocemente di casa seguito dalle grida del padre e dai pianti della madre.
Lei lo guardò, disperata, e lui se ne accorse.
Lui le rivolse uno sguardo dispiaciuto, lei lo riguardò piena di niente.
L’unica persona che c’era sempre stata, su cui poteva sempre contare, la stava lasciando, e lei non ci credeva.
E da quel giorno, il numero di cose che non sopportava era aumentato.
Da quel giorno, non sopportava suo padre e sua madre, che si erano separati.
Da quel giorno, non sopportava non vedere il fratello in giro per casa in cerca di cibo.
Non sopportava non potersi svegliare con la musica altissima proveniente dalla camera affianco.
Non sopportava non poter essere accolta da due grandi braccia quando era triste.
Non sopportava non avere nessuno che le leggesse negli occhi, e non poter più scompigliare quei capelli color carota per poi sentire le mani del fratello farle il solletico.
E non sopportava la scuola, gli amici, non sopportava studiare, non sopportava più niente.
E forse era per questo che veniva sempre evitata, forse era questo il motivo.
O forse era il suo tenere la testa bassa per non far capire quanta tristezza nascondesse nei suoi occhi.
O forse era il suo non voler affezionarsi più a nessuno per non soffrire più, o il non voler amare più nessuno per non rimanere ancora delusa.
E a volte si sentiva così sola che l’unica cosa che poteva fare era rannicchiarsi nell’angolo della stanza e stringersi le gambe al petto, facendo finta che tutto fosse perfetto, mentre le sue stesse lacrime tradivano quella finzione.


Il 12 settembre 2011, alle 07:12, Reenie si svegliò dopo che sua madre ebbe aperto le tende della camera e spalancato la finestra. Aprì gli occhi strizzandoli poi più volte per abituarsi alla luce del sole, e dopo si girò e ficcò la testa sotto al cuscino.
Quel giorno avrebbe dovuto iniziare il terzo anno del liceo, ed era tutto tranne che pronta.
Alle 07:16, Reenie entrò in bagno e infilò la testa sotto la doccia gelata, e dopo esattamente sei minuti si mise davanti allo specchio cercando invano di pettinare quella massa di cotone rosso che si trovava al posto dei capelli.
Alle 07:28 aprì l’armadio e ne uscì fuori un paio di jeans grigi e la sua maglietta preferita –quella dei ramones-, quindi si vestì, infilò le vans nere, e alle 07:31 era pronta.
Aveva il tempo per fare colazione, ma non l’avrebbe fatta. I parenti le dicevano continuamente che era dimagrita troppo, che doveva mangiare di più, ma a lei non ne era mai importato nulla. Ormai non le importava più di ciò che pensava la gente.
Alle 07:35, dopo aver salutato svogliatamente la madre, Reenie uscì di casa con le cuffie alle orecchie e una canzone dei Simple Plan a tutto volume.
Imprecò mentalmente dopo essersi resa conto che un’altra giornata di merda stava proprio iniziando.


Due isolati più a Est, la sveglia di Louis Tomlinson non aveva proprio suonato.
Si alzò di scatto guardando l’orario, si preparò il più in fretta possibile, ed era sul punto di pensare al suicidio quando non trovò le sue scarpe preferite sotto al letto.
Chiese alla madre dove erano finite, la madre gli disse che le aveva messe a lavare e stavano ancora asciugando, e lui se le infilò ai piedi bagnate perché senza le sue vans nere non sapeva proprio dove andare.
Uscì correndo di casa, dimenticandosi in un primo momento lo zaino, e imprecò mentalmente dopo essersi reso conto che un’altra giornata di merda stava proprio iniziando.


Quando l’ultima campanella suonò, Reenie tirò un sospiro di sollievo.
Tutti i ragazzi odiavano la scuola, nessuno escluso. Ma c’era chi lì aveva trovato l’anima gemella, o un migliore amico, o semplicemente una persona con cui sedersi a mensa. Però lì Reenie non aveva trovato mai nessuno.
Era sola con le interrogazioni andate male e i compiti a sorpresa per cui non aveva studiato. Era sola con le gomme da masticare attaccate sotto al banco e i professori che le sorridevano consegnandole un brutto voto. Era sola con le scritte sui muri e la puzza di fumo nel bagno.
Era sola.
Spinta dalla calca di gente che camminava nei corridoi con l’unico obbiettivo di uscire da quell’inferno, Reenie riuscì ad attraversare la porta e a raggiungere uno spazio meno affollato per accendere l’mp3 ed infilarsi le cuffie, senza sapere che qualche  metro più in là due occhi ghiaccio la stavano scrutando.
Reenie raggiunse la strada e iniziò a trascinare i piedi con l’intento di arrivare a casa e gettarsi pesantemente sul letto e dormire per non svegliarsi mai più, ma qualcosa –o qualcuno- rovinò i suoi piani.
Gli occhi di ghiaccio continuarono a seguirla quasi involontariamente, e quando la vista non bastò più per osservare i suoi movimenti, allora quegli occhi si servirono anche di un paio di gambe, e di un paio di piedi, e di un paio di vans nere, come quelle di Reenie.
Louis la seguì, non ne poté fare a meno. Perché quando Louis aveva il desiderio di fare qualcosa, poteva in qualche modo anche rinunciarci, ma quando Louis sentiva di dover fare qualcosa, allora doveva farla per forza, e niente l’avrebbe fermato. E in quel momento sentiva di dover seguire Reenie.
Forse era qualcosa nei suoi capelli color carota, o forse in quel modo di muovere le gambe, o forse in quel modo di tenere la testa bassa costantemente, o di essere l’unica sola tra quei gruppi di persone, sola in una folla di gente che cercava la strada di casa. Lui non sapeva perché la dovesse seguire, ma sapeva di doverlo fare, e questo gli bastava.
Aumentò il passo quando gli sembrò di starla per perdere, e all’improvviso si accorse di esserle più vicino del dovuto. Troppo vicino. Tanto vicino che lei se ne sarebbe potuta accorgere. Tanto vicino che le sarebbe bastato girare il volto per accorgersi di Louis. Tanto vicino che quando lei si fermò improvvisamente per cambiare canzone sull’mp3, Louis non fece in tempo a fermarsi e le andò addosso.
E lei, lei che non avrebbe mai immaginato che qualcuno le stesse dietro in quel momento, lei che non avrebbe mai immaginato che qualcuno le stesse così maledettamente vicino senza avere il desiderio di sputare qualche insulto, cadde rovinosamente a terra facendo cadere  l’mp3, e lo zaino, e qualche ciuffo proprio davanti agli occhi color prato che cercava sempre di nascondere.
Louis rimase quasi sconcertato quando la vide ferma e con la testa bassa. Perché lei non disse una parola. Non si arrabbiò, non lo insultò, non gli disse di stare più attento. Lei non si piegò neanche per prendere la sua roba. Lei si guardò la punta dei piedi, e forse gli occhi le si inumidirono un po’, giusto un pochino. Ma Louis non lo avrebbe saputo. E forse si sentì un po’ più trasparente. Ma Louis non lo avrebbe saputo. E forse capì di non essere così dannatamente forte come pensava. Ma Louis non lo avrebbe saputo.
Perché Louis era un ragazzo d’oro quando voleva. Lui sapeva far sorridere le persone tristi, far ridere di gusto quelle un po’ più felici. Lui sapeva far rilassare la madre con i nervi tesi preparandole un bagno caldo, sapeva dare la sua giacca alle sue sorelle quando avevano freddo, sapeva preparare il caffè a suo padre per ottenere qualche soldo per un nuovo cd, sapeva sistemarsi i capelli come voleva lui, e chiamare il fattorino per farsi portare la sua pizza preferita.
Sapeva come illuminare lo schermo del cellulare quando si alzava a notte fonda senza un apparente motivo, sapeva bere il tè senza scottarsi la lingua e sapeva sopportare le lamentele di sua zia sul fatto che ancora non aveva una ragazza.
Lui sapeva fare davvero tante cose, ma una non la sapeva proprio fare. Louis non sapeva leggere nel cuore di una ragazza ferita.
E forse proprio nessuno lo sapeva fare, forse era una cosa che si imparava.
E forse ci si sarebbe dovuti allenare, forse avrebbero dovuto inventare un corso di riconoscimento di ragazze con il cuore spezzato.
Ma il problema è che Reenie non aveva solamente il cuore spezzato, lei di spezzato aveva anche le ali.
E se bastano una coperta, dei pop corn e l’intera saga di Harry Potter in tv per far sorridere una ragazza col cuore spezzato, per far sorridere una ragazza con le ali spezzate serviva molto di più. Ma nessuno l’ha mai scoperto qual è il film da vedere in tv per rendere felice una ragazza come Reenie. Nessuno mai.
Il castano si piegò sulle ginocchia, prese da terra lo zaino e l’mp3 e le spostò qualche ciuffo color carota dietro le orecchie. E in quel momento, anche se Louis non aveva mai frequentato alcun corso per riconoscimento di ragazze dalle ali spezzate, lui capì che qualcosa in Reenie non andava affatto bene.
-Abbiamo le stesse scarpe- sussurrò la rossa guardando il ragazzo e stendendo le labbra in un pigro sorriso.
Louis annuì sorridendo più energicamente, e le diede una mano per alzarsi.
E poi la guardò allontanarsi con i suoi occhi color ghiaccio, e quando lei girò l’angolo e la vista non bastò più per osservare i suoi movimenti, allora non si servì più delle sue vans nere per seguirla, perché Louis tentando di aiutarla quel pomeriggio, fece accidentalmente cadere un pezzo di se stesso nelle memorie di Reenie, e certe cose ti seguono anche a mille chilometri di lontananza.
Certe cose ti seguono sempre.
Certe cose ti seguono e basta.
Perché forse non serviva un corso per far sorridere le ragazze dalle ali tarpate, forse servivano solamente un paio di vans nere numero 
quarantatré e mezzo.







READ ME.
Okay, sono quì.
In primo luogo, ziao a tutti ouo.
No già, facciamo le serie. Allora, che dovevo dire? Ah si, piacere, zono elizabetta, e sto cercando la fan fic giusta su cui scrivere da tipo due anni.
Ho sempre pensato di scrivere su Louis, perchè mi ha sempre ispirato come persona. A parte la sua bellezza -perchè su, diciamocelo, è meraviglioso- ciò che traspare di lui è uno di quei caratteri che, insomma, rimane impresso. Il suo sorriso, i suoi occhi, sembrano nascondere una tempesta. 
È una di quelle persone che sembra avere un corpo fin troppo piccolo per contenere così tanto. Rappresenta la mia idea di perfezione.
Invece Reenie rappresenta un pò tutto: la forza che nessuno possiede realmente, i muri senza fondamenta che crollano, la difficoltà nel ricominciare da capo e ricostruire tutto, la forza che poi -in un modo o nell'altro- devi imparare a possedere.
Poi, altre cose, si mostreranno in seguito, insomma.
Ora, non so se come storia potrà interessare a qualcuno, anche perchè ho pubblicato solo il prologo e non si capisce ancora molto, diciamo. Credo che se riscuoterà un pò di successo già dall'inizio la continuerò molto velocemente ma, comunque sia, ci sarà da aspettare due o tre settimane perchè vado in vacanza, yuppi ye.
Ora me ne vado, perchè finisce che sta parte diventa più lunga del capitolo.
Se mi volete seguire su twitter, io sono @carryistheway.
Un ringraziamento speciale va alla mia figona amica Caterina, mia musa ispiratrice per l'aspetto della ragazza, e anche colei che ha fatto il banner (non questo che c'è già nella storia, ma un altro che forse metterò, perchè ancora non ho l'immagine originale, lol).
Detto questo, ora me ne vado davvero.
Se lasciate una recensione vi dono una busta di chiocciole, sgiaaaaaaaau. (:

  
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