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Autore: Scientist_    28/07/2013    4 recensioni
Non avere un centro mi spezza il cuore
-Agorà
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lily Luna Potter, Scorpius Malfoy | Coppie: Lily/Scorpius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Centro

 

Era successo  tutto un giorno d’inverno, uno di quei giorni freddi e nostalgici di inizio Dicembre in cui la neve ti si impiglia tra i capelli e risalta come luci nell’ombra.

Era uno di quei giorni in cui si stava zitti, con le labbra congelate e screpolare, immobili come se da un momento all’altro si potessero rompere per un sorriso accennato.

Camminavi, camminavi tra quello che era fatto di te  - neve, neve che non finiva, neve che alla fine acceca gli occhi, non ti ci abitui mai, mai troppo a lungo – e quello che ti componeva avevo imparato ad amarlo fino in fondo anche se non avrei dovuto. Ti riguardava troppo, riguardava troppo i tuoi sorrisi accennati e l’aria tetra nei tuoi occhi.

Tu eri tetro, eri testardo e mi guardavi come se non mi avessi mai visto.

Ci siamo scontrati, abbiamo scontrato gli occhi, mentre i capelli volavano e l’aria si riscaldava dei nostri pensieri.

E in quello sguardo non ho visto niente.

 

Eri figlio di Draco Malfoy ed io di Harry Potter e tendevamo ad ignorarci, forse per paura di farci troppo male solo parlandoci. La verità era che non avevamo paura delle nostre parole ma delle nostre anime, del nostro sangue, dell’intensità dei petti.

Avevamo paura di tremare, di sbagliare, di guardarci. Forse perché i nostri padri, le nostre madri, le nostre vene erano diverse l’una dall’altra, ma quelle dei nostri genitori erano uguali.

Perché gli opposti si atraggono.

 

Avevamo entrambi un libro in mano, dei libri babbani.

Io avevo iniziato a leggere libri babbani quando avevo tredici anni e avevano iniziato con quelli per bambini. Quelle cose erano così lontane, così distanti dalla mia realtà, nonostante papà ci avesse sempre portati in stretto contatto con i mondi diversi. Era un po’ come salire sulla Luna, così anormale, così diversa, così lontana da noi, così paurosa.

Ci eravamo seduti sull’unica panchina del giardino per leggere, non  c’erano altre panchine. Eravamo lontani, molto lontani, ed io mi allontanavo sempre di più da te, perché faceva troppo freddo e avvicinandomi al tuo calore corporeo sarei scoppiata.

Perché si ha sempre paura di quello che non si conosce.

 

Avevamo iniziato ad avere un appuntamento, in quel posto, quel posto da definire ‘nostro’. Non ci parlavamo come non ci eravamo mai parlare ma gli sguardi erano persistenti (così come le mie labbra secche ed il mio nodo alla gola).

Ci avvicinavamo sempre di più , su quella panchina, fino ad arriavre a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, e speravo di scoppiare – non riuscivo a leggere, mi distraevano i tuoi occhi in cui si riflettevano le pagine bianche con inchiostro nero – e speravo anche di baciarti, un giorno, ma sapevo che erano speranze vane.

Avevamo deciso di rimanere ad Hogwarts per le vacanze, forse sperando che anche l’altro l’avrebbe fatto – e io ci speravo e Dio, Dio, Dio, se ci speravo ogni notte – e la mattina di Natale eravamo di nuovo lì, seduti a pochi centimetri l’uno dall’altram tu che leggevi, io che leggevo.

«Luna? » non mi chiamavi mai come mi chiamavo, non mi chiamavi mai Lily, forse perché la Luna era un qualcosa di più lontano, sconosciuto, invitante e particolare, e lo utilizzavi come appellativo, me lo rivelastri quando iniziammo a parlarci.

«Sì Scorpius?» erano domande, solo domande vuote.

«Buon Natale, Luna» lo guardai con il libro stretto tra le mani vuote, non avevo da offrirgli niente, cosa potevo dargli?

«Buon Natale, Scorpius.»

Pronunciavamo i nostri nomi molto spesso, forse per non pronunciare i cognomi.

E quelle parole, quel Luna, mi fecero capire quanto fosse spaventoso, lontano e ignoto stare con te, parlarti e guardarti mentre le tue pupille vibravano attraverso le righe.

 

Il giorno dopo ci parlammo di nuovo, e tu mi portasti una scatola rilegata di rosso ed oro ed io ti portai una scatola verde ed argento.

Mi guardasti stupito e poi un sorriso spuntò sulle tue labbra e ci scambiammo i regali,a cinque centimetri di distanza tra i nostri corpi, con le mani tese.

«Aprilo prima tu, sono in ansia .» ti guardai in ansia mentre tu sfilavi il nastro d’argento per poi guardare – stupefatto – il libro che avevi tra le mani .

Era ‘Diari’ di Sylvia Plath.

Sorridesti e mi sentii gratificata. «Apri il mio .»

Lo scartai tremando e guardai quello che avevo tra le mani, sorridendo a mia volta. Sentivo il tuo sguardo su di me – il tuo respiro su di me, lo sentivo ardente, lo sentivo forte,ti sentivo vicino – ed era strano, sentivo qualcosa per te, era la prima volta che sentivo qualcosa per qualcuno, perché per me quelle parole avevano significato tanto.

‘Ipazia’, si chiamava.

«Era una filosofa, ed era una combattente. Mi ha ricordato te .» ti guardai negli occhi, gli vidi grigi.

I tuoi occhi erano il vuoto.

 

Da quel giorno ci parlavamo sempre, era una continuità che non potevamo fermale, qualcosa che non si poteva fermare con il corpo con la mente. Accantonavamo libri o gli leggevamo insieme, il silenzio non c’era ed intanto la primavera arrivava e ci prendeva e ci portava in un caldo tepore, quello dei nostri corpi, quello dell’aria. Leggevamo ‘Diari’ ed ‘Ipazia’ ad alta voce, insieme, sentendo il vento tra i capelli e la pelle che si cercava, ma che non si toccava.

Eravamo ancora su quella panchina, a parlare, a ridere, a leggere, a studiare, a guardarci mentre gli occhi si cercano – io cercavo la tua voce, i tuoi rimpianti, le tue lacrime nascoste, ma non trovavo nulla, nulla, nulla,e ti vedevo vuoto accanto a me, impossibile, ma tu mi guardavi – e i tuoi occhi erano meravigliosi.

Era grigi, intorno azzurri e vicino alla pupilla verdi.

Ed erano così spaventosi, solo guardandoli .

«Luna?»

«Sì?»

«Tu hai mai avuto paura di quello che sta succedendo. Ci stiamo guardando negli occhi, ci stiamo parlando, ma siamo Potter e Malfoy e per anni hanno considerato impossibile questo. Ho paura che da un momento all’altro possa finire. Che tu te ne vada. »

Rimasi spiazzata da quello che avevi detto e ti guardai con gli occhi languidi, lenti sulla tua pelle, con le gambe molli.

«Scorpius … penso sia diverso da così. Questo non potrà mai finire, mai, anche se gli diremo addio. Io e te conserveremo sempre questo ricordo, anche se tutto questo finirà .»

E fu il primo momento in cui ti guarda le labbra, fini, bianche e rigide. Ti sorrisi.

Non finirà mai.

 

I nostri sguardi erano sempre più ardenti, l’aria sempre più guardi e le nostre pelli sempre più vicine. Stavamo attaccati, i nostri corpi mantenevano il contatto e le nostre mani si cercavano, ma non si toccavano (come le nostre labbra).

Era proibito toccarti davvero, proibito da me stessa, però. Tu mi guardavi implorando un movimento, proprio come me.

Quel pomeriggio stavamo leggendo ‘Orgoglio e Pregiudizio’ sulla panchina. Eri comodamente appoggiato sullo schienale della panchina, con lo sguardo rivolto verso di me, mentre io leggevo possiata in avanti sulle mie cosce, ai margini della panchina, con il libro tra le mani.

Tu mi guardavi e di tanto in tanto sfioravi – mi lambivi, per quei momenti proibiti – i capelli rossi. Era una sensazione rilassante stare così, seduta all’ombra di un albero, con il sole che batteva e che ti andava sugli occhi grigi.

Io ero al mio quinto anno, tu al settimo, avevamo due anni di differenza.

Io ero una Grifondoro, tu un Serpeverde, due posti completamente diversi l’uno dall’altra. Eppure, per qualche ragione, ci guardavamo negli occhi – trapassavamo gli occhi l’uni agli altri – e mi piaceva guardarti. I nostri incontri prevedevano una panchina, un albero ed un libro, e possibilmente anche una buona manciata di parole da dire  - e stavamo lì, sicuri di noi , o meglio, tu sicuro di te, ed io mi stupivo sempre della tua aria spensierata e così maledettamente tranquilla, fantastica, vuota, come se non ci fossero problemi, i problemi che ci dividevano – e così continuava.

In quel momento, quello alla parola amore – ricordo l’imbarazzo, come se fosse stata una vera dichiarazione fatta a te, te, te, a nessun altro, non avevo bisogno di nessun altro – siamo stati interrotti.

«Lily? Che ci fai qui con lui?»

Ti guardò con disprezzo, come se potessi molestarmi da un momento all’altro, ma tu non eri così solo perché eri un Serpeverde.

«Che te ne … »

«Stavo per farmi tua sorella, Potter, qualcosa in contrario? » ti guardai con gli occhi spalancati mentre iniziavo a sentire il cuore che batteva forte nelle orecchie. Albus digrignò i denti per poi voltarsi verso di me.

«Lily, cosa ci fai con il Serpeverde? » Il Serpeverde, non Scorpius. E fu questo che mi diede più fastidioso, ma sentii solo dolore mentre, alle continue frecciatine di Albus rispondevi con taglienti frasi.

Alla fine mi alzai con le lacrime agli occhi, buttando ‘Orgoglio e Pregiudizio’ per terra, davanti ai tuoi piedi, mentre correvo con le lacrime agli occhi.

Ma non era un addio.

 

Il giorno dopo non venni da te, non venni, e questo penso ti fece pentire.

«Lily? »

Alzai gli occhi pieni di lacrime verso Charlotte, la mia compagna di stanza.

« Dimmi Charlie. »

«Qui … qui c’è Malfoy, Lily, fuori dalla porta ed ha detto di darti questo » mi consegnò un cofanetto per poi ritirarsi in bagno, sicuramente a ritoccare il trucco. La scatola era argento satinato, piccola, e la aprii con lentezza trovando un bracciare. Era d’argento, leggero e poco fastidioso, con solo un ciondolo.

Corsi verso la porta aprendola.

Una Luna.

 

L’anno era finito, il tuo ultimo anno, la fine del quinto per me. Non ci potevamo più vedere ad Hogwarts, ma pensavo sarebbe stato carino vederci ad Hogsmeade. Anche tu lo pensavi, ricordi? Poi tutto si è spezzato, rotto, caduto come l’estate che stava iniziando e la primavera che ci stava inondando di petali di ciliegio.

Continuavamo ad incontrarci sulla panchina, solo lì, e stavamo seduti senza parlare, senza leggere, senza guardarci. Ingoiavamo la pillola, respiravamo e qualche sguardo sfuggente iniziava la sua danza d’ardore. Non ci eravamo ancora baciati, e se non allora, quando?

Ma noi non facevamo la prima mossa, nessuno di noi si muoveva, ci bastava guardarci negli occhi (per quanto fragile, spezzante e frustante fosse guardarci solo negli occhi).

L’anno era passato, finito, come quello che si era creato tra di noi.

«Finirà, finirà sempre .»

«Non finirà se non vuoi . »

«Non voglio ma … stai per andartene, stai per andare via, via da me .»

«Non farò mai finire tutto questo, è ancora nostro, finché sentiremo ancora le emozioni questo non finirà .» E poi un bacio tra i miei capelli rossi senza neve tra le ciocche.

Era una bugia.

 

Quell’estate ci sentimmo via gufo, non ci andava di tradire la nostra panchina, anche se tu non ti ci potevi più sedere, ed io mi rinquoravo del fatto che ci saremmo sentiti, che avremmo fatto quello che avremmo fatto con il tempo, che ci saremmo amati poi (anche se sapevo che non mi amavi perché mi avevi abbandonata, abbandonata a me stessa, mi avevi lasciata sola con un libro che riguardava una filosofa).

Era tutto così sbagliato, sbagliato sapere che se ti avessi amato ancora mi sarei fatta del male, perché Dio, Dio, Dio … io ti amavo più di quanto potessi credere, più dei libri, più della mia stessa vita (che aveva iniziato ad avere senso quando ti sei seduto su quella maledetta panchina, quando mi hai chiamata Luna e quando io ti chiamavo Ius – Ius, Ius, Ius … - continuavo a chiamarti Ius, perché tu mi confondevi, tu eri me, ecco perché Ius. Io. )

Tuttavia mi piaceva farmi del male, una forma di masochismo nascosta dentro il buio del mio cuore, io ero masochista, lo ero dal primo momento che mi hai guardato.

Ed ero ancora più masochista quando, all’inizio della scuola annunciarono una nuova materia, Lettere, per invogliare i giovani di ogni età alla lettura. Era un nuovo progetto, di prova, per vedere com’era efficace sui ragazzi, quali svolte positive aveva. Sicuramente io non ero molto brava in questo argomento, sicché eri tu il professore e non avevi un flusso così tanto positivo su di me.

«Il professore scelto è stato uno dei migliori alunni di questa scuola … il signor Scorpius Malfoy!» alzai di scatto lo sguardo, allibita, sconvolta, assente, con il terreno che mi mancava, il cuore in gola e le lacrime agli occhi mentre tu ti mostravi a tutti, gli occhi fiera, la mascella pronunciata e i capelli ordinati.

Non ti guardai, non volevo guardarti, mi faceva troppo male, mi stavi facendo troppo male mentre le mie lacrime si mischiavano alla zuppa saporita che stavo bevendo. Piangevo,  con gli occhi appannati, mentre Charlie mi stringeva la mano.

Lei solo sapeva, e forse era anche un bene. Ero felice che Albus non ci fosse, che Rose non ci fosse, ma c’erano Hugo, Lucy, Charlie e loro potevano capire, ed io non volevo che capissero.

Tu eri una cosa mia, ti sentivo come una cosa mia, semplicemente per il fatto che mi eri entrato nel cuore e tutte le cose che ti trafiggono il cuore diventano tue.

Tu però non eri mio, ed io ti sentivo lontano.

 

Ci incontravamo a lezione e io tenevo lo sguardo basso verso il blocco degli appunti, scrivendo con molto vigore, per fare le tue parole anche mie.

Erano mie, in qualche modo, in quel modo elegante in cui parlavi di ‘Orgoglio e Pregiudizio’ de ‘I fiori del Male’ ed infine il tocco, finale, quello che mi aveva fatto crollare pesantemente come cemento.

Ipazia.

Io sapevo già tutto su di lei e non presi appunti ed intanto tenevo aperta la mia copia mentre tu leggevi la tua e spiegavi i versi. I versi che io sapevo a memoria, che mi avevi spiegato seduti sulla panchina all’ombra di un albero di ciliegio.

Non andavo da molto su quella panchina, più che altro perché non mi aveva mai accarezzata l’idea di  andarci. E magari trovare qualcuno, sedermi, e ricominciare a leggere un libro mai finito. L’idea di trovarci un altro, trovare nei suoi occhi i tuoi, di sentire le stesse sensazioni … non volevo, non sentivo più le emozioni perché ero troppo concentrata su quello che avevo sentito con te.

Poi un giorno, per caso, ero alla finestra, quella rivolta verso il giardino, ed il mio sguardo andò alla panchina dove tu leggevi, seduto, tranquilla, con il sole tra i capelli.

Il mio posto era lì, libero, intatto, pronto per me, vicino a te, come prima. Ma non era come prima.

 

«Posso sedermi, professore?»

Tu mi hai guardata sorpreso,come se fossi pazza e hai guardato il posto libero come per acconsentire. Mi sono seduta all’ombra dell’albero ed ho aperto il mio libro. Memorie di una Geisha. Iniziai a leggerlo ad alta voce, come facevamo prima, interrompendo la tua lettura, sperando che non fosse cambiato niente.

Finii il capitolo a pagina 399 con una frase fredda e potente.

Eravamo due punti bagnati in mezzo a carboni ardenti’. Chiusi il libro di scatto con le lacrime agli occhi, lasciandole cadere sull’asfalto.

Mi accarezzasti i capelli, scuotendo la testa.

«Perché mi hai chiamato professore?»

Decisi di essere più sincera possibile.

«Non sapevo come chiamarmi. Non so se è rimasto tutto come prima, non so se sei ‘Malfoy’ ‘Scorpius’ o … » mi mancò la voce sotto il tuo sguardo.

«Non è cambiato niente, Luna. Chiamami come hai sempre fatto, con il sorriso sulle labbra e la spensieratezza negli occhi. »

Ius

 

Era bello stare con te, mi faceva sentire protetta e, in qualche modo, amata.

Bello quando mi guardavi e sorridevi mentre io leggevo.

Bello a lezione, quando mi interrogavi senza fare preferenze in nulla, chiedendomi gli argomenti più difficili, perché sapevi che le cose difficili mi avevano sempre spaventate.

E così il posto in cui ci incontravamo non era unicamente la panchina ma a lezione. A lezione però non ci guardavamo negli occhi, non ci sfioravamo e non ci sentivamo nostri, in qualche modo non eravamo noi veramente.

Leggevano ‘Lolita’, quel giorno, sulla panchina, mentre l’autunno arrancava lento.

Mi cadde il libro e io mi morsi il labbro dato che non avevo segnato la pagina, ci eravamo entrambi chinati a raccoglierlo, di slancio, con forza.

Ci eravamo scontrati, tu dietro di me, io che perdevo l’equilibrio per la bocca contro la tua spalla. Mi hai mantenuta per la vita e mi sono girata per ringraziarti, ma eri troppo vicino e le nostre labbra si sono scontrate violentemente.

Mi hai morso il labbro ed hai introdotto la lingua dentro la mia bocca, tra i denti, giocando con la mia mentre mi stringevi e Lolita se ne stava a terra come se l’avessimo dimenticato.

Ci staccammo guardando la prima foglia rossa dell’albero di ciliegio cadere tra i miei capelli.

E quella foglia la tengo nascosta gelosamente tra le pagine di Lolita, e nel mio cuore con i tuoi baci.

 

Da quel giorno non ci siamo più baciati, forse per paura, forse perché un bacio lo devi sentire – noi l’abbiamo sentito? – deve essere qualcosa che sale, una voglia nascosta – abbindolata dal rosso della carne – ed intanto i giorni, i mesi passavano si riscaldavano e si raffreddavano.

Ed era arrivato all’improvviso il 5 Dicembre, il giorno in cui si erano visti per la prima volta, il giorno in cui si erano guardati negli occhi.

Seduti sulla panchina, tu con un libro tra le mani a leggere, io appoggia allo schienale stretta nel mio cappotto.

«Luna?» fermasti per un momento la lettura, guardandomi.

«Sì?»

«Stasera … stasera vieni nella mia stanza, ti prego .» lo guardai come se fosse pazzo.

«Cosa?»

«Ho bisogno di parlarti. »

Annuii lentamente.

«D’accordo, verrò. Verrò .»

«Stai attenta .»

 

 

Era stato qualcosa di impacciato, improvviso, una pillola da masticare a poco a poco  - stare con te, poterti baciare senza avere paura, sentirti, sentirti davvero, sentire il tuo cuore battere e poterci posare la mano senza avere paura di cadere nella mia stessa trappola, senza sentire i nostri cuori battere all’unisono – ed era stato tutto così intenso.

Tu mi guardavi negli occhi ed io avevo paura – la paura, dicevi che era il mio peggior difetto – però tu mi stringevi, e mi stringevi forte, e mi sembrava quasi che non mi volessi abbandonare, che non volessi essere abbandonato ed intanto ci guardavamo negli occhi – quante parole ci siamo detti in quel modo – e così restavamo. A noi bastava, a te bastava, perché non volevi da me più di quanto io potessi darti.

Era bello leggere, ma era anche bello leggerti, ed ogni volta eri una scoperta. Ci sarebbe voluta una vita per conoscerti, e io ti volevo conoscere, volevo conoscere ogni tua sfaccettatura, ogni tuo riflesso degli occhi.

Era una voglia irrefrenabile – era forte, era forte e tu mi invogliavi a conoscere, a conoscerti, perché lo volevi anche tu – e tu non facevi niente per fermarmi.

E la cosa peggiore era che mi andava bene così.

 

Quell’estate ti chiesi se potevi venire a casa mia a conoscere i miei. I miei genitori ti dovevano conoscere – conoscere come ti avevo conosciuto io, come una persona, non come il figlio dell’uomo con il Marchio Nero sul braccio – e così decidemmo la data.

All’inizio  non dissi a mamma, papà e i miei fratelli chi eri, volevo che fosse una specie di sorpresa. Ma quando ti videro ti riconobbero subito – forse per la somiglianza, forse perché il tuo sguardo impaurito gli aveva ricordato lui, anche se tu non eri tuo padre. Furono così freddi con te che mi vergognai di loro. Sapevano che eri un professore, ma tu avevi detto che non avrei lavorato ad Hogwarts l’anno seguente quindi era tutto in regola.

Dovevo frequentare il settimo anno, ero spaventata ma tu mi aiutavi a studiare.

Eravamo in camera mia, i miei genitori probabilmente non erano molto d’accordo, e avevamo iniziato a leggere.

«Luna? »

«Sì? »

«So di non essegli piaciuto .»

Mi avvicinai piano a te e ti baciai delicatamente. «Piaci a me . »

Fu la prima volta che vidi il tuo sorriso triste.

 

I miei genitori mi proibirono di vederti, e io non capivo perché. Non eri una persona pericolosa, per niente, e continuavi a stare con me, continuavi ad amarmi, e io mi stupivo ogni volta, come un colpo al cuore, ma tu sapevi di non piacere ai miei genitori, e lo sapevi così bene che mi faceva male al cuore.

Capitò alla fine dell’estate, eravamo nel giardino di casa mia e stavamo sgranocchiando dei biscotti al cioccolato sporcandoci i denti.

Stavamo raccogliendo citazioni e  continuavamo a scrivere sul quaderno delle citazioni, come una raccolta silenzionziosa e preziosa, ed intanto continuavamo a sentire le parole sulla nostra pelle.

Avevo iniziato a scrivere, scrivere davvero, scrivere storie, novelle, racconti – qualcosa di vero che somigliava a noi – però tu non lo sapevi.

Non credo ai principi e alle belle addormentate, ai vissero felici e contenti. Credo alle persone che si sopportano. A quelli che maledicono il giorno in cui si sono incontrati. A quelli che si odiano e si amano nello stesso tempo. Quelli che nonostante tutto continuano ad amarsi, in quel modo che nessuno sa. 
«È strano trovare delle citazioni anonime che rispecchino tutto quello che hai vissuto, hai sentito sotto la tua pelle come un marchio … è davvero strano .»
«Credi? Beh, si è vero, ma non ti fa sentire solo. Sai che qualcun altro ha provato le tue stesse emozioni, ed è come se le tue emozioni fossero trasparite da qualcun altro, sai, secondo me è perfetto quello che si forma in noi quando ci si innamora. È per questo che si scrive .» ti guardai, la tua risposta era stata più che esauriente.

«Un bacio è diverso invece .» sussurai abbassando lo sguardo. Il tuo sorriso mi aveva illuminata.

«Un bacio lo devi sentire, giusto? Secondo me sì, non bisogna baciare perché si ha bisogno di un contatto, non ci devi pensare ad un bacio, non c’è cosa più stupida che tu possa fare. Un bacio vero e quando non te ne accordi, quando ti trovi con gli occhi socchiusi e la mente annebbiata. Un bacio ti deve far innamorare. »

Sorrisi leggermente e tu sorridesti a tua volta.

«Sai cosa?» mi guardasti incuriosito. «A volte mi pento del nostro bacio, perché è stato lui a farci innamorare, nonostante tutto .»

Mi guardasti in silenzio, ma sapevi cosa intendevo.

Avrei preferito avere un solo respiro dei suoi capelli, un solo bacio della bocca, un solo tocco della mano che stare un'eternità senza. 

 

Non era il tempo per gli addii, davanti a King Cross, guardandoci negli occhi.

Mamma era malata e tutti erano a casa e così io ero rimasta sola e tu ti eri offerto di accompagnarmi.

«Non è tempo di addii, Luna .»

«Mi fai un favore? Uno piccolo .»

«Dimmi … »

«Chiamami Lily, solo per oggi .»

«D’accordo … comunque, dimenticavo .» ti eri posizionato davanti a me con occhi ansiosi.

«Sì … ?»

Ti abbassasti leggermente. «Buon compleanno .» Nessun bacio, nessuno, ci bastava guardarci negli occhi.

Mi ritrovai le tue labbra sulle mie all’improvviso, e sentii quel bacio, lo sentii nelle orecchie piene di bisbigli, negli occhi socchiusi e nella carne tiempiba – la tua carne, il tuo corpo, il tuo tepore – e seppi cosa voleva dire davvero un ‘bacio sentito’ un ‘bacio voluto’. Sapevo che ci stavano guarando, ma non importava, ed intando continuavo a stringere i tuoi capelli tra le dita, stringergli forte.

«Sai cosa? »

«Cosa? » il tuo sguardo era confuso ed io sorrisi.

«Ti amo. » mi guardasti imbambolato mentre io salivo sul treno senza guardati.

Non avevo aspettato una risposta, sapevo che mi amavi, non avevi bisogno di sentirlo. Perché ci sono persone che lo dicono e che non lo dimostrano e altre che lo dimostrano ma non lo dicono.

 

Amavo i tuoi baci. Amavo sentire sulla mia pelle, sulle mie labbra le tue ed amavo il modo in cui mi trattavi.

Mi trattavi come un fiore, come un oggetto speciale, come un qualcosa che si può rompere, ma tu mi aiutavi a non richiare di schiantarmi rovinosamente.

Era bello sentirti – per quanto raro potesse essere – e ti sentivo così poco spesso che speravo che il cuscino su cui mi accavallavo per dormire.

Ed era bello anche guardarti – sapere che qualcosa è tuo, tuo, tuo, incodizionatamente tuo e che nessuno potesse abbandonarlo toglierlo dal cuore – e, onestamente, tu eri una visione per nulla brutta.

Ci eravao trovati di nuovo sulla panchina, con il permesso della preside eri venuto, ed eravamo rannicchiati lì tra il vento, io con la neve tra i capelli e tu che mi stringevi a te.

Ed intanto ti guardavo negli occhi. E gli guardavo gli lambivo – erano grigi, grigio freddo, mi congelavano ma erano ardenti, io gli volevo, gli volevo e ti volevo, ti volevo, volevo baciarti, toccarti, esplorarti perché tutto quello che era mio lo volevo conoscere e non ti conoscevo – maledetta breve vita –perché non sarebbe bastata solo una vita per osservare tutte le tue sfaccettature .

Ed intanto il tuo sguardo mi lambiva, le tue mani ardevano e le tue labbra si muovevano inesorabili sulle mie.

 

Avevo iniziato a scrivere davvero, piccole storie, semplici, quelle con cui si inizia qualcos’altro – qualcosa di più grande, più importante, più profondo – e quello era il mio inizio.

Aprivo il quaderno delle citazione – le sapevo ormai a memoria, me le avevi fatte imparare perché erano impresse nei fatti – e così scrivevo, scrivevo …

Le vacanze di Natale erano imminenti e la mia compagnia di stanza, Charlie, era malata e quindi si trovava in infermeria.

Tuttavia tu eri lì, vicino alla finestra aperta con i capelli scompigliati e la giacca pesante.

«Scorpius … » mi ero alzata dal letto e mi ero avvicinata. «Che ci fai qui?»

Tu mi hai sorriso e la stanza si è quasi illuminata per il tuo sorriso. «Sono felice di essere così bene accetto … » hai scherzato ed io mi sono buttata su di te, avvinghiandomi al tuo petto e ti ho baciato il collo.

Hai riso e mi hai sollevata con forza prima di metterti sul letto accanto a me. Ti ho guardato con severità .

«Togliti le scarpe .» hai sbuffato ma hai obbedito, poi ti sei tolto la giacca di pelle rimanendo in maglia grigio chiaro a maniche lunghe.

«Posso entrare?»

Ti ho sorriso e ti ho fatto avvicinare al margine del letto facendoti sedere.

«Come sei arrivato qui?»

Tu alzasti le spalle, come se quello che avevi fatto fosse una cosa normale. «Esperienza.»

Ho scosso la testa, rassegnata.

Hai guardato oltre di me e hai visto il quaderno ad anelli in cui scrivevo. «Posso leggere?»

Abbassai lo sguardo, non volevo risponderti, sapevo che ti avrei ferito e tu hai annuito dandomi un bacio sulla testa.

«Non preoccuparti, Lul .»

Mi hai dato un bacio sul naso, che io ho prontamente arricciato e tu hai sorriso.

 

Le parole erano come la mia essenza, la cosa che nessuno poteva leggere, sentire sulla propria pelle. Perché le parole sono efficaci, sono violente, ti graffiano come l’amore, e non c’è meglio delle parole per descrivere i graffi, la violenza … l’amore. I baci sono qualcosa di relativo nell’amore, il sesso è qualcosa di relavito, sono tutti miscugli di appagamento corporeo che coinvolge, in un modo o nell’altro, anche la mente.

Ecco perché non volevo farti leggere.

Le parole ti avrebbero corroso, e tu eri la mia roccia, eri il mio centro.

 

E non avere un centro mi spezza il cuore […]

-Agorà

 

“Anche se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei potuto dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell’amore, credo.La parola è danno. L’amore non è quello che i poeti del cazzo vogliono farvi credere. L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole, può chiudere le ferite d’amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano,le parole muoiono con loro.”

—Stephen King

 

  
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