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Autore: Friedrike    24/07/2013    1 recensioni
Ludwig Beilschmidt e Felicia Vargas (rispettivamente Germania e Fem!Italia del Nord), in un contesto AU, quello della Seconda Guerra Mondiale. Non più Nazioni, bensì un uomo ed una donna che s'innamorano l'uno dell'altra. Si conoscono ad un ballo in Italia ed è subito amore. Ma la guerra li separa e quando il soldato della Wehramcht ritornerà dal fronte niente sarà più come prima.
Genere: Angst, Fluff, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Dovunque sarai, ti amerò per sempre.'
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Vogliono guarisca. 
Vogliono ritrovarlo in battaglia in tre settimane al massimo, a dare il meglio di sé. E per guarire, ha bisogno delle giuste cure. Lo rimandano a casa, non gli sembra vero... ma zoppica ed è debolissimo; a stento si regge in piedi. Ci prova, comunque, e con qualche sforzo viene messo insieme agli altri malati su un treno e spedito a Berlino, nella capitale del Reich.
Dorme durante il viaggio, quasi comodo, come non succedeva da chissà quanto tempo. Si sveglia solamente quando i raggi del sole gli colpiscono gli occhi ed un suo Kamerade senza più una mano, la destra per altro, appoggia l'unica che gli resta sulla spalla.
-Kamerade, dobbiamo andare- gli sussurra con un mezzo sorriso. 
Chissà perché è felice. Ludwig avrebbe preferito la morte ad una vita di stenti, senza più un arto. Ma lui sorride alla vita. Quel soldato è Callum. Un soldato inutile, com'è sempre stato, incapace di combatte. Ed ora, alla luce di ciò, Abel come farà senza di lui? La sera prima li ha visti. Ha provato un certo senso di disgusto, ma non ha detto nulla. 
Erano nascosti, come si vergognassero e, beh, secondo il biondo un po' dovrebbero. Ma lui non è come tutti i nazisti ed anche se non approva, non li denuncerà a nessuno. Terrà per sé quello che ha visto.
 
 
Abel si avvicina a Callum, ancora scosso per ciò che ha visto e sporco di sangue. Si guarda attorno. Non li guarda nessuno. Gli prende la mano.
-Come... ti senti?- sussurra accennando un piccolo sorriso.
Il ragazzo ferito fa una smorfia. -Mi fa così male la mano destra... La taglieranno, la taglieranno! E mi butteranno fuori di qui.- 
-Nein, nein, non dire così. Andrà tutto bene- cerca di confortarlo lui. Si china un po' e lascia un piccolo bacio sulla mano ferita. Callum lo guarda negli occhi spaventato. -Se ci vedessero...- Ma l'altro scuote deciso la testa. Sono soli. Non c'è nessuno e potrebbero non rivedersi più. Allora gli da un bacio, uno solo, giocando un po' sulla sua lingua. Gli carezza la guancia. -Stai attento. Promettilo.-
-Te lo giuro. Torna a casa...- 
Il biondo ha visto tutta la scena. Spalancando gli occhi, nascondendosi dietro il muro, ma l'ha vista tutta. "Quei due... si faranno ammazzare" pensa tra sé. Controlla che non stia arrivando nessuno. Un'infermiera. Deve distrarla. Le chiede delle altre anfetamine. Non ha la minima intenzione di prenderle, non vuole diventare un drogato, ma non ha scelta. Alza un po' la voce. Si fa sentire. La ragazza non si spaventa più. Ne ha visti tanti di soldati diventare aggressivi e violenti. I due ragazzi si allontanano prontamente. 
 
 
Ha bisogno di aiuto per scendere dal vagone del treno nel quale è stato stipato chissà quante ore prima. Lo aiutano due ragazzi, non li conosce, però sono molto disponibili. E' che sono tutti stanchi. Vogliono solo un po' d'affetto e dunque non possono fare a meno di spalleggiarsi a vicenda. Emotivamente troppo stanchi per ridere. C'è qualche infermiera che però ci riesce, corteggiata da un militare. La storia d'amore più vecchia di sempre. Quelle occhiate complici, quei sorrisi... una ragazza con gli occhi celesti ed i capelli rosso-castani scende svelta dal mezzo pulendosi le mani sporche di sangue sul vestito bianco. E' palesemente scossa. Le è morto un giovane tra le braccia, avevano scherzato per tutto il viaggio... 
Un'altra guardandosi in giro ha riconosciuto il suo fidanzato. Erano a due vagoni di differenza. Si avvicinano e si abbracciano stretti, lui le carezza i capelli dolce. Non ha più un braccio. Ma è vivo. 
L'ennesima infermiera segue la brandina di un soldato che chiama il nome della sua giovane moglie. La ragazza si finge tale. Lui ormai delira... Continua  ripetergli "sono qui, sono qui, non sforzarti, ti amo anch'io, sì." 
E Ludwig non può fare altro che pensare alla sua bella italiana. Chissà se lo sta pensando...
Guarda il cielo di Berlino, sorreggendosi a quella specie di stampella improvvisata. E' un miracolo che sia un buon soldato. O avrebbe già una gamba in meno.
I sorrisi stanchi e forzati dei ragazzi si moltiplicano, tutti felici di tornare a casa. Lui ha la stessa gioia. Ma non c'è nessuno ad aspettarlo. Presa la sua sacca, messa in spalla, il biondo si allontana da solo. Si ferma ad una panchina poco fuori la stazione. Affonda il viso tra le mani, guardandosi poi intorno. La sua città... quant'è bella? Tantissimo, ai suoi occhi. 
"Mathias..." Accenna un sorriso solo pensando al nome del suo bambino. 
Callum è già andato via e così molti altri. Si lascia però aiutare per quasi tutta la strada da altri due soldati, giungendo alla casa dei suoi genitori. Bussa alla porta. Gli sembra così stupido, così banale!
Dentro casa vi è la madre. Sta soffrendo terribilmente. Ha perso due figli nell'arco di qualche settimana, ma non può mostrarsi debole ed il marito non fa una piega. Chissà se lui soffre oppure no...
Si sente d'un tratto chiamare dalla domestica. 
-Signora, Signora! Frau Beilschmidt, venite, presto!- 
Ludwig si lascia scappare un piccolo sorriso notando quella reazione così bella della donna. Ha i capelli scuri legati in una crocchia alla base della nuca, la solita uniforme indosso, ed un sorriso felice, cerchiato da qualche ruga, dovuta all'età e alla poca cura che ha di sé stessa. 
-Marika, vuoi smettirla di...- 
Karline avvicinatasi all'ingresso spalanca lo sguardo notando la figura del figlio minore sulla porta. Gli occhi le si riempono di lacrime. Nasconde il viso tra le mani, poi gli si avvicina e lo stringe a sé. Nessuna l'ha mai vista in un gesto d'amore così evidente. 
Marika, sorride anche lei. 
-Entrate, entrate, sarete stanco. Com'è bello vedervi!- esclama richiudendo la porta alle spalle. 
-Mutter, piano, mi fate male- dice lui, con quel piccolo sorriso.
-Ci avevano detto che eri disperso...- spiega la donna allontanandosi un poco. 
-Disperso?- chiede il ragazzo alzando un sopracciglio. -Non lo sono mai stato.- 
La padrona di casa spalanca gli occhi. -Io ho avvertito Felicia! Quella povera ragazza pensa tu sia...- Non termina la frase, scuotendo la testa con rammarico. 
Era stata proprio lei a scrivere la lettera all'italiana, che anche adesso sta distesa a letto come fa da giorni. Ludwig le scrive immediatamente una lettere, poche righe, consegnandola poi ad un'altra domestica che vola a spedirla. Abbandonato lo zaino pesante verde militare sul pavimento, si siede su una sedia. Non può stare molto tempo alzato. 
-Dov'è mio fratello?- domanda. -Devo parlargli.-
La mamma accenna un sorriso triste. Gli carezza la guancia, mordendosi le labbra per non versare una lacrima. 
-Mutter... dov'è Gilbert?- punta gli occhi azzurri sui suoi. Lei non parla. -Ti ho fatto una domanda!- sbotta ancora.
-Lo hanno preso...- sussurra la donna. -E non so dove l'abbiano portato..- 
Il soldato annuisce, calmo. Distoglie lo sguardo, una mano sul tavolo l'altra sulla stampella.
-Ludwig, sono state le SS. Tuo fratello è...- ma è costretta a zittirsi, sussulta e tace.
Il ragazzo ha buttato per terra la stampella e ha battuto con decisione e violenza il pugno chiuso sul tavolo. Con gesto nervoso, ha fatto cadere il vaso azzurro che vi era poggiato sopra. Alzatosi di scatto, si passa una mano sul viso, facendo appena un paio di passi per sedare la rabbia, ma nulla, nulla la placa. 
Le domestiche accorrono preoccupate, ma lui non farebbe mai del male a loro. Non alle donne. -Quei figli di puttana! Lui! Ha servito il Reich meglio di quanto facciano loro! Quei bastardi! Quegli schifosi!- continua a dire, con tono di voce alto. 
Ulrich rientra in casa proprio in quel momento. 
-Silenzio! Dove ti credi di essere, Soldat?- tuona. 
Il figlio si volta e lo guarda negli occhi. Poi abbassa un poco lo sguardo, stringendo la mano a pugno, finché le nocche non diventano bianche. Possibile non capisca il dolore che sta provando? Suo fratello era tutta la sua famiglia, per lui...
Inoltre, non è felice di rivederlo, tutto intero, per altro? Digrigna i denti. 
Si avvicina a lui e fa il saluto militare. 
-State parlando col Unteroffizier Beilschmidt, Leutnant- precisa con tono tagliente, portando via la mano dal viso e rompendo le righe. Riprende lo zaino e con immensa fatica sale al secondo piano, fin alla propria camera da letto, già sistemata dalla servitù.
 
 
Ha un occhio gonfio, ma poteva andargli peggio. Deve fare il possibile per non finire in Infermeria. Ha sentito brutte voci sul conto dei medici e non si fida nemmeno un po'. Preferirebbe la morte. 
Lui però lo ha sempre saputo, che quei campi non erano come venivano descritto al suo popolo, quello tedesco. Ha sorvolato i cielo per mesi e mesi e ha notato che sulla terraferma qualcosa non andava. Ha chiesto ai suoi superiori, ma nessuno gli ha detto una parola. Così, ha eclissato la discussione. Adesso lo sa, cosa succede in quei luoghi freddi, sporchi, angusti, in una sola parola: inospitali. 
E' seduto su quella specie di letto della sua baracca, con le gambe al petto, in quell'uniforme a righe logora che quasi preferirebbe esser nudo. Sfiora appena il tatuaggio con le dita pallide. Il suo numero. Tutti ne hanno uno. Devono impararlo a memoria e saperlo pronunciare in tedesco. Lui ovviamente non ha difficoltà, ma altri internati non sanno proprio da che parte iniziare. Ci sono alcuni uomini che goffamente abbozzano dei tentativi col poco tedesco che conoscono. Nessuno vuole parlare con lui. Hanno sentito che, al momento della presentazione, ha detto "ho servito il Reich." Non avrebbe dovuto farlo, ma non se ne pente. Socchiude appena gli occhi e si lascia scappare un sospiro. Senza muoversi di lì, sussurra qualcosa, ma dato che il gruppetto sembra ignorarlo -o semplicemente non ha sentito- ripete nella lingua madre, scandendo le sillabe, il numero. Quello suo è il 98506. 
Gli altri prigionieri non vogliono ascoltarlo. Ma l'istinto di sopravvivenza e il timore verso le SS hanno il sopravvento. Ripetono con lui ognuno il primo numero finché non sono sicuri di pronunciarlo correttamente. 
Gilbert chiudendo gli occhi pensa al giorno prima. Appena arrivato, uno dei Kapo,  aveva richiamato la loro attenzione, parlando dell'ovvio. Avrebbero dovuto andare presto a dormire, cinque persone a cuccetta, il mattino dopo avrebbero ricevuto la colazione e delle coperte. L'albino aveva già immaginato in che condizioni fossero. L'altro aveva aggiunto qualcosa come: -Non createci problemi. O finite dov'è giusto che stiate; all'Inferno.-
Il ragazzo non riusciva né riesce ora a capire. Il Kapo, che si era presentato col nome di Sam, non tradiva alcuna emozione e si accaniva contro chiunque osasse muovere un solo muscolo, servendosi di un bastone. Le SS gli avevano dato quest'autorità. Ma come poteva, lui, caposquadra scelto però tra i prigionieri stessi, trattarli così male? 
Passata da poco l'alba, tutte le divise a strisce vennero riunite nell'Appelplazt. Come l'albino avrebbe imparato presto, almeno due volte al giorno, sarebbe stato fatto un Appel, appello. La fissazione marchiata tedesca per l'ordine e la disciplina, per il catalogare gli uomini come fossero bestie, e loro lo avrebbero presto capito, non manca occasione per manifestarsi. 
Gilbert ha lavorato molte volte fino ad essere esausto perciò i primi giorni al campo non lo stanca particolarmente. Ma iniziando a sentirsi indebolito per via dello scarso nutrimento e delle scarse condizioni igieniche, anche le sue prestazioni crollano. 
Un paio di mattine dopo si sveglia di soprassalto sentendo qualcuno urlare. Si mette immediatamente seduto sbattendo la nuca alla cuccetta di sopra e scende con un tonfo dalla propria per capire cosa sia successo. Gli altri continuano a dormire come se la cosa non li interessasse. 
Un ragazzo di circa sedici anni è stato beccato a tentare la fuga. L'albino si avvicina presto a lui, ma non esce per il momento dalla baracca. Il ragazzino è a pochi metri da lui. Accanto, una pozzanghera di sangue con alcuni denti. Sta chiedendo pietà. Ma le SS non ne hanno e adesso lo stanno picchiando. 
Gil vorrebbe intervenire. Digrigna i denti, cercando di impedirselo, perché sa che sarebbe equivalente a firmare la propria condanna a morte per impiccagione o percosse. 
Non gli importa. Si avvicina svelto a lui e, come lui, si prende qualche mazzata. 
La vista si annebbia, è un miracolo se non lo ammazzano. Aprendo un occhio, riconosce il soldato con la divisa nera che pochi giorni prima aveva commentato il suo luogo di nascita. Che abbia riconosciuto il prigionieri e voglia dargli una possibilità? Forse. 
Ma Gilbert dovrebbe imparare ad essere egoista, ogni tanto. 
 
 
Marika bussa alla sua porta.
Lui continua a guardare il soffitto. Ha gli occhi chiusi, il volto così stanco e dimagrito, da non sembrare lui. 
-Avanti...- sussurra. 
La donna apre un poco la porta e fa capolino con la testa. -Posso?- domanda educata, sottovoce. Lui fa cenno di sì. Adesso lo sguardo è puntato in direzione della porta. Si sforza di mettersi seduto. 
Lei entra e richiude la porta alle spalle. Ha con sé una bacinella ed alcune piccole altre cose. Si avvicina ed appoggia il tutto sul comodino. -Permettete? Vorrei lavare la vostra ferita.- 
Il ragazzo annuisce con sguardo perso nel vuoto. Scopre la gamba. Quella donna lo ha visto crescere e non c'è una parte di lui che non abbia visto. 
Bagna uno strofinaccio pulito con dell'acqua tiepida. -Vi ricordate quand'eravate bambino? Ero io a farvi il bagno, a curare le vostre ferite, i vostri malumori... vostri, e di vostro fratello. Permettetemi di dire che vi ho considerati sempre miei figli; e, Ludwig, vi conosco bene. So che stare soffrendo. E sapete che con me potete sfogarvi quanto volete.-
Il ragazzo tiene il capo basso, lasciando che la donna disinfetti la ferita. Stringe gli occhi sentendo il bruciore, ma non si scompone più di tanto. Nasconde il viso in una mano, trattenendo a fatica qualche lacrima. 
Marika sospira lievemente. -Testardo. Come vostro fratello. Cuore d'oro entrambi. Stessa bontà d'animo. Mi chiedo da dove l'abbiate ereditata.- Accenna un sorriso. Con fare materno appoggia una mano sui suoi capelli biondi. -Pensate al vostro bambino. Non può vedervi così. Siate forte; e la vostra signora avrà sofferto moltissimo. Siete un così bravo ragazzo... tenete duro.- 
Si mette dunque a medicare la ferita. Lui non dice nulla. 
-Quasi dimenticavo- riprendere la donna. Tira fuori dalla tasca de grembiule un quadernetto un po' vecchio e glielo porge. -Questo era il diario di vostro fratello. Ne ha sempre scritto uno da quando ha imparato a farlo. Se volete, posso darvi gli altri. Li ho conservati.-
Ludwig accenna una specie di sorriso. -Ja... danke.- 
Prende il diario tra le mani. Mentre la domestica sistema il suo borsone militare e gli prepara un bagno caldo, inizia a sfogliarlo.
 
 
Diario di un pilota.
 
Caro diario,
non mento dicendo di essere un Magnifico pilota. Modestamente, diventerò uno dei migliori.
Oggi ho volato per la prima volta. Non avevo paura. Non riuscivo a chiedermi "e se cado? e se mi faccio male? se sbaglio manovra?" perché l'unica cosa che pensavo in quel momento era "vai, più su, più in alto!". L'adrenalina ha un buon effetto su di me. Non perdo la lucidità, sono proprio fantastico! 
Alcuni compagni mi hanno guardato storto. Non li conoscevo tutti né ho intenzioni di conoscerli. C'era un tipo simpatico, un certo.. com'è che si chiamava? Beh, abbiamo deciso di allenarci duramente e fare acrobazie insieme. La vite orizzontale, per esempio. Ci riusciremo, ne sono sicuro. Un giorno saprò pilotare così bene l'aereo che persino il Furher ammetterà pubblicamente la bravura di questo pilota albino! ...Forse.
Oggi ho visto Heide. E' una ragazza stupenda. E' dolce, divertente e proprio bella. Ride sempre alla mia battute. Ah, no: non mi piace. Solo che con lei sto bene. Vorrei farmela ma so che è impossibile. Lei è... ariana. Bionda, occhi verdi. E' perfetta per questo mondo. Io, no.
Adesso devo andare in Caserma, diario. 
Ci si sente presto.
 
Il pilota migliore del Reich mondo.
 
 
Accenna così un sorriso, il biondo, leggendo ancora qualche pagina. 
Sfiorandone la copertina blu scura con le lunghe dita sottili, ripone il diario nel primo cassetto del comodino e a fatica si chiude in bagno immergendosi nell'acqua calda. Chiude gli occhi.
"Gilbert... resisti. Finirà presto, te lo giuro..." 
Sospirando appena, prende un po' d'acqua con la mano e si bagna il viso ed i capelli. 
Quella sera, appena rientrato dall'ospedale militare nel quale si è recato nel pomeriggio, ha una nuova fasciatura, le nuove cure mediche lo fanno stare già un po' meglio. 
Prima di avvicinarsi alla sala da pranzo per consumare la cena, zoppicando un po' si dirige in camera del fratello. Richiude la porta alle proprie spalle, non gli va di essere visto. Si guarda intorno. "Com'è diversa, senza di te, Bruder..." pensa tra sé ed accenna un sorriso malinconico, sfiorando con le dita alcune fotografie del fratello con la tenuta da pilota. Apre un cassetto, non vi trova nulla di utile, ne apre un altro ed un altro ancora. Le anfetamine. Corruga la fronte rigirandosi la confezione tra le mani. "Gilbert... dimmi che non è successo" lo prego. Chiude la mano stringendo al petto il piccolo pacchetto con ancora qualche pillola. Lo nasconde nei pantaloni. Si siede con un'espressione affranta sul volto sul letto, appoggiando la nuca al cuscino. E mettendosi più comodo, trova un foglio di carta, una pagina di diario strappata. L'ultima scritta dall'albino. Con un sorriso triste la rilegge due volte. "Questo non è più un diario, ma una lettera. L'ultima che abbia scritto. E lo ha fatto per me."
Nascondendo anche questa addosso, caccia via una lacrime e sentendosi chiamare per la cena, esce di lì. Marika lo guarda. -Oh, eravate qui allora...- sussurra. Anche lei sorride lievemente. 
Lui si accomoda in sala da pranzo per cenare, silenzioso, com'era abituato a fare intorno al fuoco, con i suoi commilitoni. Non ha voluto toccar cibo in quelle poche ore nella capitale tedesca, ma adesso divora qualsiasi cosa gli venga messo davanti. Di certo, lo fa con garbo. Gli scappa una specie di sorrisetto pensando che il fratellone avrebbe fatto diversamente e subito dopo appoggia un momento il viso alla mano, abbandonando la forchetta nel piatto.
La madre lo osserva, non osando fiatare. Il padre lo guarda pure lui, disgustato. 
-Cosa fai, Soldat, piangi come una mocciosa?- lo schernisce. 
Ludwig torna ad avere lo sguardo alto e fiero che ha imparato a portar sin da quand'era un bambino e riprende a mangiare silenziosamente. Non ha voglia di rispondergli. Né di piangere. 
"Felicia... quando arrivi? Ho bisogno di te e di mio figlio."





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Note.


Sta... sta finendo tutto. Questo è il terzultimo capitolo. Ne seguiranno soltanto due. Mi sembra così strano! Mi mancheranno moltissimo, ma non lasciamoci andare coi sentimentalismi già adesso. Recensite. Grazie di aver letto. 
  
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