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Autore: Fanriel Kerrigan    26/07/2013    0 recensioni
La Bianca ancora là, fredda e distante.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Erto era il mio paesino. Lungo la stradina di sassi che portava alla mia casa soffiava un gradevole venticello estivo, una panacea per la mia fatica quando ero di ritorno dalle lunghissime giornate in cui aiutavo i miei genitori a pulire le stalle e a raccogliere le sterpaglie per permettere ai nostri campi e piantagioni sulle pendici del Toc di riposarsi nell’inverno. I nostri terreni erano molto più estesi prima che arrivasse la Bianca.

La Bianca era quella cosa così brutta, la diga,  che vedevo tutte le mattine affacciandomi alla finestra: avevano ingabbiato il torrente Vajont, il nostro bel fiume, ottimo per i bagni estivi, e l’avevano trasformato in un lago enorme che si è prima mangiato una buona fetta del nostro frutteto e poi la casa natia dei miei genitori.

Io stessa li ho aiutati a smantellare il recuperabile per portarlo in salvo mentre l’acqua da sotto saliva lenta. La sensazione era di gelo alle caviglie, una sensazione artificiosa e sgradevole, ben diversa dal fresco fluire delle acque pulite e corroboranti del fiume Vajont.

E la Bianca sbarra minacciosa la gola del torrente Vajont, da cui, prima del suo arrivo, in lontananza vedevo Longarone con le sue luci e il suo indubbio fascino.

Era tutto il mio mondo, fatto di lussi che ad Erto nemmeno potevamo permetterci. La mia famiglia non era una famiglia povera ma vedere Longarone dalla mia finestra mi dava la sensazione del poter sperare in qualcosa di diverso: era stato proprio a Longarone durante una sera estiva che avevo conosciuto Carlo.

Carlo era un ragazzo di Pirago, paesino piccolissimo rannicchiato sotto alle prime case di Longarone, ed era piaciuto subito ai miei che avevano acconsentito ad accompagnarmi in città in occasione del mio compleanno.

Carlo spesso saliva in motorino a trovarmi e passavamo molto tempo a parlare, seduti lungo le sponde del finto lago, a guardare il via vai di uomini sulla diga e ad ascoltare la montagna che crepitava come se all’improvviso avesse preso vita.

Succedeva anche che la terra tremasse sotto ai nostri piedi ma ci avevano rassicurato che era tutto normale, tutto previsto.

Io in quei tempi guardavo sempre più nervosamente i sassi della mia casa di Erto e la carta da parati che sembrava essersi tesa, con la paura che crollasse tutto.

D’altra parte sia io sia Carlo quasi tifavamo per la montagna: che il Monte Toc si mangiasse la Bianca e gli uomini cattivi che ci lavoravano e con le loro carte avevano fatto piangere i miei genitori, i miei nonni e anche i suoi genitori e i suoi nonni.

Un giorno di Settembre poi Carlo mi fece la proposta di matrimonio mentre era da me, a pranzo, con i miei genitori presenti com’era buona usanza.

Avevamo preso posto a tavola, pranzando silenziosamente, quando all’improvviso Carlo si alzò e tormentandosi le mani dietro alla schiena si girò verso di me e poi verso i miei genitori , che si sorrisero a vicenda, e poi di nuovo verso di me.

“MariaSper…”

Non fece in tempo a finire la frase che un rumore di tuono, ma proveniente dall’interno del Toc, fece vibrare la casa intera, la cucina, l’acqua nei bicchieri. Durò secondi eterni, giusto il tempo perché tutti e 4 ci fiondassimo in strada assieme ai miei terrorizzati compaesani.

La scossa di terremoto finì e tirammo un sospiro di sollievo, senza riuscire a celare un istante di preoccupazione: era stata così forte come non mai. Eravamo talmente abituati che nemmeno uscivamo più in strada per le scosse ma era stato diverso stavolta.

Allungai lo sguardo sul monte Toc, guardando quella sorta di sorriso al contrario che si era formato quasi a metà della montagna. Sembrava la M di MariaSperanza, la mia firma sulla montagna.

Non rientrammo in casa, non subito: avevamo tutti e 4 le gambe di marmo per la paura appena passata ma Carlo raccolse fiato ed energie per prendermi la mano e dire con voce strozzata: “MariaSperanza vuoi sposarmi?”

Io mi girai verso i miei genitori che sembravano essere d’accordo e dissi di sì con una voce strozzata che non sembrava nemmeno alla mia.

Ero nervosa per qualche motivo che non mi spiegavo. Era una bella prospettiva quella di un matrimonio con un ragazzo di Longarone, della città, nella chiesa di Pirago dietro la quale avevamo spesso parlato mangiando frutta e ridendo del nostro futuro, indicando la Bianca che sembrava così distante da noi.

Passarono i giorni, ero tesa: le mie parenti femmine mi volteggiavano attorno come ballerine. Non appena la notizia del mio matrimonio con Carlo fece il giro del paese scoprii di avere una quantità inaspettata di zie.

Appena ne avevo la possibilità sgusciavo fuori di casa e rimanevo a lungo ad osservare la Bianca prima e la frattura a forma di M sulla montagna che sembrava sempre di più ad un sorriso al rovescio.

La terra tremava sempre più spesso e capitava sempre più spesso che scappassimo in strada perché le scosse erano diventate davvero tremende.

Guardavo verso Longarone e pensavo al mio futuro e per un attimo mi tranquillizzavo.

 

La data del matrimonio era l’11 ottobre.

Il mio vestito era pronto, preparato dalle mie riscoperte e solerti zie.

La sera del 9 ottobre vidi Carlo che dopo la solita passeggiata sulle rive del lago (dall’aspetto sempre più feroce e disgustoso: l’acqua era diventata gialla e argillosa da un po’) mi disse che a Longarone trasmettevano in Eurovisione la partita Real Madrid-Glasgow Rangers, un’occasione imperdibile per lui che era sempre stato appassionato di calcio.

Annuii con il cuore un po’ pesante: non mi andava mi lasciasse sola in quel momento in cui avevo così paura. Non so perché avessi tutta quella paura.

I miei genitori non mi avrebbero mai lasciata andare a Longarone così tardi la sera così alle 20 lo salutai e mi incamminai verso la mia bellissima casina, con mia madre alla finestra che vedendomi si mise una mano sul petto esalando un sospiro di sollievo.

La cena mi accolse con il suo profumo e mangiai di gusto il minestrone, il frico e l’insalata, poi la frutta.

Mia madre era una cuoca eccezionale.

Avrebbe avuto molto da insegnarmi.

Per quanto la cena fosse stata gustosa, per quanto il mio umore fosse ottimo per le imminenti nozze, il mio cuore era ancora stretto in una irragionevole morsa di panico. Un freddo che mi era entrato nel profondo dello stomaco e che non mi lasciava andare più.

Erano le 22 36, non avevo ancora preso sonno.

Stavo fantasticando sul mio bellissimo abito da sposa, su come avrebbe potuto essere l’abito di Carlo.

Le luci nella mia piccola cameretta erano spente. Dalla finestra entrava la fredda luce bianca artificiale delle fotoelettriche, proveniente dalla Bianca.

Il vento all’improvviso si fece più forte, la luce aumentò di intensità come se si fosse acceso un sole davanti alla casa, venni travolta da un rumore come di mille balconi sbattuti contemporaneamente. Per un attimo mi parve di fluttuare nel nulla e caddi dal letto. Pareva la casa si fosse messa a danzare.

Avevo battuto la testa, avevo una ferita sulla fronte che sanguinava copiosamente, c’era un buco sul soffitto e un sasso vicino a me, potevo intuirne solo la sagoma nella bruma che mi inumidiva le membra.

Girai dolorosamente la testa verso il soffitto, verso quel buco. Per il colpo che avevo preso, per la forza con cui ero stata presa e sbattuta a terra, anche la schiena mi doleva.

Pensai ai racconti di guerra di mio nonno. Al rumore che continuava in lontananza. Pareva tutti gli abitanti della vallata avessero preso a fare tutto il baccano che potevano. Il tremore attraversava la terra e mi attraversava il corpo.

I minuti si allungavano. O erano ore? No, sembravano giorni.

Ed io, io ero immobilizzata, incapace di fare qualsiasi cosa.

All’improvviso finì tutto.

La bruma puzzolente e sporca era in sospensione attorno di me. Sembrava mi si fosse insinuata nelle ossa.

Udii lontanissima e remota la voce di mia madre che mi chiamava. Remota come il sole.

Vidi la sua faccia apprensiva guardarmi, posarmi una mano sulla fronte. Aveva gli occhi spalancati su un viso sporco come non l’avevo mai visto, nemmeno dopo la peggiore delle giornate nei campi.

Mia mamma sparì di nuovo dal campo visivo e tornò con uno straccio bagnato. Me lo posò sulla ferita e si rannicchiò accanto a me.

Si mise a piangere e mi scoppiò il cuore.

Pensai alla Bianca, pensai al monte Toc e a Carlo.

Non ero stata in grado di formulare un solo pensiero fino a quel momento ma sentire mia madre piangere accanto a me rimise in moto il circolo del sangue nel mio corpo che pareva essersi fermato del tutto.

Mi puntellai con le mani sul pavimento che pareva danzare sotto ai miei piedi scalzi. C’erano i frammenti dei vetri della finestra che mi aprivano ferite mentre camminavo e mi affacciavo. Mia madre si alzò e si affacciò assieme a me.

Albeggiava.

Non ero molto sicura di riuscire a rimanere in piedi e mi poggiai a lei, accorgendomi solo in quel momento che aveva le braccia graffiate.

Non capivo niente. Nulla. Non c’era più il lago. C’era una coltre bianca che copriva tutto.

La M sul toc c’era ancora ma da lì in giù era tutto bianco, pastoso, distrutto.

E in fondo la Bianca, che ci sorrideva.

Cercai di portare il mio sguardo oltre, il cuore congelato nel petto, e vidi che Longarone con le sue case era solo una larga spianata bianca, bianchissima. Un fantasma.

C’era movimento di esseri umani, molto movimento di esseri umani.

Non so per quanto tempo osservai quel misterioso agglomerato bianco.

Mentre il sole saliva nel cielo polveroso, la bruma si posava a terra colorando di fango tutto ciò che toccava.

Tenendomi al braccio di mia madre mi recai verso la cucina.

La finestra non c’era più, la porta era spalancata.

Mio padre era in piedi sulla soglia che guardava la stradina di Erto che si era trasformata in una corsia di ospedale.

Un pensiero si delineò nella mia testa ancora confusa.

“Carlo dov’è?”

Mi allontanai da mia madre che fece un flebile sforzo di trattenermi e zoppicando, ancora scalza, chiesi notizie di Pirago e di Longarone a chiunque trovassi lungo la strada.

Nessuno mi parlò ma tutti scossero la testa, sconsolati, con le lacrime agli occhi. Tutti indistintamente con la pelle color fango.

C’era troppa confusione attorno a me per pensare che Carlo non ci fosse più.

 

Non riuscii a tornare ad Erto per mesi. Io, mia madre e mio padre raccogliemmo le nostre cose e degli uomini in divisa, gentili ma inesorabili, ci consigliarono di allontanarci.

Andammo da alcuni parenti a Belluno. L’ultima cosa che vidi di casa mia fu la carta da parati a fiori della piccola cucina.

E ovviamente, la Bianca, ancora in piedi, beffarda, come se nulla fosse successo.

 

Mio padre era inquieto e dispiaciuto e anche arrabbiato: non poteva accettare di aver perso campi e coltivazioni e bestiame e casa. Era contento di avere ancora me e mia madre ma non accettò mai di essere stato costretto a lasciare Erto, la sua Erto.

Io invece non ero ancora capace di rassegnarmi.

Costrinsi mio zio ad accompagnarmi fino a Longarone in macchina e davanti alla mia disperata determinazione acconsentì.

Quel tragitto fu accompagnato da un silenzio quasi sacro. Il movimento di uomini e mezzi attorno a longarone era notevole. Era l’11 ottobre, pensai.

La strada ad un certo punto si interruppe. C’erano soldati in divisa a consigliare alle poche auto di passare e non si vedeva nulla di ciò che c’era oltre ai mezzi militari.

Mio zio rassegnato ingranò la retromarcia. Io rapidissima aprii lo sportello della macchina e scappai fuori. Fui talmente rapida da riuscire a sgusciare attraverso i due soldati e a mettere i miei piedi su ciò che non avrei mai immaginato di poter vedere.

Era davvero tutto un indistinto pastone bianco. Spuntavano in mezzo al pallore le sagome delle persone, dei militari con le pale, con le divise sporche di fango. Gli scheletri di travi, ruote di auto, lamiere e pietre.

I miei piedi affondavano nel fango che mi attanagliava le caviglie e mi stringeva il cuore.

Guardai approssimativamente nella direzione di Pirago e vidi il campanile ancora in piedi.

L’ultimo barlume di vita in mezzo al sterile fango.

Pensai che era il giorno in cui avrei dovuto sposarmi.

I soldati mi presero e mi riaccompagnarono facendo una certa pressione verso mio zio, completamente ammutolito e terrorizzato.

Il mio sguardo non lasciò il campanile di Pirago.

Mi lasciai cadere di peso a terra, i soldati colti di sorpresa non mi sostennero e con le mani artigliai il fango, l’immoto fango, e ne raccolsi una manciata.

Come un sacco di patate mi trascinarono verso la macchina. Guardavo ancora il campanile e poi guardai più distante, più in altro.

La Bianca ancora là fredda e distante.

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE  

Studio la tragedia del Vajont da 3 anni, da quando ho visto per la prima volta lo spettacolo di Paolini e poi la diga. Sono stata parecchie volte lassù e il mio cuore l'ho lasciato ad Erto Vecchia. Ci sono i fantasmi che abitano ancora quelle case. In alcune puoi guardare dentro e vedi ragnatele e polvere e segni di una vita che ormai non c'è più da 50 anni. Durante l'ultima gita ho visto una casetta con le finestre aperte con la carta da parati con i fiori amaranto e il soffitto in legno consumato, marcito, lercio e ho voluto immaginare che lì ci abbia vissuto una ragazza di nome MariaSperanza che durante la sua vita ha dovuto subire la devastazione di quello che rimane tutt'ora uno dei più costosi ECCIDI DI STATO della storia contemporanea. La memoria storica è la nostra eredità più preziosa. Non dimenticatevi del Vajont, perché non succeda più.  

  
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