Ma
che bell’accoglienza!
Non me
l’aspettavo davvero, è stato piacevole e vi ringrazio.
Se
mi conoscete sapete che sono lenta e quindi non ci avrete
trovato nulla di strano, ma in ogni caso mi scuso: purtroppo questo
aggiornamento ha dovuto slittare causa impegni solenni e spostamenti
internazionali della sottoscritta me medesima, e anche la mia beta, povera,
lavora come un mulo. (Grazie mille, amica e sodale).
Insomma,
ci ho messo dieci giorni a correggere gli errori. Lo so, è disdicevole.
Ma
spero che il risultato sia di vostro gradimento.
Oggi
vi lascio con lui.
George
Quando
si svegliò, quel mattino, la testa gli faceva male da morire, lo stomaco
bruciava come se fosse stato in fase di autocombustione e le orecchie gli
fischiavano in modo insopportabile. Tutt’e due,
anche quella mancante.
Per
prima cosa guardò l’ora, scoprendo che era quasi mezzogiorno, poi
il calendario. Diciotto ottobre:
cinquecentotrentaquattro giorni e dieci ore, all’incirca, minuto
più minuto meno.
Più
di cinquecento giorni. E altrettante notti tutte uguali, solitarie e infinite.
Lasciò
ricadere la testa sul cuscino con un sospiro sfinito. Non poteva essere già passato così tanto tempo. Lui non
si ricordava di aver vissuto tanti giorni. Ogni mattina si svegliava e si
chiedeva come fosse possibile che tante ore si fossero sovrapposte a quella
notte, ore che a lui non sembrava di aver vissuto, che erano scivolate via senza
che se ne rendesse conto accumulandosi in modo scomposto a affannoso, come
tante fotografie sviluppate male in cui, delle immagini, non si distinguevano
neppure i contorni.
Gli
pareva che fosse accaduto all’inizio di quell’estate. Ma no, era
stato il maggio precedente. Dov’era finito quell’anno di cui non
percepiva la concretezza? Cosa aveva fatto in tutte quelle giornate, in quelle
notti, per ingannare il tempo e se stesso?
Un pulsazione dolorosa e violenta alla testa gli strappò un respiro
spezzato, costringendolo a portarsi una mano alla tempia. La sera prima aveva
bevuto troppo e detto cose per cui Ron verosimilmente
non aveva chiuso occhio; non aveva davvero intenzione di ferire suo fratello,
non era stato intenzionale, ma non ce la faceva più a tenersi tutto
nello stomaco. Probabilmente doveva scendere in negozio e vedere se l’altro
c’era rimasto male, ma sentiva di non potercela fare, era
un’impresa superiore alle sue forze.
Non
poteva alzarsi, vestirsi e camminare
fino al piano di sotto, né parlare o degnare di attenzione qualcuno. Non
poteva neanche uscire da sotto le coperte.
Il
momento del risveglio era il momento peggiore della sua giornata, e spesso il
più lungo: che aprisse gli occhi alle nove o a mezzogiorno, non ce la
faceva mai ad alzarsi prima delle tre, a meno che qualcuno non lo forzasse, e
gli costava comunque uno sforzo titanico. Il pensiero di dover uscire da sotto
le coperte e cominciare un’altra volta a vivere, quando a Fred era stata
negata la medesima possibilità, lo annichiliva in modo ineluttabile.
Più precisamente, lo riempiva di uno sgomento simile alla rabbia e
colorato d’impotenza. Perché lui doveva essere costretto a
esistere, mentre suo fratello non c’era più? Trovava fosse una
tortura immeritata.
Rimaneva
nel letto per ore, quasi senza muoversi; c’era nella sua mente un qualche
tipo di convinzione, per quanto coscientemente comprendesse che era
un’assurdità, secondo la quale se fosse riuscito a rimanere in
tralice abbastanza a lungo avrebbe finito per annullarsi, per dissolversi
nell’atmosfera intorno a sé e sparire dalla faccia della terra.
Stava solo lì, gli occhi fissi al soffitto, a ripensare alle migliaia di
giornate trascorse con Fred, alle mattine in cui a svegliarlo era stato il
suono della voce del fratello o una cuscinata ben
assestata sul naso. Poi si rendeva conto di quale fosse la realtà
presente e desiderava morire. Niente
di melodrammatico o ad effetto, aveva solo voglia di non esserci più
nemmeno lui.
Ron
non poteva capire questo.
E
lui non poteva spiegarglielo. Non c’erano parole che fossero
sufficienti a descrivere la sensazione della mancanza di Fred, era qualcosa che
andava al di là di un codice definito come il linguaggio. Era un colpo
secco nelle viscere che lo trafiggeva in ogni momento lasciandolo completamente
privo di respiro, con il dolore che dal ventre si irradiava in ogni
terminazione nervosa. Tutti i suoi muscoli si contraevano e avvertiva
l’impulso di rannicchiarsi. L’unica cosa che faceva, al mattino nel letto, era raggomitolarsi in posizione fetale,
chiudendo accuratamente gli occhi perché la consapevolezza della
realtà non li ferisse troppo.
Era
intollerabile. Non riusciva nemmeno a piangere, perché sarebbe stata
un’azione già troppo cosciente, volontaria, che il suo fisico
stremato non poteva compiere. George era sorpreso già dal semplice fatto
che i suoi polmoni potessero ancora avere la forza di
pompare il fiato, chiedere a se stesso anche di piangere gli pareva davvero un
abuso.
Che
ne sapeva, Ron?
Che
ne sapevano tutti? Arrivavano e gli suggerivano, sorridendo benevolmente, di
guardare avanti, distrarsi, cercare di ricominciare. Ma guardare dove, e
cominciare che cosa? Non gli interessava. Lui voleva solo ritrovare Fred. Erano
gemelli, avrebbero dovuto rimanere insieme, non essere
divisi in quel modo, era contro natura. Qualcosa nel mondo era andato a
rovescio, quella notte, quando Fred era andato via. Non era giusto, e lui non
aveva nessuna intenzione di guardare da nessuna parte.
Merlino,
sua madre! Con le labbra tremolanti e lo sguardo colmo d’amore, che gli
riempiva il piatto fino a renderlo stracolmo, pur sapendo benissimo che lui non
riusciva a mandare giù più di pochi bocconi. Tre mesi prima,
l’ultima volta che aveva finito l’intera porzione che lei gli aveva
propinato, stanco delle sue insistenze, aveva dovuto vomitare: aveva mangiato
troppo. Rispetto alle sue dosi ormai abituali, era stata un’abbuffata
eccessiva.
Aveva
smesso di pranzare alla Tana, definitivamente.
E
suo padre che lo guardava senza parlare, dispiaciuto e triste, con gli occhi
tremanti. George non lo sopportava più. Riguardati, ragazzo mio. Sì, papà, certo. Non
piangere, papà, lo so che hai perso un figlio, ma non piangere.
La
disperazione dignitosa e composta di Arthur era stata una delle ragioni che
l’avevano tenuto in vita. Di fronte al proprio padre che si lasciava
affondare in silenzio, straziato dallo spettacolo di lui che precipitava dopo
la morte del gemello, gli si era svegliata nelle vene la ribellione. Suo padre,
un uomo buono e integerrimo, un esempio di umanità sin da
quand’era venuto al mondo, non meritava due volte lo stesso dolore.
Ma
ormai non poteva più sopportare nemmeno lui. Né Bill e Fleur che lo invitavano a
cena, o Charlie che gli proponeva di andare a
trovarlo in Romania per rilassarsi, né Ginny
che distoglieva lo sguardo perché non riusciva a guardarlo negli occhi
senza che i suoi tremassero di lacrime. Sì, era ingiusto, loro due erano
stati sempre al fianco di Ginny: la punzecchiavano di continuo, ma erano anche quelli
che le davano più considerazione, e li aveva persi entrambi. Era un duro
colpo, ma sua sorella avrebbe dovuto capire che lui
non era proprio in grado di aiutarla a superarlo.
Quel
che all’inizio era stato l’unica cosa che ancora lo teneva suo
malgrado aggrappato alla vita, la famiglia, cominciava a diventare soltanto un
peso. Nel dolore che lo divorava e lo rendeva stordito e alienato dalla
realtà concreta, aveva assecondato parenti e amici stretti, aveva
accettato di continuare a respirare perché loro non lo volevano perdere.
Troppo frastornato dalla tragedia che aveva spaccato a metà la sua vita,
si era lasciato trascinare dalla convinzione di tutti loro: doveva vivere,
tutti vogliono vivere. La
sopravvivenza è il fine ultimo di ogni individuo umano, ed era anche il
suo. Loro volevano che vivesse, e George si era convinto che, da qualche parte,
in fondo a lui, dovesse esserci la convinzione di desiderare un futuro, sopita
al momento dalla sofferenza ma che prima o poi si sarebbe risvegliata.
Poi
la vita era tornata lentamente alla norma. I fiori accanto alle lapidi si
cambiavano con un po’ meno frequenza, i matrimoni aumentavano da una
settimana all’altra, nuove case venivano
comprate e costruite e la comunità magica, poco alla volta, si era
proiettata su un avvenire migliore. Le vite di tutti, intorno a lui, si erano
stabilizzate.
Ma
non la sua.
Lui
aveva sempre negli occhi il corpo senza vita di Fred, quel viso identico al suo ma privo del soffio vitale che invece si incaponiva a
mantenersi in lui. Era un’immagine incollata perpetuamente alle sue
retine e incancellabile, che copriva la visuale su qualunque altra cosa,
annullava ogni moto d’interesse verso il mondo circostante.
E
allora lui s’era cominciato a dire, poco alla volta, che forse quel che
voleva la sua famiglia non era la stessa cosa che voleva lui. Magari lui,
dopotutto, non voleva niente. Perché niente
gli lasciava presentire che presto o tardi avrebbe desiderato o sognato di
nuovo qualcosa che non fosse la presenza del gemello.
Si
era sforzato. Davvero. Aveva cercato di costringersi a continuare, aveva
riaperto il negozio, ripreso a parlare alla gente e cercato di dimostrare prima
di tutto a se stesso che quel che voleva era un futuro. Per un certo periodo aveva convinto tutti loro che la sua esistenza stesse ricominciando a scorrere e aveva
recitato con tanta dedizione la sua parte che s’era anche domandato se
per caso non fosse vero. Ma la commedia non funzionava più, e ogni
giorno il suo copione gli risultava più difficile da seguire. Spesso
ormai il suo malessere diventava un’impossibilità fisica a fare le
cose più normali, un disgusto immotivato che lo costringeva letteralmente
a richiudersi in se stesso, immobile, sdraiato. Di solito arrivava a sera in
quello stato.
Passava
quattro ore ogni mattina a convincersi ad alzarsi e alla
sera non vedeva l’ora di sdraiarsi e non muoversi più, e tutto
quel che faceva tra quei due momenti lo sprofondava in un disinteresse triste e
assorto, mentre si dibatteva smarrito tra i mille piccoli particolari che ogni
giorno lo riportavano a Fred.
Era
voglia di vivere, quella?
Quel
negozio in cui metteva piede solo perché non poteva farne a meno era
davvero suo? Non gli interessava stare lì, non gl’importava
né dei soldi né di scherzi che ormai non lo divertivano
più. Il tempo che trascorreva lì dentro erano ore sottratte
all’oblio del suo cuscino sotto la testa.
Per
questo aveva parlato con Ron, la sera
prima.
Ron.
Ronald
era, nella sua famiglia, l’unico di cui ancora apprezzasse
la presenza. O forse era solo il senso di colpa per la triste posizione in cui
l’aveva messo, col negozio e tutto il resto. Stava di fatto che Ron, in
qualche modo, gli era vicino più degli altri. Con tutti suoi limiti, suo
fratello si stava realmente sforzando di offrire
senza pretendere nulla in cambio, senza farsi giudice. Non gli dava consigli
alimentari, né gli proponeva scampagnate all’aria aperta, non si
lamentava della sua latitanza in negozio né lanciava frecciatine
sugli orari improponibili in cui si rendeva presentabile agli occhi del mondo:
un piatto a tavola quando aveva fame e la costante certezza della sua presenza
affidabile, questo era tutto ciò che Ron gli elargiva. Magari lo faceva
semplicemente per via del carattere chiuso e poco portato per il dialogo, ma
era comunque la cosa migliore che potesse fare. Aveva
un temperamento del cavolo e qualche volta gli diceva le cose in faccia, era
brusco e diretto e capitava che si beccassero per pura testardaggine. Ma era sempre
meglio di sua madre che gli riempiva il piatto come un bacile.
C’era
anche Percy, in effetti. Percy, che aveva visto Fred morire. Si vedevano poco e
non si parlavano quasi, restavano solo seduti in silenzio. Suo fratello, il suo
antipatico, egoista, noioso fratello, aveva capito qualcosa che a quasi tutti
gli altri era sfuggito. Ma non riusciva a vederlo spesso, perché gli
faceva male.
Lui non era stato accanto a Fred, in quel momento.
C’era Percy, non lui.
Non
lo aveva salutato. Non gli aveva stretto la mano mentre
la vita lo abbandonava, l’aveva lasciato solo davanti alla morte, senza
nemmeno il conforto di una parola d’affetto o di saluto.
Non
gli aveva detto addio.
Era
il pensiero più schiacciante e doloroso che lo
perseguitava: il fatto che dopo una vita passata al suo fianco, non fosse stato
con Fred nel momento in cui la sua esistenza finiva. L’aveva abbandonato.
Alcune
lacrime luccicarono lungo le sue guance, andando a morire sulla federa del
cuscino. Ogni volta che ci ripensava, si sentiva ancora peggio. Non lo aveva
salutato e non avrebbe potuto mai più. Mai.
Con
un gemito soffocato si scalzò il cuscino da sotto la testa e ve lo
premette sopra, come se così avesse potuto
scomparire. Prese un lungo respiro e serrò le labbra, cercando di
smettere di ripetersi quelle cose. Cercò febbrilmente un pensiero, un
qualunque altro pensiero che lo potesse scacciare.
Ecco,
poi c’era Lee.
Il
loro amico storico, suo e di Fred. Lee non gli diceva
mai nulla. Non commentava il suo stile di vita né apriva bocca riguardo
alla necessità di lasciare il passato nel passato: rimaneva solo
lì e parlava poco, con calma. Cercava di dargli un po’ del suo
ottimismo e della sua calma e in cambio chiedeva solo qualche tazza di
tè e qualche burrobirra, come aveva fatto anche
quel sabato. Lee. Un compagno d’avventure.
Era
l’unico amico che considerasse ancora tale.
E
ogni tanto Harry spuntava fuori con un sorriso, sistemandosi gli occhiali sul
naso.
Vedere
il suo viso era una delle poche cose per cui le
proprie spalle sembravano a George diventare un po’ meno pesanti. Lo
guardava in faccia, osservava la cicatrice, gettava un’occhiata intorno a
quel mondo rinato e si ricordava che suo fratello non era morto per niente. Fred aveva dato la sua vita per
tutti loro e il sacrificio non era stato vano.
Almeno
questo.
“Geoooorge!” lo raggiunse l’urlo improvviso del
fratello minore, dal piano di sotto. Quindi udì un
sequela di tonfi e colpi secchi e qualcosa che andava in frantumi. E poi
qualcos’altro.
“George!”
ripeté Ron, ora decisamente disperato.
Chiuse
gli occhi con un sospiro, mentre un nuovo rumore sinistro lo riscuoteva dal
torpore.
“Aiutami
ad alzarmi, c’è quel rompicoglioni che
mi chiama,” sussurrò, nel buio amico
delle palpebre abbassate. “C’è un'altra fantastica giornata
che mi attende, non sei invidioso?”
Se
fosse stato presente, Fred avrebbe sicuramente riso.
Era
abbastanza per tirarsi in piedi.
X _karola_: grazie, cara. Capisco il tuo dolore e non vorrei
aumentarlo. Purtroppo sono una personcina abbastanza
gioviale ma quando scrivo ho questa tendenza all’angst
e al dramma che proprio non riesco ad accantonare. Cercherò di
dominarmi…
X Seiryu: urca… grazie per
l’immensa stima, quasi arrossisco. Che dire…sono contenta di
suscitarti “belle” emozioni forti. Se no che scrivo a fare? ^__^ In effetti JK fa scelte discutibili, a volte. Spesso. Ma in
fondo sono i suoi personaggi, no? (…)
X
lilla4eve: grazie per i complimenti. Comprendo il tuo dispiacere, anche se per
me le morti più dolorose sono state altre – e per la prima ho
fatto su un dramma tale che i miei amici volevano farmi ricoverare alla neuro.
Spero quindi che il modo in cui tratterò l’argomento continui a
piacerti.
X Cialy: ooooh, cara… Anche
io ti amo un sacco. Che bello. Dunque, sono lieta di aver centrato un argomento
che ti aggrada e spero naturalmente di potarlo avanti di modo che continui a
interessarti. I gemelli a me erano – sono – molto cari, quindi
cercherò di essere all’altezza. In effetti
sì, ci saranno più pov perché mi
sembra che così si renda meglio la complessità della cosa.
Ron… beh, a quanto dici l’ho reso esattamente come desideravo
– e come penso lui sia – per cui gioisco.
Alla prossima.
X Doremichan: Sottoscrivo la tua opinione sulla scelta di JK,
ma così stanno le cose… quanto al resto, beh, sono contenta che il
capitolo ti sia piaciuta. Speravo sull’effetto del finale e vedo che ha
funzionato. Quanto ai sentimenti di George, come te
ritengo che potessero essere simili… Perdere un gemello non dev’essere uno scherzo. Povero. Lieta anche che ti
piaccia lo stile.
X
EDVIGE86: Grazie. Eccoti accontentata, spero in modo positivo. Capisco lo
stupore per la morte di Fred – la trovo proprio fuori luogo- e in effetti trovo che il gesto di Ron sia molto bello, per
cui lo volevo premiare. ^__^
X
Dragonball93: Beh… Se ti ho addirittura incantata non posso che sentirmi
felice di ciò. Insomma, tanti complimenti mi lusingano e mi auguro che
il seguito sia allo stesso livello. Grazie anche a Linda – chiunque sia
– per la pubblicità.
X
Giulia: Tu hai sempre ragione. Non c’è niente da fare, è
così. Sono assolutamente d’accordo sulla tua opinione di JK
– tranne che per “Ella”, perché la maiuscola la
riserverei ad altri, ma è proprio una piccolezza- e ti do pienamente
ragione. Quanto a me, bè, faccio del mio
meglio e sono contenta che piaccia. Grazie anche per aver notato quelle due
espressioni che citi. Insomma, non mi aspettavo grande approvazione per questi
personaggi a me poco familiari e sono sorpresa. Piacevolmente.
X
Akira14: Oooh quanta grazia. Sono onorata. Riguardo
all’annullamento di George, ho cercato di immedesimarmi nella situazione
e per Ron devo ammettere che c’è qualcosina
di autobiografico, anche se in modo molto vago. Vedo che il “rimettere in
piedi George” ha colto nel segno. Che gioia. Ed eccoti l’atteso
capitolo, che spero sia stato di tuo gusto.
X
Evan88: non c’è proprio il caso di scusarsi. Anzi, grazie per gli
apprezzamenti. Non vedo proprio cos’avrei potuto chiedere di più.
X
lady hawke: bene. Il fatto che mi si commenti che non
è patetica mi dà tanto, tanto sollievo. E’ il mio terrore.
Sono contenta quindi che ti sia parsa misurata e credibile. Grazie.
X Magnolia: beh… che dire: ti ringrazio. Sono parole
che lusingano.
X sabrina: Meno male! Che non è forzata, intendo. E
grazie!
X
Elly… Oooh… Ecco qui finalmente qualche critichina da un’aficionada delle mie storielle. Ciao, carissima. Allora: sono contenta di aver centrato
almeno le basi dei personaggi. Mi sto muovendo in un territorio a me ignoto
(quasi quasi faccio resuscitare Pad per avere almeno
un punto fermo ^__^) e ho qualche difficoltà. Anzi, a questo proposito
se hai suggerimenti o appunti precisi da farmi sono più che bene
accetti. Il capitolo era di corsa in modo voluto, perché mi piaceva
l’idea di sbattere i lettori nel bel mezzo del caos, ma potrebbe essere
troppo affrettato, ci ragionerò su. Quanto alle fazioni… Non so.
In realtà sono vere e proprie squadracce che si affrontano. Ho sempre
percepito
Ciao a tutti.
suni