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Autore: Cruel Heart    27/07/2013    6 recensioni
Song-fic su Nobody's home
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Mai mi sentii tanto sola,come in quel momento.
Mai mi sentii più abbandonata,come in quel buio che mi circondava.
Vorrei essere una donna che ama abbastanza se stessa,da non voler soffrire più,ma purtroppo non lo sono.
Ero intrappolata in quest’abisso,e non credo che ne sarei uscita mai.
Ma la cosa che rimpiangevo di più era il tempo,perché di essere intrappolata in quest’abisso,me ne ero accorta troppo tardi.
Genere: Drammatico, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ok,eccomi qui con una nuova OS.

Non so se sia proprio una song-fic comunque,perché io ho preso il video della canzone “Nobody’s home” e ci ho fatto un racconto mio.

Spero che comunque vi piaccia.

 

Il sole stava sorgendo.

Almeno lui,stava illuminando l’inizio di un nuovo giorno con i suoi raggi tiepidi,che mi colpivano il viso.

 

Forse,inconsciamente,stavo cercando un riparo,un’ancora a cui aggrapparmi,una fonte di calore che poteva riscaldare e affievolire,seppur leggermente,i miei rimorsi e le mie sofferenze.

Forse,quella fonte di calore che tanto agognavo,poteva in qualche modo essere rimpiazzata da quei raggi dal colore arancione appena accennato,che illuminavano un cielo così freddo e grigio,che sembrava essere quasi indifferente e incurante del sole appena sorto.

 

Mi avvicinai al ponte,sembrava come se un impulso irrefrenabile dentro di me,facesse muovere le mie gambe in maniera autonoma.

Osservai la distanza tra il punto su cui ero sospesa e la terraferma,osservai il cielo,così inospitale ad ospitare un sole che sembrava volermi accompagnare nel mio ultimo viaggio.

Non sentivo niente,il nulla più assoluto faceva da padrone.

Era tutto nero attorno a me.

Nero,come i miei capelli corti e ispidi.

Nero come il buio,che mi avvolgeva spesso come una seconda pelle.

Nero,come la morte,che adesso stavo andando a cercare,come fosse una mia vecchia amica che non rivedevo da tempo.

Nero, come solo il nero può essere.

Ma,a volte,anche il nero incontra l’unico colore di cui poteva avere paura. Il bianco.

Il bianco della neve che osservavo scendere copiosa nelle fredde giornate d’inverno,mentre io ero al calduccio accanto al camino e alle braccia protettive di mia madre.

Il bianco lucente delle stelle,che in quelle poche giornate limpide e prive di nuvole,mi fermavo a guardare estasiata.

 

Il bianco che sconfiggeva il nero.

I ricordi e la paura di perderli per sempre,contro il presente e la depressione,di cui era l’assoluta protagonista.

 

Ed era per quella stessa paura che mi allontanavo in fretta,quasi scottata dal gesto che stavo per fare.

Ma cosa mi stava succedendo?! Io…io non potevo perdere tutto così,senza aver prima lottato con le unghie e con i denti.

 

“Non scappare,rimani qui. Fammi felice” mi aveva detto,e io come la peggiori delle ipocrite,l’avevo delusa.

Ero andata via,senza darle una spiegazione decente,senza tenere conto dei suoi sentimenti e delle sue preoccupazioni.

Era passato tanto di quel tempo,che forse,mi credeva morta.

E forse,era meglio così.

Perché? Semplice,niente più dolori,niente più sofferenze atroci per lei,la donna che mi aveva messo al mondo,l’unica persona che mi aveva mai amato e l’unica che davvero non meritava tutto questo solo per un mio capriccio.

Mia madre.

 

Mentre mi crogiolavo nel mio dolore,capivo che l’ultima cosa che avrei voluto fare,era sentire la sua voce,la sua roca e dolce voce,che mi aveva consolato tanto,e che alla domanda: ”Mi ami anche tu così come ti amo io,piccola mia?”,non aveva mai potuto ringraziare per aver ricevuto una risposta da parte mia.

 

Ma,per farlo,dovevo trovare un cellulare,o una cabina telefonica,ma non sapevo neanche dove…

Certo, il negozio vicino alla fermata dell’autobus dove dormivo da qualche tempo.

Mi ricordavo che lì intorno ci sarebbe dovuta essere una cabina vecchia e un po’ trasandata,perciò proverò da lì.

Incominciai a fare l’autostop,non sapevo neanche dove mi trovassi,ma sicuramente il mio corpo non aveva abbastanza forze per raggiungere il supermercato a piedi.

Per strada passavano decine e decine di automobili,ma nessuna,ovviamente mi prestava anche una minima attenzione.

Altri automobilisti invece rallentavano,mi squadravano da capo a piedi,e poi,schifati,se ne andavano.

E io,cosa potevo fare,se non rincorrere quelle schifose macchine lussuose,e pensare in un loro ripensamento?

Niente.

 

Poi,all’improvviso,un uomo pelato,grosso,sulla cinquantina,si fermò con la sua jeep,e abbassando il finestrino mi chiese:”. Dove andiamo,tesoro?”

 

“Ehm…il supermercato Super Wallet,per favore” dissi,nella speranza che almeno per un giorno,la vita mi avesse concesso un po’ di fortuna. Ma,ovviamente,mi sbagliavo.

 

“Oh bene,credo che in un posto isolato sia meglio,no?” mi chiese,facendomi l’occhiolino.

Non capii a cosa si riferisse,ma decisi di lasciare perdere.

L’unica cosa che volevo,era risentire mia madre.

Non m’importava né come,ne con quali soldi l’avrei fatto,ma ci sarei riuscita.

 

Dopo una quindicina di minuti,vidi l’insegna del supermercato,e feci per aprire lo sportello.

 

“Ehm,grazie,lei…lei è stato molto gentile ad accompagnarmi e…” ma lui non mi lasciò finire.

Subito dopo aver parlato,l’unica cosa che sentii furono le sue mani grandi,ruvide e impazienti toccarmi le gambe fasciate dai jeans ed entrare sotto la mia felpa.

 

“Ehi ehi,dove credi di andare? Mi devi ripagare adesso. Dai,tira fuori tutti i preservativi che hai,credo che tu sia proprio una di quelle puttane che se lo fa infilare da tutti,vero?”

 

Ero completamente in stato di shock.

Io…io non volevo che lui mi toccasse,ma…era troppo forte per me.

 

“NON…NON MI TOCCARE!” gridai.

 

“Mmh,così non fai che rendere il tutto molto più eccitante” mi sussurrò all’orecchio con il suo alito schifoso.

 

Il mio corpo,questa volta,si mosse prima delle sue mani,e gli mollai un ceffone ben assestato sulla guancia sinistra che lo lasciò traballante e mi diede il tempo di scappare verso la fermata dell’autobus,dove non avrebbe potuto raggiungermi.

 

Stranamente,la mia mente non reagì come mi aspettavo,anzi,sembrava essere molto più reattiva del mio corpo,che al contrario,faticava a reagire.

Lì,appoggiate alla panchina della fermata,trovai Monique,una mia amica sventurata come me,che per mantenersi faceva la prostituta,e accanto a lei, la mia fidata chitarra,l’unico oggetto che mi fossi portato da casa,e incominciai a suonarla per strada.

 

Blues,County,Rock…non m’importava dei pezzi che suonavo. L’importante,era fare soldi.

Alcuni passanti si fermavano,giudicandomi per i miei sbagli e passando oltre,altri non si fermavano affatto,e altre anime buone,lasciavano qualche spicciolo per allietare le giornate tetre e vuote di una povera ragazza in difficoltà.

 

Alla fine della serata,avevo guadagnato abbastanza per permettermi una sola telefonata,ma ovviamente la cabina non avrebbe accettato tutti quei centesimi.

Così,decisi di entrare nel supermercato,per fare un semplice scambio,ma anche qui,non fui trattata come una persona,e fui cacciata fuori dal proprietario.

 

Mi sentivo usata,schifata e delusa da tutto e da tutti,ma soprattutto da me stessa.

Da me stessa,che avevo gettato all’aria tutto.

Da me stessa,che mi ero trascinata e affossata nel baratro,nel nero più profondo.

Mi fiondai nel bagno dello stesso supermercato,sapendo già con chi prenderla.

Odiavo quel colore così profondo,da farmi soffocare.

Mi odiavo,perché il nero, lentamente, era diventato la mia vera essenza.

Incominciai a pettinarmi furiosamente i capelli,a sciacquarmeli e ad asciugarmeli senza sosta,nella speranza di eliminare almeno parte delle mie sofferenze.

Appoggiai le mani al lavabo e mi guardai allo specchio.

L’unica cosa che vedevo era quel colore, lo sentivo addosso, lo sentivo espandersi dentro di me,cercando di coprire le mie cicatrici esteriori,ma anche quelle più difficili da cancellare,quelle interiori. 

Era parte di me. Nero. Una parola descriveva tutta la mia esistenza.

Ma non era sempre stato così. Un tempo avevo conosciuto altri colori. C’era stato un momento in cui la mia vita era fatta di colori. Un tempo in cui anche per un essere così infimo come me,c’erano state quelle deliziose e fantastiche sfumature a riempirmi l’esistenza. Un tempo in cui c’erano delle spalle amorevoli a cui aggrapparsi, su cui piangere e venire consolati.

E forse,oggi,avrei sentito la sua voce.

 

Uscii dal bagno e mi diressi ancora verso la fermata dell’autobus,verso Monique.

 

“Ehi Avril,ma che cosa ti è successo?”mi chiese lei.

 

“No niente,davvero. Senti Monique,non ti chiederei mai una cosa del genere se non fosse necessario,ma…”

 

“Ma?”

 

“Si,insomma…potresti cambiarmi questi pochi spiccioli? Sai,li ho guadagnati questo pomeriggio con la chitarra,e li vorrei usare solo per risentire la voce di mia madre” le confessai,abbassando lo sguardo e lottando contro le lacrime che premevano di uscire dai miei occhi.

 

“No,non ti preoccupare,sai che a me puoi chiedere tutto,specialmente se si tratta di una sciocchezza del genere. Tieni,e va a chiamare tua madre.”mi disse,porgendomi quei soldi che per me rappresentavano una nuova speranza.

 

“Grazie,grazie davvero” le dissi,sorridendo per la prima volta dopo chissà quanto tempo,e raggiungendo la tanto agognata cabina.

 

Inserii i soldi,ricordavo a malapena il numero di casa,che riuscì però a digitare,tremante sia per il freddo che per l’emozione.

 

“P-pronto?” mi chiese la SUA voce,rotta dal pianto.

Non ero abbastanza pronta,non ero preparata a sufficienza.

Le fitte e il dolore che il risentire la sua voce mi provocò,fu straziante.

Mi accasciai sul vetro,gridando in silenzio e cercando di soffocare i pianti e singhiozzi.

 

“M…mam,,,”

 

“S-senti,non so chi tu s-sia,m-ma abbi al-lmeno un po’ di rispetto p-per le persone che stanno s-soffrendo!” mi disse disperata.

“Mamma,sono io! Sono Avril,ti ho chiamato! Mi senti,riesci a sentire la mia voce?!” avrei voluto dirle. Ma non me ne diede il tempo.

Riattaccò due secondi prima che riuscissi anche solo a emettere un miserabile suono.

 

Uscii,sconfitta,straziata e piangente da quella cabina malridotta.

Ma perlomeno,quella giornata mi regalò un ultimo sollievo.

 

Quella sera di settembre piovve,piovve come non fu mai successo a Los Angeles, e almeno le gocce di pioggia si confondevano tra le mie lacrime,inzuppando e bagnandomi i vestiti ormai logori.

 

Cercai riparo in un parcheggio,trovando un’auto che non era stata chiusa e mi ci infilai dentro,portandomi le ginocchia al petto.

 

Mai mi sentii tanto sola,come in quel momento.

Mai mi sentii più abbandonata,come in quel buio che mi circondava.

Vorrei essere una donna che ama abbastanza se stessa,da non voler soffrire più,ma purtroppo non lo sono.

Ero intrappolata in quest’abisso,e non credo che ne sarei uscita mai.

Ma la cosa che rimpiangevo di più era il tempo,perché di essere intrappolata in quest’abisso,me ne ero accorta troppo tardi.

 

P.S. Qui c’è un video alternativo del video ufficiale di Nobody’s home. Se non lo conoscete,guardatelo.

 

Nobody’s home – versione alternativa

   
 
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