CAPITOLO
6
Profonde occhiaie stavano solcando i suoi occhi,
mascherate dagli occhiali neri e dal classico cappello da
baseball.
Gli angoli delle labbra sottili pendevano verso il
basso.
Velocemente, un passio dietro l’altro, era arrivato alla
porta di vecchio legno. La spinse, sentì i campanellini di bronzo suonare ed
entrò, ringraziando la penombra naturale della libreria, che dava sollievo ai
suoi occhi sensibili e stanchi.
“Ciao…”, disse Mondenkind, in
piedi, davanti alla scrivania del nonno.
Se ne stava con un libro tra le
mani, aperto, sembrava esaminarlo.
“Hey…”, fece Georg, “Spero di
non stare disturbando…”
Notò subito che la voce della ragazza, di
solito abbastanza dolce e melodiosa, era spenta, quasi senz’anima. Vide anche un
certo pallore sulla sua faccia, prima rosea.
“Ti senti bene?”, le
chiese, senza pensarci due volte.
“Beh… non molto ultimamente.”,
fece lei, chiudendo il libro e posandolo sulla scrivania, “Ma non ti
preoccupare.”
“Magari torno un altro giorno…”, disse Georg, che
non la vedeva affatto in salute. Per educazione, si tolse gli occhiali da sole
ed il cappellino, anche se non era nell’aspetto migliore che avrebbe potuto
avere.
“No… non sto mica per morire!”, sbottò lei ridendo, “Ma
vedo che anche tu non sei messo molto bene.”
“Potrebbe andare
meglio.”, disse Georg, lasciando in sospeso la frase.
“Mi dispiace
per la vostra esibizione.”, fece Mondenkind, rattristandosi.
Georg
fece spallucce.
“Lasciamo perdere.”, disse poi, con aria
stanca.
Quanti giorni erano che non dormiva?
Quanti
giorni erano che non accendeva la televisione, non comprava un giornale, non
ascoltava la radio?
Quanti giorni erano che non sentiva nessuno
degli altri…
Da mercoledì passato.
Cinque
giorni.
Era esattamente lunedì. Dopo cinque giorni passati
praticamente chiuso in casa, sprangato, aveva messo il naso fuori giusto per
trovare una persona con cui parlare. Di tutto e di niente. Dell’argomento più
stupido a quello più serio.
Aveva chiamato Fabian, ma non era
raggiungibile. Gli aveva lasciato un messaggio in segreteria, ma aveva risposto
che non riusciva a liberarsi per diversi giorni, per via del lavoro. Altri amici
non ne aveva. Sì, c’erano almeno una decina di persone più strette ma… non se la
sentiva di chiamarli, non erano così ‘amici’ da poter stare con loro a
deprimersi, a crogiolarsi nei suoi problemi.
E poi aveva voglia di
uscire, di prendersi una boccata di aria fresca.
Aveva voglia di
lavarsi via di dosso tutta la stanchezza che aveva accumulato, tutta la
pressione nervosa che covava dentro. E non trovava migliore soluzione di
lasciare casa e parlare.
Ma con chi?
Dopo qualche
giro a vuoto intorno alla città, sulla sua auto a due posti, aveva trovato chi
poteva starlo un po’ ad ascoltare.
Inoltre, c’era ancora in ballo
un caffè, se lei fosse stata d’accordo.
“Non l’ho vista in tv… ma
ho letto. E capisco che tu non ne voglia parlare.”, disse Mondenkind,
sorridendogli. Anche i suoi capelli neri, tenuti sempre docili in una treccia
lunga, appoggiata sulla sua spalla, parevano spenti. Come il suo viso infantile.
Anche il suo pullover bianco pareva ingrigito. La sua gonna, al ginocchio,
anch’essa chiara, non riusciva a darle luminosità.
“Beh… a dire il
vero…”, iniziò a balbettare Georg, ma non riusciva a parlare correttamente. Una
confusione di pensieri gli stava intasando la testa, stava
fondendo.
“Vuoi sederti? Mi sembri abbastanza… stanco.”, gli disse
lei, voltando la vecchia poltrona di suo nonno.
“Oh no,
tranquilla, sto bene… è solo che…”, disse Georg. Gli venne da toccarsi la testa,
come per controllare se fosse stata al suo posto. Era lì, ma era come se fosse
stata altrove.
“Ti va di andare a prendere quel caffè che dicevamo
e che non vuoi concedermi?”, le disse, tutto d’un fiato, come se fosse stata una
cosa proibita.
Lei tornò ad incupirsi, come aveva fatto
esattamente l’altra volta.
“Sì, scusami…”, disse Georg, “Lo so…
già mi hai detto di no un’altra volta. Perdonami, è che non sto per niente
bene.”
Mondenkind si chiuse nelle sue braccia
conserte.
“Se può farti stare meglio… perchè no.”, disse, quasi
sottovoce, timida.
Georg pensò di non aver capito
bene.
“Dici che acconsenti ad uscire dalla libreria per fare
quattro passi con un caffè in mano? O anche seduti, come preferisci.”, le fece,
titubante.
“Beh… sempre se ti può far stare meglio.”, ripetè lei,
chiudendosi sempre di più dentro alle sue braccia.
“Penso di sì… e
credo che farà bene un po’ anche a te.”, le disse, sorridendole.
Lei continuava a mostrarsi diffidente verso quel semplice caffè.
Forse era meglio spiegarsi.
“Ascoltami, Mondenkind. Non so quale
sia la tua opinione di me ma… Io non ho nessuna intenzione di farti del male, né
di usarti in qualche modo. Voglio solo prendere un caffè con te, da amici. Senza
nessuna pretesa, senza nessun imbroglio.”, le disse, “Ultimamente tutta la mia
vita sta andando a puttane, niente va per il verso giusto. I miei migliori amici
sono diventati i miei peggiori nemici… o quasi… e quelli con cui ho un buon
rapporto non hanno tempo per me…”
Lei se ne rimaneva immobile, a
fissarlo, con i suoi occhi chiari, quasi di ghiaccio.
“Lo so che
non ci conosciamo, che ci siamo visti solo tre o quattro volte, che l’unica cosa
che abbiamo in comune è un libro di fantasia… Ma visto che sembri essere l’unica
persona che… che possa riuscire a starmi a sentire… così come io potrei stare a
sentire te…”
Si rese conto che tutto quello che aveva detto non
aveva nessun senso, era tutto un discorso disconnesso, senza alcun filo
logico.
“Scusami ancora Mondenkind… forse ti ho davvero
disturbato.”, disse Georg, “Sarà meglio che vada… magari un po’ di sonno
riuscirà a farmi stare meglio.”
Fece qualche passo, poi lei lo
richiamò.
“Prendo qualcosa per non sentire freddo.”, gli fece, e
scomparve nello stanzino.
Dopo un paio di minuti, tornò fuori con una giacca
marrone.
“Andiamo.”, disse Mondenkind, avvicinandosi alla
porta.
Fuori, il sole del primo pomeriggio stava scaldando l’aria,
ancora un po’ fredda. Con educazione, le tenne la porta e la fece uscire. Pareva
aver paura a mettere piede fuori, lo fece quasi con timore, ma un passo dopo
l’altro, fu nel vicolo che portava alla libreria dove lavorava.
Le
venne da alzare il viso al sole e si coprì la mano con gli occhi, mentre lo
guardava.
“Hey! Così ti rovinerai gli occhi…”, le disse Georg,
avvicinatosi a lei, dopo aver richiuso la porta della libreria.
Lì
fuori, alla luce, vide quanto fosse pallida. Gli venne da preoccuparsi per lei,
per la sua salute. Doveva avere magari l’influenza per essere così bianca.
Glielo chiese.
“Non è che ti sei presa l’influenza… la tosse… il
raffreddore…”
Che idiota! Voce nasale non ne aveva, non l’aveva
nemmeno mai sentita tossire.
“No… è che… in questo periodo sono un
po’ giù di corda… fisicamente.”, disse lei, prendendo a
camminare.
A guardarla, pareva non avesse mai messo piede fuori da
quella libreria! Magari era una tipa molto timida ed insicura, una di quelle che
alle superiori venivano sempre prese in giro dai compagni di scuola perchè era
una secchiona, o perchè era bruttina… e si era chiusa dentro al suo lavoro
perchè il mondo fuori le era sempre stato ostile.
Sì, era
sicuramente una ragazza del genere.
Era un peccato, perchè
sicuramente era una persona vera, buona e gentile. E magari, sotto i suoi
occhialetti lilla e i suoi vestiti antiquati, poteva esserci anche una bella
ragazza.
“Dimmi, Mondenkind… quanti anni hai?”, le
domandò.
“Ne ho… ventitre.”, rispose lei.
Camminava
a testa bassa, con le mani di nuovo incrociate, sul grembo.
“E…
cosa fai oltre a lavorare nella libreria?”, le domandò, sperando di non sembrare
un impiccione.
“Beh… lavoro lì. E basta. Tramite una porta nello
studio arrivo all’appartamento mio e di mio nonno.”, spiegò lei, “Ho sempre
vissuto con lui. Tu, invece, cosa mi puoi raccontare di te
stesso?”
“Se avessi un ego grande quanto un palazzo di Manhattan,
potrei chiederti se ci sono delle cose di me che non sai!”, disse Georg,
cercando di essere spiritoso, “Ma visto che non mi sembra di essere così
presuntuoso, ti dico che per adesso sono un semplice bassista senza
lavoro.”
“Senza lavoro…”, ripetè
Mondenkind.
“Già…”
“Ti va di raccontarmi cosa è
successo?”, disse la ragazza.
“Sì… ma davanti un caffè riesco ad
esprimermi meglio.”
“Vieni, da questa parte.”, disse Georg, facendole gesto
di seguirla.
Dopo qualche passo, fuori dalla
libreria, aveva indossato di nuovo gli occhiali ed il cappellino e, con
tranquillità, avevano passeggiato per il centro della città, senza essere
disturbati da occhi indiscreti.
L’aveva portata in una
caffetteria, una di quelle speciali e molto rare, dove la gente andava per
starsene in pace a leggere il giornale, oppure un libro, ma anche per fare
quattro chiacchiere rispettosamente sottovoce. Nessuno alzava gli occhi quando
qualcuno entrava, nessuno scrutava l’altro, nessuno giudicava. Quelli che
stavano lì dentro parevano alieni, non esseri umani: tutti erano per i fatti
loro e, allo stesso modo, nessuno voleva essere disturbato dall’altro. Era
diviso in tre stanzette ed in ognuna di essere prevaleva un colore diverso dalle
altre: si prendeva il caffè seduti nei tavolini rotondi davanti al bancone,
all’entrata. Si leggeva in tranquillità nella stanza color lilla, come gli
occhialetti di lei. Si conversava indisturbati nella stanza rosa, davanti ad una
tazza fumante di bevande calde e di pasticcini inglesi. Non era un posto da
Georg, o meglio, non era un posto dove ci si poteva divertire con birra e rutto
libero, ma era tranquillo, riservato e lontano da occhi
curiosi.
Lo aveva sfruttato più di una volta per incontrarsi con
le ragazze… anche se quella volta lo scopo era diverso, era comunque il posto in
cui voleva andare.
Entrarono dentro e, di nuovo con galanteria, le
tenne la porta. Durante quella camminata di circa una decina di minuti, non
avevano chiacchierato molto. Lei sembrava restia a parlare di sé, era molto più
interessata a sapere cosa gli fosse successo, e lui non voleva parlarne in
pubblico.
La condusse nella saletta rosa, in quel momento vuota,
come quasi anche il resto del locale, le tenne la sedia per farla accomodare e
si sedette di fronte a lei. Il proprietario della caffetteria, ed
anche unico cameriere, venne prontamente a chiedere loro cosa
volessero.
“Un caffè… lungo per cortesia.”, disse Georg, appena si
fu tolto gli occhiali.
“Anche per me.”, disse Mondenkind, con un
filo di voce.
“Perfetto, posso portarvi anche qualche
stuzzichino?”, domandò l’uomo.
“Oh sì, grazie.”, rispose Georg,
dopo aver cercato un segno di approvazione negli occhi di Mondenkind, che invece
spaziavano intorno a sé, scrutando il locale in cui si
trovava.
Capiva che non si stava sentendo a suo
agio…
“Senti, Mondenkind… se ti senti a disagio, possiamo anche
andarcene, non ci sono problemi.”, le fece.
“Oh no, tranquillo.”,
disse lei, sorridendo. Si tolse la giacchetta marrone e la appese allo schienale
della sua sedia, “Allora… non c’è il caffè, ma comunque puoi iniziare a parlare,
se vuoi.”
“Beh… hai visto gli articoli sui giornali?”, le chiese,
retoricamente.
“Sì… me ne è capitato uno tra le mani, proprio
ieri.”, disse lei. Con le piccole mani unite, appoggiate al bordo del tavolo, se
ne stava rigidamente seduta davanti a lui. La treccia le cadde dal suo usuale
appiglio, la sua spalla destra, e si distese sulla
schiena.
“Andava tutto bene, tutto tremendamente bene. Avevamo
provato e gli strumenti erano a posto, noi eravamo prontissimi…”, disse Georg,
scuotendo la testa affranto.
“Non è stata colpa vostra.”, fece
Mondenkind, con un sorriso comprensivo, “Voi avete fatto del vostro meglio per
riuscire ad affrontare questa sfida. Lo so, lo capisco.”
“Sei
l’unica sulla faccia della terra, allora.”, disse Georg, incrociando le braccia
sul petto, “Sono quasi dieci anni che esistiamo, come gruppo famoso intendo…
ogni volta che succede un problema esterno, non voluto da noi… nessuno vuole
stare a sentire le nostre ragioni, tutti ascoltano solo quello che vogliono
sapere.”
“E cos’è che vogliono sapere?”, fece
lei.
“Vogliono sapere se i Tokio Hotel esistono ancora oppure
no.”, borbottò Georg, quasi mangiandosi le parole per paura di
dirle.
“Questo lo potete sapere solo voi.”, disse Mondenkind, con
una semplicità che pareva avere dell’incredibile.
“Sì… lo sappiamo
bene.”, disse Georg.
Il cameriere arrivò con le loro ordinazioni.
Due caffè lunghi e biscotti. Georg sospirò, bevve un sorso e riposò la sua
tazza.
Le esili dita di Mondenkind afferrarono un biscotto. Lo
guardò quasi con circospezione poi, con cautela, gli dette un piccolo morso.
Georg non potè fare a meno di nascondere la risatina che gli era affiorata sulle
labbra.
“E’ buono?”, le chiese.
Lei ne prese un
altro morso e, con delicatezza, tolse via la piccola briciola che era rimasta
attaccata al suo labbro.
“Sì sì… sono molto buoni.”, disse lei,
sorridendo con un lieve imbarazzo.
“Adesso ti senti un po’ più a
tuo agio?”, le fece, sorridendole.
“Sì, adesso sì.”, rispose
lei.
“Bene, sono contento.”, rispose Georg, riuscendo finalmente a
rilassarsi.
Se non fosse stato un pensiero idiota, avrebbe detto
di nuovo che non aveva mai davvero messo piede fuori da quella
libreria!
“Dicevi del tuo gruppo…”, gli ricordò spiacevolmente
Mondenkind, prendendo un altro biscotto.
“Beh…
sì…”
Le disse di come era scomparsa la chitarra di Georg, di come
era stata ritrovata, dei fischi che aveva avuto e, nel flashback, gli tornò in
mente ciò che aveva letto sul libro. Il nome che aveva letto. Magari poteva
essere un appiglio per approfondire la sua conoscenza…
Bloccò il
suo racconto e gli venne da sorridere, stupidamente.
“Sai una
cosa?”, le fece, notando la sua espressione perplessa, “Poco prima di entrare in
scena, ho continuato la lettura del libro…”
“E…”, disse lei,
dubbiosa.
“Ti chiami esattamente come l’Infanta Imperatrice.”, le
disse, sentendosi terribilmente idota, “Non credi che sia una coincidenza
spaventosa?”
Mondenkind sorrise, abbassò gli occhi e portò alle
labbra la sua tazza di caffè.
“Sì, lo so…”, disse, quando ebbe
bevuto.
“Già a leggerlo, è un nome strano…”, disse Georg, “Senza
offesa, ovviamente.”
“Si, tranquillo!”, disse Mondenkind,
sorridendo, “A mio… mio padre piaceva molto quel libro, così mi ha dato quel
nome.”
“Tuo padre?”
“Sì.. lui.”
“Beh…
è strano, ma è un bel nome. Non si sente tutti i giorni!”, disse Georg, bevendo
a sua volta.
“E poi cosa è successo? Intendo… dopo che avete
finito lo spettacolo.”, riprese Mondenkind.
Un’altra volta aveva
deviato la conversazione da se stessa a lui.
“Beh… spettacolo,
che parolone!”, esclamò Georg, rassegnandosi nel sapere qualcosa in più su di
lei, “Abbiamo strimpellato… nonostante le prove estenuanti, la
perfezione che avevamo raggiunto… niente, il pubblico e i suoi fischi ci hanno
totalmente spaventato… peggio di bambini dell’asilo, abbiamo fatto letteralmente
schifo.”
“Mi dispiace.”, disse Mondenkind.
“E dopo…
dietro le quinte….”, disse Georg, scuotendo la testa, “Non posso dirti
esattamente cosa ci siamo detti, perchè ti verrebbe da tapparti le
orecchie.”
Un altro sguardo comprensivo da parte di
lei.
“Sono diversi giorni che non sento nessuno di loro.”, le
rivelò Georg, “Non so se sia il caso di fare il primo passo o aspettare che si
facciano avanti loro. L’ultima frase che è uscita dalle nostre bocche è ‘Non
fatevi più vedere’. E finora sono sempre fedele a
quell’idea.”
“Perchè?”, gli chiese lei.
Georg
sospirò, prese il suo cappellino, appoggiato alla sedia, e se lo rigirò tra le
mani nervosamente.
“Perchè non ha più senso continuare a suonare
quando… quando non c’è più armonia, c’è disaccordo tra di noi. Litighiamo per un
nonnulla, non riusciamo a concentrarci sulla musica… il nostro ultimo album è
uguale a tutti gli altri, non abbiamo più idee, né creatività…”, disse Georg,
con sconforto.
“Vi manca la fantasia.”, disse
Mondenkind.
“Sì… diciamo di sì… Ce l’hai una soluzione per questo
problema?”, le fece, ridendo amaramente.
“Beh… forse sì.”, disse
Mondenkind. Prese un altro biscotto e iniziò a mangiucchiarlo.
“E
quale sarebbe?”, la esortò Georg.
“Forse la stessa storia infinita
potrà esserti di aiuto.”, disse lei.
“Come sei solenne!”, la prese
in giro Georg, “E’ un libro, una storia per bambini… cosa mi può
insegnare?”
“Beh… secondo me un mucchio di cose.”, disse
Mondenkind, sorridendogli.
“E quali?”, le chiese, quasi con aria
di sfida.
Lei non rispose, continuò a mangiucchiare il suo
biscotto.
“I miei problemi sono veri, Mondenkind, non ti
offendere.”, disse Georg, “Devo riuscire a risolverli, ma non credo che un libro
mi possa aiutare.”
“Un tentativo non può farti male.”, riprese
Mondenkind.
“Parlerei più volentieri di qualcos’altro.”, sentenziò
Georg, ormai stanco di trattare quell’argomento così doloroso.
“E
io dovrei tornare in libreria… l’ho lasciata già per troppo tempo.”, disse
Mondenkind.
Usciti fuori dal locale, Mondenkind preferì tornarsene
al lavoro da sola, lo pregò di non accompagnarla. Georg comprese che, forse, lei
si era offesa per la sua ostilità nei confronti del libro, nel quale suo padre
le aveva trovato il nome. Magari lei poteva esserci particolarmente
affezionata…
Ma non ci poteva fare
niente.
La storia
infinita era un libro per
bambini.
E non un manuale su come si rimetteva insieme un gruppo
sfasciato.
***
Era stato David a pregarlo, in tutte le lingue del
mondo, di tornare allo studio.
Alla sua prima chiamata non aveva
risposto.
La seconda l’aveva rifiutata.
Alla terza
aveva risposto con un ‘non mi rompere i coglioni’.
Alla
quarta era stato a sentire cosa aveva da dirgli.
Alla quinta si
era fatto supplicare di venire nello studio.
Adesso era lì, seduto
accanto a Gustav, e non gli aveva ancora rivolto la parola.
Dal
rumore dei passi lungo il corridoio, sentì che anche Bill e Tom erano arrivati.
Entrarono nella sala relax, dove li stavano aspettando, e si sedettero nel
divano di fronte a loro, senza dire una parola. David, da buon manager e
moderatore, prese una sedia e si mise tra loro.
Sguardi fissi per
terra, sulle mani, sulle punte delle scarpe. Braccia incrociate, gambe
incrociate. Nessun suono dalle loro bocche.
“Ragazzi…”, disse
David, leggendo nelle loro facce ancora tutta la rabbia ed il risentimento che
si erano portati dentro, “Dobbiamo risolvere questa
situazione.”
“Quale situazione…”, sbottò Tom.
Georg
sospirò, non sarebbe stato facile parlare con loro e c’erano il cento per cento
delle possibilità che nel giro di trenta secondi si sarebbe scatenata una lite
furiosa. Nessuno di loro aveva accantonato la rabbia, era chiaro, quindi sarebbe
stato meglio rimanere per fatti loro, incontrarsi al momento
giusto.
Si erano detti troppe cose, si erano offesi troppe volte,
si erano accusati troppo pesantemente per riuscire a tornare amici come prima in
così poco tempo. Si erano addossati la colpa l’uno con l’altro, senza riuscire a
comprendere che nessuno, effettivamente, quella sera aveva avuto colpe. Forse
Tom, con la sua sbadataggine, forse lui poteva aver causato tutto quello, ma non
era così, no, perchè anche lui avrebbe potuto commettere il suo stesso errore,
lasciando il basso sul palco… E anche se poi la chitarra era stata ritrovata,
era successo comunque troppo tardi.
Eppure, nella rabbia del
momento, si erano gridati in faccia tutto quello che passava loro per la testa,
dall’offesa più ignobile, al biasimo più assurdo. Bill, che per natura era molto
permaloso, non avrebbe perdonato facilmente quello che era entrato nelle sue
orecchie. Gustav, che era un tipo molto impulsivo e scaricava la sua rabbia
quasi istantaneamente, era stato il primo a scoppiare. Tom, che era il più teso
di tutti, si sentiva in parte colpevole per ciò che era successo e, per
difendersi, aveva contrattaccato come meglio poteva.
Lui, Georg,
incazzato per la situazione che aveva vissuto, si era comportato esattamente
come gli altri.
Di chiedere scusa non se ne parlava.
Sarebbe stata la migliore cosa, ma non voleva
farlo.
Almeno non ancora.
“Cerchiamo di rimanere
calmi ed affrontiamo la situazione.”, ripetè David, “Avete letto i giornali?
Guardato la televisione?”
Quattro teste dissero un no palesemente
annoiato.
“Meglio così.”, disse David, spremendosi l’attaccatura
del naso per la stanchezza.
“Cosa potranno mai dire se non che
siamo finiti!”, sbuffò Bill, con gli occhi coperti da un paio di occhiali quasi
più grossi della sua faccia esile.
“Non siete finiti!”, esclamò
David, cercando di sembrare sicuro nel tono della voce, “Non siete… finiti!
Insomma, è stato un incidente di percorso, ci risolleveremo anche da
questo!”
“I concerti in Spagna sono stati dimezzati, l’album sta
scendendo in classifica, puntavamo tutto su questa esibizione unplugged e ci
hanno fregato…”, disse Tom, che era sicuro che la sua chitarra non fosse stata
messa al sicuro, ma invece fosse stata nascosta di proposito da qualcuno che
voleva speculare su di loro.
“E’ colpa tua!”, gli disse Bill, come
aveva anche fatto l’altra sera, “Se tu non la lasciavi in bella vista, questi
qua non se ne sarebbero approfittati!”
“Bill, ti prego, non
continuare a dare la colpa a tuo fratello.”, disse Georg, con voce calma,
“Sarebbe potuto benissimo accadere con il mio basso.”
“Ma tu non
dimentichi le tue cose ovunque!”, gli fece Bill, che tornò poi a gridare contro
il fratello, “Non hai la capacità di renderti conto che c’è gente
che….”
“Hai rotto le palle Bill!”, esplose Tom, “E’ una settimana
che continui a gridarmi contro le solite cose! Mi hai rotto i
coglioni!”
“Se non la lasciavi sul palco non la portavano via! E
non ci fischiavano durante tutto il concerto!”, contrattaccò Bill, ancora più
arrabbiato di lui.
“Ci hanno fischiato perchè facevamo schifo!”,
si inserì Georg, violando la legge per la quale tra nei litigi tra i due gemelli
non si doveva intromettere nessuno.
“E facevamo schifo perchè se
Tom non avesse lasciato la…”
“BASTA!”, urlò David,
sovrastandoli.
I tre litiganti si chetarono e tornarono nel loro
silenzio.
La situazione non si poteva recuperare in quel momento,
era chiaro.
“Bill, Tom non ha colpe, mettitelo bene in testa!”,
gli fece David.
“Ma se…”, provò a dire l’altro, ma fu subito
bloccato dal suo manager.
“Bill, apri quelle cazzo di orecchie e
ascoltami! Non c’entra niente tuo fratello!”, gli disse, guardandolo dritto
negli occhi, arrabbiato, “Se proprio volete incolpare
qualcuno…”
Riprese fiato, se lo sentiva mancare, era così rosso in
viso che le vene gli pulsavano in superficie.
“Vi siete fatti
impaurire come bambinelli dell’asilo! Siete dei professionisti o no?”, riprese
David, “Un paio di fischi e hanno iniziato a tremarvi le gambe… Vi siete fatti
spaventare… e avete fatto schifo! Prendetevela con voi stessi… e non con
Tom.”
Si alzò e li lasciò da soli.
David aveva colto
proprio nel segno.
Rimasero in silenzio, ognuno a riflettere per
conto proprio.
“Ha ragione David.”, disse Georg, quando ebbe
trovato la forza per far uscire un qualche suono dalla sua bocca, “E’ colpa di
tutti noi. Non dovevamo farci atterrire dai loro fischi. Se avessimo suonato
come sempre non avrebbero continuato a….”
“Stai zitto Georg.”,
fece Bill, togliendosi gli occhiali dal viso.
Non potè non
accontentarlo, non si aspettava di sentire tutto l’astio che c’era nella sua
voce.
“Bill, fermati a ragionare.”, gli disse poi, non appena
l’altro ebbe distolto il suo sguardo furioso da lui, “Abbiamo avuto paura… e ci
siamo deconcentrati. Alle prove andavamo bene. Anzi, andavamo ottimamente. Non
c’era motivo di suonare come strimpellatori di campagna, ma lo abbiamo fatto. E
perchè? Perchè il pubblico ci si è rivoltato contro e…”
“Per colpa
di Tom!”, ribattè lui, che non aveva compreso nemmeno una parola di quello che
sia David che Georg cercavano di spiegarli.
“Ha ragione Bill… è
colpa tua, Tom.”, seguì sulla stessa linea Gustav.
Il ragazzo alzò
le mani al cielo, imprecò pesantemente ed uscì dalla sala relax, sbattendo
violentemente la porta.
“Perchè non volete starmi a sentire!”,
esclamò Georg, esausto dal comportamento infantile ed irragionevole dei suoi
amici.
“Perchè dici solo cazzate.”, sibilò Bill, alzandosi dal
divano, seguito da Gustav, e lasciando la sala.
Entrò in casa e la prima cosa che fece fu scaraventare a
terra il giubbotto e dargli un calcio, facendolo volare sguaiato sul
divano. A passi veloci, entrò in camera.
Girò un
paio di volte su se stesso, come se fosse in cerca di qualcosa che sfuggiva
repentino alla sua vista. In verità cercava solo un pretesto per sfogarsi,
prendere un oggetto e scagliarlo contro il muro, romperlo, farlo andare in mille
finissimi pezzi.
Era furioso.
Incazzato come non
mai.
Avrebbe voluto spaccare il mondo in
due.
Avrebbe voluto gridare.
Avrebbe voluto prendere
a pugni qualcuno.
Solo per sfogarsi.
Solo per far
scomparire la rabbia che aveva dentro.
Si sedette sul bordo del
letto, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e giunse le mani davanti a sé,
prendendo a sfregarle.
Doveva occupare la mente.
Ma
soprattutto, doveva occupare le mani.
Altrimenti avrebbero potuto
davvero posarsi su qualcosa per romperla.
Qualcosa come la testa
di Bill e di Gustav.
Avrebbe tanto voluto sapere cosa ci poteva
essere dentro i loro crani, controllare se tutto andava bene, oppure se c’era
qualcosa di marcio.
Ma avrebbe fatto meglio a fare lo stesso con
la sua, di testa, perché sua madre gli aveva insegnato che non bisognava mai
scagliare la pietra sul peccatore se non si era più innocenti di
lui.
E Georg Listing aveva commesso, in un primo tempo, il solito
errore che sia Bill sia Gustav stavano perpetuando. Il dare la colpa a Tom
invece che a loro stessi.
Era sempre più facile condannare gli
altri.
Ma il fatto era semplice, ognuno di loro aveva contribuito
alla mal riuscita dell’esibizione. Solo che due componenti su quattro parevano
non aver voglia di rendersene conto.
Erano imbarcati nella solita
slitta, in discesa, e al già enorme bagaglio di problemi irrisolti se ne era
aggiunto un altro. A velocità impazzita, si stavano dirigendo verso la lunga
striscia dell’arrivo.
Per quanto lo riguardava, l’avevano già
passata. Esattamente da quel pomeriggio.
Adesso, per lui, i Tokio
Hotel potevano anche andare a farsi benedire dal primo prete che
incontravano.
Lui non li avrebbe accompagnati.
Ringraziamenti!
CowgirlSara: Io non ti dico niente. Hai già detto tutto tu. Stop.
LaTuM: Quando mi dicevi che quella ragazza sapeva fare anche le critiche negative, cavolo, le sa fare da dio! XD ho letto quello che ha scritto su between hate and pain... ma vabbè, mica si può pacere a tutti! Ovvio che no! (anche se ha dato della mary sue ad erin... come se lo avesse dato direttamente a me XDDDD pessimo carattere che ho! ora mi chiamerò RubySueBaggins!). Grazie comunque per aver citato anche questa storia nel tuo sito e grazie anche per i complimenti che mi hai fatto anche nel capitolo precedente... grazie sempre! Ci sentiamo su msn!
Kit2007: poveri piccioli, andiamo a consolarli tutti insieme! piangete sulle nostre spalle! ve le offriamo entrambe.... XDDD
Lidiuz93: ti mando un fazzolettino via fax, così puoi asciugare le tue lacrime XD daidai, tirate su il morale!
Sososisu: Prima riunione delle Piastraz Angelz, tirare fuori le piastre! Usate il Babyliss! E sfoderate il frisè! Facciamoci sentire! Adesso basta con le cazzate. Grazie come sempre, ci sentiamo!
Dark_Irina: non ti preoccupare per la recensione fatta al volo, tranquilla! Speriamo davvero che i ragazzi riprendano il volo, ma chi lo sa?
Kltz: ho visto un migliaio di volte quel film, Kiss Me, fino a qualche anno fa sbavavo dietro a quel maschione protagonista. Poi ho scoperto che sta con Buffy e mi è cascato il mito... ma vabbè, capita purtroppo! Davvero stai lavorando ad alcune storie? Ma bene! Voglio proprio leggerle, mi è piaciuto molto quello che hai scritto nella shot... davvero! Per i tuoi "dubbi"... non posso dirti niente, perchè comunque ti risponda, ti darei un indizio per comprendere il prossimo sviluppo della storia XDD gia, proprio così!
_Princess_: E ora che è uscita a prendere un caffè con lei? Andiamo direttamente a fare gli attentati dinamitardi alla libreria? Ah, per l'uomosesso posso dirti che per questo sabato sono libera, se ti va bene me lo passi ok? Grazie per i complimenti, mi ha fatto molto piacere conoscerti su msn! Ci sentiamo (vado a leggere la tua storia!!!)
Ciribiricoccola: questa libraria infida... mmm... stiamo attente... si infilerà ovunque!
Picchia: se fai un altro fotomontaggio del genere, ti prego, non me lo passare XD il nonno è da ospizio, ma è tanto cariiiino! Ci sentiamo su msn!