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Autore: suni    06/02/2008    8 recensioni
Insomma, Ronald Weasley era un ragazzo che aveva formulato più tipi di ipotesi, anche variegate, per il proprio futuro. Ma nessuna, nemmeno la più strana, di tutte quelle immagini proiettate nel domani aveva previsto la realtà. In nessuno dei suoi futuri ideali Ron s’era mai immaginato come comproprietario e cogestore di un negozio di scherzi. Perché quello…
Quello non era il suo posto. Semplicemente.
(Spoiler 7° libro)
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Famiglia Weasley, George Weasley, Harry Potter, Hermione Granger
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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George

Ma che bell’accoglienza!

Non  me l’aspettavo davvero, è stato piacevole e vi ringrazio.

Se mi conoscete sapete che sono lenta e quindi non ci avrete trovato nulla di strano, ma in ogni caso mi scuso: purtroppo questo aggiornamento ha dovuto slittare causa impegni solenni e spostamenti internazionali della sottoscritta me medesima, e anche la mia beta, povera, lavora come un  mulo. (Grazie mille, amica e sodale).

Insomma, ci ho messo dieci giorni a correggere gli errori. Lo so, è disdicevole.

Ma spero che il risultato sia di vostro gradimento.

Oggi vi lascio con lui.

 

 

 

 

 

George

 

Quando si svegliò, quel mattino, la testa gli faceva male da morire, lo stomaco bruciava come se fosse stato in fase di autocombustione e le orecchie gli fischiavano in modo insopportabile. Tutt’e due, anche quella mancante.

Per prima cosa guardò l’ora, scoprendo che era quasi mezzogiorno, poi il calendario. Diciotto ottobre: cinquecentotrentaquattro giorni e dieci ore, all’incirca, minuto più minuto meno.

Più di cinquecento giorni. E altrettante notti tutte uguali, solitarie e infinite.

Lasciò ricadere la testa sul cuscino con un sospiro sfinito. Non poteva essere già passato così tanto tempo. Lui non si ricordava di aver vissuto tanti giorni. Ogni mattina si svegliava e si chiedeva come fosse possibile che tante ore si fossero sovrapposte a quella notte, ore che a lui non sembrava di aver vissuto, che erano scivolate via senza che se ne rendesse conto accumulandosi in modo scomposto a affannoso, come tante fotografie sviluppate male in cui, delle immagini, non si distinguevano neppure i contorni.

Gli pareva che fosse accaduto all’inizio di quell’estate. Ma no, era stato il maggio precedente. Dov’era finito quell’anno di cui non percepiva la concretezza? Cosa aveva fatto in tutte quelle giornate, in quelle notti, per ingannare il tempo e se stesso?

Un pulsazione dolorosa e violenta alla testa gli strappò un respiro spezzato, costringendolo a portarsi una mano alla tempia. La sera prima aveva bevuto troppo e detto cose per cui Ron verosimilmente non aveva chiuso occhio; non aveva davvero intenzione di ferire suo fratello, non era stato intenzionale, ma non ce la faceva più a tenersi tutto nello stomaco. Probabilmente doveva scendere in negozio e vedere se l’altro c’era rimasto male, ma sentiva di non potercela fare, era un’impresa superiore alle sue forze.

Non poteva alzarsi, vestirsi e camminare fino al piano di sotto, né parlare o degnare di attenzione qualcuno. Non poteva neanche uscire da sotto le coperte.

Il momento del risveglio era il momento peggiore della sua giornata, e spesso il più lungo: che aprisse gli occhi alle nove o a mezzogiorno, non ce la faceva mai ad alzarsi prima delle tre, a meno che qualcuno non lo forzasse, e gli costava comunque uno sforzo titanico. Il pensiero di dover uscire da sotto le coperte e cominciare un’altra volta a vivere, quando a Fred era stata negata la medesima possibilità, lo annichiliva in modo ineluttabile. Più precisamente, lo riempiva di uno sgomento simile alla rabbia e colorato d’impotenza. Perché lui doveva essere costretto a esistere, mentre suo fratello non c’era più? Trovava fosse una tortura immeritata.

Rimaneva nel letto per ore, quasi senza muoversi; c’era nella sua mente un qualche tipo di convinzione, per quanto coscientemente comprendesse che era un’assurdità, secondo la quale se fosse riuscito a rimanere in tralice abbastanza a lungo avrebbe finito per annullarsi, per dissolversi nell’atmosfera intorno a sé e sparire dalla faccia della terra. Stava solo lì, gli occhi fissi al soffitto, a ripensare alle migliaia di giornate trascorse con Fred, alle mattine in cui a svegliarlo era stato il suono della voce del fratello o una cuscinata ben assestata sul naso. Poi si rendeva conto di quale fosse la realtà presente e desiderava morire. Niente di melodrammatico o ad effetto, aveva solo voglia di non esserci più nemmeno lui.

Ron non poteva capire questo.

E lui non poteva spiegarglielo. Non c’erano parole che fossero sufficienti a descrivere la sensazione della mancanza di Fred, era qualcosa che andava al di là di un codice definito come il linguaggio. Era un colpo secco nelle viscere che lo trafiggeva in ogni momento lasciandolo completamente privo di respiro, con il dolore che dal ventre si irradiava in ogni terminazione nervosa. Tutti i suoi muscoli si contraevano e avvertiva l’impulso di rannicchiarsi. L’unica cosa che faceva, al mattino nel letto, era raggomitolarsi in posizione fetale, chiudendo accuratamente gli occhi perché la consapevolezza della realtà non li ferisse troppo.

Era intollerabile. Non riusciva nemmeno a piangere, perché sarebbe stata un’azione già troppo cosciente, volontaria, che il suo fisico stremato non poteva compiere. George era sorpreso già dal semplice fatto che i suoi polmoni potessero ancora avere la forza di pompare il fiato, chiedere a se stesso anche di piangere gli pareva davvero un abuso.

Che ne sapeva, Ron?

Che ne sapevano tutti? Arrivavano e gli suggerivano, sorridendo benevolmente, di guardare avanti, distrarsi, cercare di ricominciare. Ma guardare dove, e cominciare che cosa? Non gli interessava. Lui voleva solo ritrovare Fred. Erano gemelli, avrebbero dovuto rimanere insieme, non essere divisi in quel modo, era contro natura. Qualcosa nel mondo era andato a rovescio, quella notte, quando Fred era andato via. Non era giusto, e lui non aveva nessuna intenzione di guardare da nessuna parte.

Merlino, sua madre! Con le labbra tremolanti e lo sguardo colmo d’amore, che gli riempiva il piatto fino a renderlo stracolmo, pur sapendo benissimo che lui non riusciva a mandare giù più di pochi bocconi. Tre mesi prima, l’ultima volta che aveva finito l’intera porzione che lei gli aveva propinato, stanco delle sue insistenze, aveva dovuto vomitare: aveva mangiato troppo. Rispetto alle sue dosi ormai abituali, era stata un’abbuffata eccessiva.

Aveva smesso di pranzare alla Tana, definitivamente.

E suo padre che lo guardava senza parlare, dispiaciuto e triste, con gli occhi tremanti. George non lo sopportava più. Riguardati, ragazzo mio. Sì, papà, certo. Non piangere, papà, lo so che hai perso un figlio, ma non piangere.

La disperazione dignitosa e composta di Arthur era stata una delle ragioni che l’avevano tenuto in vita. Di fronte al proprio padre che si lasciava affondare in silenzio, straziato dallo spettacolo di lui che precipitava dopo la morte del gemello, gli si era svegliata nelle vene la ribellione. Suo padre, un uomo buono e integerrimo, un esempio di umanità sin da quand’era venuto al mondo, non meritava due volte lo stesso dolore.

Ma ormai non poteva più sopportare nemmeno lui. Né Bill e Fleur che lo invitavano a cena, o Charlie che gli proponeva di andare a trovarlo in Romania per rilassarsi, né Ginny che distoglieva lo sguardo perché non riusciva a guardarlo negli occhi senza che i suoi tremassero di lacrime. Sì, era ingiusto, loro due erano stati sempre al fianco di Ginny: la punzecchiavano di continuo, ma erano anche quelli che le davano più considerazione, e li aveva persi entrambi. Era un duro colpo, ma sua sorella avrebbe dovuto capire che lui non era proprio in grado di aiutarla a superarlo.

Quel che all’inizio era stato l’unica cosa che ancora lo teneva suo malgrado aggrappato alla vita, la famiglia, cominciava a diventare soltanto un peso. Nel dolore che lo divorava e lo rendeva stordito e alienato dalla realtà concreta, aveva assecondato parenti e amici stretti, aveva accettato di continuare a respirare perché loro non lo volevano perdere. Troppo frastornato dalla tragedia che aveva spaccato a metà la sua vita, si era lasciato trascinare dalla convinzione di tutti loro: doveva vivere, tutti vogliono vivere. La sopravvivenza è il fine ultimo di ogni individuo umano, ed era anche il suo. Loro volevano che vivesse, e George si era convinto che, da qualche parte, in fondo a lui, dovesse esserci la convinzione di desiderare un futuro, sopita al momento dalla sofferenza ma che prima o poi si sarebbe risvegliata.

Poi la vita era tornata lentamente alla norma. I fiori accanto alle lapidi si cambiavano con un po’ meno frequenza, i matrimoni aumentavano da una settimana all’altra, nuove case venivano comprate e costruite e la comunità magica, poco alla volta, si era proiettata su un avvenire migliore. Le vite di tutti, intorno a lui, si erano stabilizzate.

Ma non la sua.

Lui aveva sempre negli occhi il corpo senza vita di Fred, quel viso identico al suo ma privo del soffio vitale che invece si incaponiva a mantenersi in lui. Era un’immagine incollata perpetuamente alle sue retine e incancellabile, che copriva la visuale su qualunque altra cosa, annullava ogni moto d’interesse verso il mondo circostante.

E allora lui s’era cominciato a dire, poco alla volta, che forse quel che voleva la sua famiglia non era la stessa cosa che voleva lui. Magari lui, dopotutto, non voleva niente. Perché niente gli lasciava presentire che presto o tardi avrebbe desiderato o sognato di nuovo qualcosa che non fosse la presenza del gemello.

Si era sforzato. Davvero. Aveva cercato di costringersi a continuare, aveva riaperto il negozio, ripreso a parlare alla gente e cercato di dimostrare prima di tutto a se stesso che quel che voleva era un futuro. Per un certo periodo aveva convinto tutti loro che la sua esistenza stesse ricominciando a scorrere e aveva recitato con tanta dedizione la sua parte che s’era anche domandato se per caso non fosse vero. Ma la commedia non funzionava più, e ogni giorno il suo copione gli risultava più difficile da seguire. Spesso ormai il suo malessere diventava un’impossibilità fisica a fare le cose più normali, un disgusto immotivato che lo costringeva letteralmente a richiudersi in se stesso, immobile, sdraiato. Di solito arrivava a sera in quello stato.

Passava quattro ore ogni mattina a convincersi ad alzarsi e alla sera non vedeva l’ora di sdraiarsi e non muoversi più, e tutto quel che faceva tra quei due momenti lo sprofondava in un disinteresse triste e assorto, mentre si dibatteva smarrito tra i mille piccoli particolari che ogni giorno lo riportavano a Fred.

Era voglia di vivere, quella?

Quel negozio in cui metteva piede solo perché non poteva farne a meno era davvero suo? Non gli interessava stare lì, non gl’importava né dei soldi né di scherzi che ormai non lo divertivano più. Il tempo che trascorreva lì dentro erano ore sottratte all’oblio del suo cuscino sotto la testa.

Per questo aveva parlato con Ron, la sera prima.

Ron.

Ronald era, nella sua famiglia, l’unico di cui ancora apprezzasse la presenza. O forse era solo il senso di colpa per la triste posizione in cui l’aveva messo, col negozio e tutto il resto. Stava di fatto che Ron, in qualche modo, gli era vicino più degli altri. Con tutti suoi limiti, suo fratello si stava realmente sforzando di offrire senza pretendere nulla in cambio, senza farsi giudice. Non gli dava consigli alimentari, né gli proponeva scampagnate all’aria aperta, non si lamentava della sua latitanza in negozio né lanciava frecciatine sugli orari improponibili in cui si rendeva presentabile agli occhi del mondo: un piatto a tavola quando aveva fame e la costante certezza della sua presenza affidabile, questo era tutto ciò che Ron gli elargiva. Magari lo faceva semplicemente per via del carattere chiuso e poco portato per il dialogo, ma era comunque la cosa migliore che potesse fare. Aveva un temperamento del cavolo e qualche volta gli diceva le cose in faccia, era brusco e diretto e capitava che si beccassero per pura testardaggine. Ma era sempre meglio di sua madre che gli riempiva il piatto come un bacile.

C’era anche Percy, in effetti. Percy, che aveva visto Fred morire. Si vedevano poco e non si parlavano quasi, restavano solo seduti in silenzio. Suo fratello, il suo antipatico, egoista, noioso fratello, aveva capito qualcosa che a quasi tutti gli altri era sfuggito. Ma non riusciva a vederlo spesso, perché gli faceva male.

Lui non era stato accanto a Fred, in quel momento. C’era Percy, non lui.

Non lo aveva salutato. Non gli aveva stretto la mano mentre la vita lo abbandonava, l’aveva lasciato solo davanti alla morte, senza nemmeno il conforto di una parola d’affetto o di saluto.

Non gli aveva detto addio.

Era il pensiero più schiacciante e doloroso che lo perseguitava: il fatto che dopo una vita passata al suo fianco, non fosse stato con Fred nel momento in cui la sua esistenza finiva. L’aveva abbandonato.

Alcune lacrime luccicarono lungo le sue guance, andando a morire sulla federa del cuscino. Ogni volta che ci ripensava, si sentiva ancora peggio. Non lo aveva salutato e non avrebbe potuto mai più. Mai.

Con un gemito soffocato si scalzò il cuscino da sotto la testa e ve lo premette sopra, come se così avesse potuto scomparire. Prese un lungo respiro e serrò le labbra, cercando di smettere di ripetersi quelle cose. Cercò febbrilmente un pensiero, un qualunque altro pensiero che lo potesse scacciare.

Ecco, poi c’era Lee.

Il loro amico storico, suo e di Fred. Lee non gli diceva mai nulla. Non commentava il suo stile di vita né apriva bocca riguardo alla necessità di lasciare il passato nel passato: rimaneva solo lì e parlava poco, con calma. Cercava di dargli un po’ del suo ottimismo e della sua calma e in cambio chiedeva solo qualche tazza di tè e qualche burrobirra, come aveva fatto anche quel sabato. Lee. Un compagno d’avventure.

Era l’unico amico che considerasse ancora tale.

E ogni tanto Harry spuntava fuori con un sorriso, sistemandosi gli occhiali sul naso.

Vedere il suo viso era una delle poche cose per cui le proprie spalle sembravano a George diventare un po’ meno pesanti. Lo guardava in faccia, osservava la cicatrice, gettava un’occhiata intorno a quel mondo rinato e si ricordava che suo fratello non era morto per niente. Fred aveva dato la sua vita per tutti loro e il sacrificio non era stato vano.

Almeno questo.

Geoooorge!” lo raggiunse l’urlo improvviso del fratello minore, dal piano di sotto. Quindi udì un sequela di tonfi e colpi secchi e qualcosa che andava in frantumi. E poi qualcos’altro.

“George!” ripeté Ron, ora decisamente disperato.

Chiuse gli occhi con un sospiro, mentre un nuovo rumore sinistro lo riscuoteva dal torpore.

“Aiutami ad alzarmi, c’è quel rompicoglioni che mi chiama,” sussurrò, nel buio amico delle palpebre abbassate. “C’è un'altra fantastica giornata che mi attende, non sei invidioso?”

Se fosse stato presente, Fred avrebbe sicuramente riso.

Era abbastanza per tirarsi in piedi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  X _karola_: grazie, cara. Capisco il tuo dolore e non vorrei aumentarlo. Purtroppo sono una personcina abbastanza gioviale ma quando scrivo ho questa tendenza all’angst e al dramma che proprio non riesco ad accantonare. Cercherò di dominarmi…

   X Seiryu: urca… grazie per l’immensa stima, quasi arrossisco. Che dire…sono contenta di suscitarti “belle” emozioni forti. Se no che scrivo a fare? ^__^ In effetti JK fa scelte discutibili, a volte. Spesso. Ma in fondo sono i suoi personaggi, no? (…)

   X lilla4eve: grazie per i complimenti. Comprendo il tuo dispiacere, anche se per me le morti più dolorose sono state altre – e per la prima ho fatto su un dramma tale che i miei amici volevano farmi ricoverare alla neuro. Spero quindi che il modo in cui tratterò l’argomento continui a piacerti.

   X Cialy: ooooh, cara… Anche io ti amo un sacco. Che bello. Dunque, sono lieta di aver centrato un argomento che ti aggrada e spero naturalmente di potarlo avanti di modo che continui a interessarti. I gemelli a me erano – sono – molto cari, quindi cercherò di essere all’altezza. In effetti sì, ci saranno più pov perché mi sembra che così si renda meglio la complessità della cosa. Ron… beh, a quanto dici l’ho reso esattamente come desideravo – e come penso lui sia – per cui gioisco. Alla prossima.

   X Doremichan: Sottoscrivo la tua opinione sulla scelta di JK, ma così stanno le cose… quanto al resto, beh, sono contenta che il capitolo ti sia piaciuta. Speravo sull’effetto del finale e vedo che ha funzionato. Quanto ai sentimenti di George, come te ritengo che potessero essere simili… Perdere un gemello non dev’essere uno scherzo. Povero. Lieta anche che ti piaccia lo stile.

   X EDVIGE86: Grazie. Eccoti accontentata, spero in modo positivo. Capisco lo stupore per la morte di Fred – la trovo proprio fuori luogo- e in effetti trovo che il gesto di Ron sia molto bello, per cui lo volevo premiare. ^__^

   X Dragonball93: Beh… Se ti ho addirittura incantata non posso che sentirmi felice di ciò. Insomma, tanti complimenti mi lusingano e mi auguro che il seguito sia allo stesso livello. Grazie anche a Linda – chiunque sia – per la pubblicità.

   X Giulia: Tu hai sempre ragione. Non c’è niente da fare, è così. Sono assolutamente d’accordo sulla tua opinione di JK – tranne che per “Ella”, perché la maiuscola la riserverei ad altri, ma è proprio una piccolezza- e ti do pienamente ragione. Quanto a me, , faccio del mio meglio e sono contenta che piaccia. Grazie anche per aver notato quelle due espressioni che citi. Insomma, non mi aspettavo grande approvazione per questi personaggi a me poco familiari e sono sorpresa. Piacevolmente.

   X Akira14: Oooh quanta grazia. Sono onorata. Riguardo all’annullamento di George, ho cercato di immedesimarmi nella situazione e per Ron devo ammettere che c’è qualcosina di autobiografico, anche se in modo molto vago. Vedo che il “rimettere in piedi George” ha colto nel segno. Che gioia. Ed eccoti l’atteso capitolo, che spero sia stato di tuo gusto.

   X Evan88: non c’è proprio il caso di scusarsi. Anzi, grazie per gli apprezzamenti. Non vedo proprio cos’avrei potuto chiedere di più.

   X lady hawke: bene. Il fatto che mi si commenti che non è patetica mi dà tanto, tanto sollievo. E’ il mio terrore. Sono contenta quindi che ti sia parsa misurata e credibile. Grazie.

   X Magnolia: beh… che dire: ti ringrazio. Sono parole che lusingano.

   X sabrina: Meno male! Che non è forzata, intendo. E grazie!

   X Elly… Oooh… Ecco qui finalmente qualche critichina da un’aficionada delle mie storielle. Ciao, carissima. Allora: sono contenta di aver centrato almeno le basi dei personaggi. Mi sto muovendo in un territorio a me ignoto (quasi quasi faccio resuscitare Pad per avere almeno un punto fermo ^__^) e ho qualche difficoltà. Anzi, a questo proposito se hai suggerimenti o appunti precisi da farmi sono più che bene accetti. Il capitolo era di corsa in modo voluto, perché mi piaceva l’idea di sbattere i lettori nel bel mezzo del caos, ma potrebbe essere troppo affrettato, ci ragionerò su. Quanto alle fazioni… Non so. In realtà sono vere e proprie squadracce che si affrontano. Ho sempre percepito la Hogwarts di Harry come un posto in cui c’è un’ostilità molto forte tra i gruppi che qualche volta mi lascia allibita. Soprattutto perché in effetti spesso i bambini, in un determinato clima problematico come quello, sono proprio così. Penso che la guerra degli anni Settanta abbia lasciato forti strascichi nella società e che questi ragazzi nell’infanzia li abbiano assorbiti. Che altro… Continua quest’opera di critica che mi fa tanto bene. E non mi soffermo sul tuo commento iniziale sui “buchi” di JK perché poi divento sboccata. Hihi. A presto.

   Ciao a tutti.

suni

   
 
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