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Autore: JaneD_Alexandra    30/07/2013    1 recensioni
Sequel di "An irish tale".
Giugno 2012, Dublino.
Anya è una promessa del tennis e molti dei suoi ammiratori, compreso il suo allenatore, sono pronti a scommettere sul match che la vedrà sfidarsi con la più giovane e famosa tennista inglese. Gli allenamenti si fanno duri, Mr. Harris, il mister, inizia a fare di tutto per vedere vincere la sua allieva, non sapendo in realtà che da un po' di giorni lei dorme male a causa di un sogno ricorrente: si rivede nelle campagne irlandesi di metà Ottocento, in una buia e uggiosa serata, mentre cammina verso una casetta al limitare di un villaggio. L'ambiente e le sensazioni sono così realistiche che decide di cominciare ad indagare.
Ancora una volta si ritroverà catapultata nel mondo della borghesia irlandese dell'Ottocento, due anni dopo gli eventi del 1856.
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO V 

 
 
 
Il signor Quickeye aveva detto che avrebbe piovuto. E quando lei scrutò l’orizzonte, volgendo lo sguardo a ovest, qualche chilometro sopra le montagne, capì quanto avesse ragione; una ragione che si fece ancor più grande allorché il vento intensificò la sua già poco trascurabile potenza.
Un carro trainato da una coppia di grossi cavalli comparve sulla strada, ad una cinquantina di metri più lontano, alle sue spalle. Anche senza vederlo, intuì dal fragore delle ruote che avesse una certa fretta di raggiungere il villaggio e si spostò immediatamente fuori dal sentiero. Solo per un istante le grida del cocchiere soverchiarono il fracasso delle ruote. Una grossa nuvola di polvere fu, insieme ai solchi sulla terra battuta, l’unico segno del suo passaggio. Le mani del vento spazzarono via tutto in un fugace vortice. La polvere danzante si alzò in una spira sinuosa prima di dileguarsi.
Riprese il cammino stringendosi allo scialle. La corrente incollava gli abiti al suo corpo, spingendo ad ogni passo la stoffa nera della gonna fra le gambe. I lembi dello scialle scivolavano suo malgrado dalla presa delle dita e la cuffietta, l’austera cuffietta di cotone grigio, oltre a essere poco adatta ai climi freddi, non resistiva alla pressione del vento e con una mano la sosteneva affinché non ricadesse sulle spalle.
In diverso modo e misura ogni parte del suo corpo era impegnata ad affrontare quella lunga camminata. La mano libera stringeva sottobraccio un involto con un pane di segale e una coppia di tomi con cui aveva appena fatto lezione. Con il passare dei minuti l’incarto che avvolgeva il pane si era divelto e il fruscio della carta copriva a intervalli il silenzio. Quando lo ebbe a noia tentò di porvi fine con una pacca, ma ottenne solo che la cuffietta scivolasse via dalla chioma fulva. Sospirò con avvilimento slegando i lacci del collo e prendendola nella mano sinistra. L’acconciatura non perse tempo a sfaldarsi e il compito di scostare le ciocche da occhi e fronte tornò a occupare la mano destra.
Fortuna, pensò, che mancavano ancora pochi passi a casa.
Il sentiero si inerpicava in una leggera salita di terra battuta e qualche ciottolo calcareo. Il tempo, che non aveva visto il passaggio di calessi e carrozze, gli aveva donato un aspetto pressoché uniforme, aggiungendo, per grazia del clima umido, dei ciuffetti di erba verde ai lati. Vi si inoltrò e finalmente raggiunse la piccola abitazione di pietra.
L’interno accoglieva tutto il necessario per una vita spicciola e senza pretese. La casa era appartenuta ad una famiglia di contadini che avevano preferito spostarsi nelle fabbriche inglesi, il che spiegava la presenza di tre stanze: una cucina e due camere che lei aveva trasformato in camere da letto. Dei tre la cucina era l’ambiente più grande. Al suo centro vi era un tavolo di legno scuro, rettangolare, con gli spigoli scheggiati e il segno di coltelli conficcati sulla superficie; addossato al muro di destra c’era un camino alto abbastanza da permettere di controllare una minestra sul fuoco e tanto grande da riscaldare la casa in pochi minuti anche con le temperature più basse; addossato al muro di sinistra, invece, c’era un mobiletto dove venivano riposti i piatti, i bicchieri ed una quantità di posate che Anya non aveva mai usato tutte. Ai lati del camino e sparse un po’ per tutta la casa erano le sedie, che insieme al tavolo costituivano l’unica eredità dei precedenti abitanti della casa. Le modifiche apportate dalla seconda inquilina erano poche e dettate da un diverso stile di vita: poco distante dal camino, fuori la portata delle scintille, c’era una piccola culla di legno, una sedia a dondolo e ai suoi piedi un piccolo tappeto sbiadito, regalo di una donna che non aveva potuto ripagare in denaro le lezioni al figlio. Quando si sedeva sulla sedia a dondolo aveva quasi sempre Victor in braccio. Era un bimbo di appena sette mesi, l’unica, vera ragione che la spingeva ad andare avanti ed affrontare anche i problemi più difficili. Era suo figlio, il suo mondo, il regalo più bello che il signor Langley le aveva fatto. Quando lo cullava non faceva che pensare a quanto era stata felice alla tenuta di Waterford, a quanto ancora avrebbe potuto esserlo se non fosse accaduto quel che era accaduto. Pensava a Paride, si chiedeva come avrebbe reagito alla notizia della gravidanza. Victor aveva i suoi stessi occhi verdastri, era cocciuto, aveva le mani forti. Come se non bastasse era anche molto curioso, tendeva le braccia verso tutti gli oggetti e quando non poteva ottenerli si aggrappava ai capelli della madre. Anche in quei momenti, Anya si ritrovava a pensare alla possibile reazione di Paride.
 
Il villaggio si trovava nei pressi di Portlaw, a nord ovest della contea di Waterford e a qualche miglio di distanza dal confine con la contea di Kilkenny. Il numero degli abitanti non era alto e infatti il villaggio non vantava dimensioni ragguardevoli. Solo con l’arrivo degli operai era stata costruita una locanda per viaggiatori, ma anche questa manifestava la scarsa abitudine dei cittadini agli avventori: piccola e gestita da una vedova di mezza età, aveva più l’aspetto di una grande casa, mancava di una sala di ritrovo e i pasti si svolgevano in una cucina con un lungo tavolo.
Le case erano circa una trentina, ma ultimamente il loro numero era aumentato per l’arrivo di operai dalla città. Fuori dal villaggio, in un terreno rimasto incolto da anni, acquistato solo di recente da un nobile del sud, si stava costruendo una scuola che portava il suo nome: il P.B.V.T. Langley Istitute. La fautrice del progetto era Anya Bacott, un’istitutrice, a quanto pareva, di Waterford che si era ritrovata per le mani il terreno e un lascito parecchio consistente. A nessuno era chiaro il legame tra i due e ancor meno il motivo per cui questo “generoso” finanziatore non si facesse mai vedere in giro. Per quanto il numero di abitanti fosse basso, circolavano molte voci sia sul suo conto che su quello della ragazza che abitava a mezzo miglio dalla cittadina: qualcuno supponeva che fossero fratelli; qualcun altro che fossero fidanzati; qualcun altro ancora che fossero padre e figlia. Le voci più maliziose giuravano che la ragazza fosse stata sedotta e abbandonata e lui, per zittirla ed evitare di mandare a monte il proprio matrimonio con la notizia della gravidanza, le aveva lasciato un terreno e una rendita da far gola a tutti.
Anya conosceva quelle voci una per una, ma dal suo arrivo non aveva mai fatto niente per smentirle. Anche se fosse, sarebbe stato faticoso e snervante dedicarsi a ognuna. E poi era gente povera, dalle vedute ristrette, e non la biasimava, anche se era oggetto di discriminazione, in quanto ragazza madre; forse era questo il motivo per cui il conte aveva ordinato la costruzione di una scuola in quelle campagne.
I lavori in cantiere procedevano con lentezza. Anya vi dedicava la maggior parte del tempo e in capo a un anno più di un quarto del lascito del conte era stato speso. Quando contava i soldi ne rilevava sempre molti in meno e registrava con il cuore pesante ogni spesa. Per arrivare al cantiere doveva camminare tutti i giorni per almeno un quarto d’ora, spesso sotto la pioggia. In caso di cattivo tempo gli operai non lavoravano e in generale gran parte di loro aveva una salute così malferma da ammalarsi giusto quando i lavori riprendevano. In quattro si erano portati la famiglia dietro e delle abitazioni erano sorte sul limitare del cantiere; durante il giorno i figli degli operai giocavano e correvano senza mai far silenzio, rendendo spesso difficile il lavoro scrupoloso dei mastri muratori. Sparivano quantità più o meno esigue di polvere di calce, cadevano i cumuli di mattoni rossi appena arrivati dalle fabbriche del nord, i cani da guardia abbaiavano senza interruzione, disturbati dalle grida infantili, sparivano gli attrezzi del falegname e le righe di legno dell’architetto. Le vittime andavano a lamentarsi con Anya dritte a casa sua, spesso alla fine di una giornata dedicata anche alle lezioni private, ma lei nulla poteva rispondere se non che erano bambini, che non conoscevano l’importanza delle cose e che bisognava portare pazienza.
La verità era che di quella vita neppure lei ne poteva più e si lamentava con il signor Langley, lo sguardo rivolto al cielo, della sua decisione di affidarle un impegno così dannatamente gravoso. Era lui quello con le capacità organizzative, quello più versato al controllo e più portato al comando. Ne ricordava le espressioni decise, spesso pensierose, le occhiate scattanti che esigevano obbedienza e la spiccata intransigenza. Probabilmente, pensava sempre dopo aver pianto per l’esasperazione, quello era un progetto suo, a cui si sarebbe dedicato di persona; ma perché, in previsione della sua morte, aveva deciso di affidarlo a lei?
Era questo che la rattristiva di più e ci rifletteva sempre più spesso, seduta sulla sedia a dondolo, davanti al camino, i piedi puntati sul tappeto. Avrebbe voluto scoprire la ragione di una tale fiducia, avrebbe voluto scoprire ancora molte cose su di lui; ma il tempo non era stato e non era clemente e anche quando si soffermava su quei pensieri, la mente divagava, divagava, divagava, conducendola sempre a tutt’altro genere di riflessioni, come ad esempio la quantità di patate e cipolle da preparare per cena o l’argomento della lezione del giorno dopo.
Quel genere di serate da qualche tempo erano diventate frequenti. Sedeva davanti al camino con Victor in braccio e si addormentava; si svegliava prima dell’alba, di regola a causa dei dolori, e non riprendeva il sonno neppure se si metteva a letto. Così, ancora vestita e con l’acconciatura disfatta, appena spuntava il sole visitava il cantiere e cominciava a porsi una quantità di domande alle quali non sapeva trovare risposta.
 
Prima di entrare in casa, in previsione della pioggia, si mise tra le braccia un po’ dei tocchi di legna che aveva accatastato ai piedi di uno dei muri esterni. Ne prese quanti più poteva e, piegata al’indietro dal peso, bussò con la punta del piede.
Una voce femminile, incerta, rispose dall’interno.
- Sono Anya!
Non appena la porta fu aperta Anya si precipitò verso l’interno e fece cadere i ceppi in un angolo, poi mise il pane e la cuffietta sul tavolo. Ierne sistemò i ceppi, mentre Anya riprendeva fiato massaggiandosi la schiena e si guardava intorno con una punta d’apprensione.
- Ierne, dov’è Victor?
La donna sorrise, rassicurante – Sta ancora dormendo – disse ravvivando le fiamme con un attizzatoio. Anya ricercò brevemente il suo sguardo, poi corse nella sua stanza. Accanto al letto, in una piccola culla di legno imbottita con un cuscino e qualche coperta, dormiva un bambino piccolo. Anya gli si avvicinò in punta di piedi e si sporse su di lui, visibilmente intenerita e sollevata.
- Si è svegliato mentre ero via?
Non si era neppure curata di vedere se Ierne fosse dietro di lei o la stesse ascoltando, ma la donna, come in previsione di quella domanda, si era avvicinata e osservava madre e figlio con un sorriso. – Neppure una volta, signorina Bacott. Ha dormito tutto il tempo … - mormorò sistemando un angolo della coperta nella culla e scuotendo piano il capo – È proprio un bravo bambino.
Anya carezzò con delicatezza la nuca del piccolo, colorata da una sottilissima chioma fulva, trattenendo l’impulso di prenderlo fra le braccia. Quando Ierne aveva parlato, lei stava percorrendo il profilo del figlio, non stancandosi mai di trovare in quel minuscolo viso una spiccata somiglianza con il padre. Sorrise, serrando la mascella con profondo rimpianto, e deglutì, rimettendosi dritta sulla schiena. Nel sonno, il piccolo serrò le dita piccole e paffute e mosse appena appena un piede.
- Credo che stia per svegliarsi – sussurrò Ierne con un sospiro.
Anya sorrise e le lanciò un’occhiata. Dai suoi movimenti capì che voleva andarsene. E la capiva, perché a breve si sarebbe scatenato un temporale e lei doveva raggiungere la famiglia nei pressi del cantiere. Si allontanò brevemente dalla culla e si volse verso Ierne. La accompagnò in cucina e prese il denaro per pagarla. Nonostante fosse la madre dei bambini che più danni avevano arrecato agli strumenti dei muratori, non concepiva l’idea di affidarle il figlio senza una ricompensa. Anche quella volta Ierne la ringraziò con un gran sorriso, si avvolse nello scialle e uscì.
Ogni volta che Ierne se ne andava sentiva il peso della solitudine piombarle addosso. Il rumore dei suoi passi nel sentiero si dissolveva presto, assorbito dai muri di pietra e dal vento, e d’improvviso gli unici suoni erano il crepitare delle fiamme nel camino e il tamburellare del cuore contro il petto.
Talvolta, vi si aggiungeva il pianto di Victor … come in quel momento.
Corse da lui e, scostata la coperta, lo prese in braccio. Nel riconoscere il tocco materno, il bimbo si calmò un po’, ma dopo un istante il pianto si fece nuovamente forte. Anya andò in cucina, cullandolo e sussurrandogli parole dolci, allontanò la sedia a dondolo dal camino e sedette. Il dimenarsi di Victor la fece sorridere. Si lasciò stringere il dorso di una mano, mentre con l’altra sbottonava l’abito e scostava le sottane. Intuite le intenzioni materne, Victor si quietò di nuovo e allungò una mano verso il petto alla ricerca di un nutrimento che non tardò ad arrivare. Si attaccò al seno con un sollievo ben visibile e cominciò a poppare con grande voracità. Solo in quel momento, alla vista del suo mondo appagato, Anya poté rilassarsi contro la spalliera della sedia.
 
Il rombo cupo del primo tuono giunse attutito tra le mura di pietra dell’abitazione. Anya ringraziò ancora una volta il cielo per averle concesso di trovare una casa così piccola e calda, in una regione in cui il freddo faceva da padrone. L’unico fastidio proveniva dalla pioggia che veniva schiaffata contro i vetri delle finestre dal vento. La casa era dotata di almeno una finestra per ogni camera, ragion per cui ignorare quel rumore non era possibile.
Mentre cullava Victor nel tentativo di farlo addormentare, controllava che la minestra di patate e carote cuocesse sul fuoco del camino. Si chinava spesso per evitare che gli ingredienti si attaccassero al fondo del paiolo, usando un lungo cucchiaio di legno. Sempre più di frequente rimpiangeva i fornelli della tenuta, in cui la fiamma era almeno regolabile. Quando si abbassava, per gioco, essendo pieno di energie, Victor afferrava le ciocche che le erano sfuggite all’acconciatura e tirava forte, facendo gemere Anya di dolore; la cosa pareva divertirlo e nel sentirlo ridere in quel modo, lei proprio non aveva il coraggio, né lo spirito per rimproverarlo. Si spostava i capelli dietro le orecchie e non ci pensava più.
Quando, infine, sembrava aver perduto un bel po’ di energie, dopo aver lungamente discusso a voce alta argomenti che solo lui conosceva e aver ripetuto più volte una storpiatura di “mamma”, afferrandole la pelle delle guance, chiuse gli occhi – fase che richiese una ninna nanna ed un po’ di tempo – e si addormentò. Anya si mise la culla vicino e lo adagiò lì; poi,  dopo averlo desiderato dall’ora di pranzo, si riempì il piatto di minestra. Dedicò alla cena una buona mezz’ora, malgrado il sonno e l’acuto senso di fame, e, intervallando un cucchiaio di zuppa ad una spintarella alla culla e ad un morso di pane nero. Appena finì mise tutto da parte e si preparò per la notte, la tempesta di pioggia e vento a fare da sottofondo.
Trascinò la culla di Victor nella sua stanza e mise mano all’abbottonatura dell’abito, lanciando di tanto in tanto un’occhiata al paesaggio tenebroso oltre la finestra e al figlioletto che dormiva sereno. Si avvicinò al vetro freddo e scostando le tendine guardò meglio fuori. Il paesaggio era avvolto nell’oscurità; solo quando un lampo lo illuminava era possibile vedere le fronde degli alberi scosse dal forte vento e dalla pioggia. Scariche d’acqua si intervallavano a cadute di una grandine minuscola e tamburellante. Il fischio del vento soverchiava ogni altro rumore. Sbigottita e turbata tornò a spogliarsi e indossò in fretta la camicia da notte, rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi con il pavimento freddo. A quel punto mise mano alle coperte del letto e si sarebbe coricata se al rombo lontano di un tuono, non si fosse sovrapposto un improvviso tamburellare sul legno. Spaventata, sussultò. Si voltò istantaneamente verso la finestra e affinò i sensi alla ricerca di un altro suono simile, che non tardò ad arrivare. Il tamburellare fu più forte di prima e capì, dal ritmo, che si trattava del bussare contro una porta di legno. La sua.
Con il cuore in gola si alzò e prese Victor in braccio. Il bambino continuò a dormire serenamente, ma Anya per istinto lo cullò, mentre entrava in cucina e muoveva un passo dopo l’altro verso la porta. Altri quattro colpi raggiunsero il legno.
- Chi è? – gridò la giovane, osservando la porta come se dovesse crollare da un momento all’altro. Tese l’orecchio, ma non udì nessuna risposta. Male. Era forse un malintenzionato che sapeva che in casa c’era solo una giovane donna con un figlio piccolo?
Si avvicinò di qualche passo alla porta e chiese di nuovo – Chi è?
Udì, questa volta, nell’impeto del temporale, una voce maschile. Chi bussava era dietro la porta, ma quel suono pareva lontano o come pronunciato a fatica. Strinse a sé Victor, non smettendo neppure per un istante di cullarlo fra le braccia. Guardinga, si avvicinò alla finestra e scostò un lembo della tendina per guardare fuori. Sospirò. Se era un forestiero, mannaggia a lui, perché non andava nella locanda? C’erano letti e pasti caldi per tutti lì! Carezzò con lo sguardo Victor, riflettendo velocemente sul da farsi. L’uomo bussò ancora, con un po’ più di energia e stavolta la sua voce si levò, forte e chiara.
- Non intendo fare del male a nessuno! Non sono armato!
Le parve subito familiare. La conosceva.
Tornò in camera da letto per mettere Victor nella culla e si riavvicinò alla porta.
- Arrivo! – esclamò, coprendosi rapidamente con lo scialle. Ebbe un ultimo attimo di titubanza quando la mano avvinghiò la maniglia, ma, dopotutto, si ripeté, quell’uomo non poteva essere un estraneo. Così aprì.
I mesi di solitudine trascorsi in quella piccola casa di campagna, circondata a larga distanza dalle abitazioni dei contadini, situata a mezzo miglio da un villaggio straripante di gente solo la sera, in quanto durante il giorno erano quasi tutti impegnati nei campi, diede i suoi frutti in quel preciso istante. Il non essere più abituata a vedere uomini distintamente abbigliati, il fatto di essere stata esiliata per quasi un anno in una landa che non vantava la presenza di giovanotti lindi ed educati, ma che pullulava di uomini dai visi raggrinziti dal sole e dai modi burberi, fece sì che il suo volto latteo si colorasse di una sorpresa consapevole e compiaciuta.
L’uomo dietro la porta era tutt’altro che un malintenzionato. Non era un forestiero. Era ben vestito, aveva un bel volto e malgrado il tempo imponesse il contrario, si erigeva con un atteggiamento trasandato e orgoglioso, desolato e fiero. Forse c’era qualcosa di nuovo, ma riconobbe gli occhi color nocciola, i capelli ondulati che ora gli si incollavano sulla fronte e ai lati del volto, l’espressione saccente e gentile. Capì che la differenza rispetto a come se lo ricordava stava nel fatto che aveva tagliato sia i baffi che il pizzetto e quel volto bello e maturo rinnovò in lei il pensiero che aveva avuto la prima volta che si erano incontrati. Che uomo …
- Signor Drebber … - mormorò, incredula.
L’uomo sgranò gli occhi. – An … signorina Bacott!
- Prego – balbettò lei, facendosi di lato – entrate …
Indicò appena l’interno con il braccio, senza distogliere da lui lo sguardo. Drebber si fece lentamente avanti, muovendo gli occhi da un punto all’altro della stanza. Si sentì rabbrividire, non sapeva nemmeno per cosa, se per il freddo o l’emozione, e quando la porta dietro di lui si richiuse tornò a guardare la sua ospite.
- Signorina Bacott … - ripeté, esterrefatto. – Signorina Bacott … siete proprio voi! – e accennò un sorriso.
Anya lo ricambiò con altrettanto entusiasmo e annuì. Lo guardò a lungo. Il viso bagnato, i capelli ondulati e gocciolanti, la figura elegante e per niente intirizzita, i vestiti fradici. Per un attimo si chiese se fosse veramente lui, quel signor Drebber per cui aveva lavorato e che le aveva chiesto di sposarlo. Il sorriso si ampliò impercettibilmente, le guance presero un tocco di colore. Ma come poteva essere?
- Signor Drebber – chiese cacciando un’occhiata alla porta – come mai qui?
L’uomo parve destarsi solo in quel momento dalla sorpresa, ma anche quando parlò, il suo sguardo non perse la curiosa ammirazione per la ragazza. Osservava ogni suo movimento con l’espressione di chi ricorda improvvisamente qualcosa che aveva dimenticato e che non voleva più perdere, come se da  un momento all’altro, se non badava a tenere gli occhi aperti, quel qualcosa poteva dissolversi come un sogno.
Anya chinò leggermente il capo di lato, ricercando il suo sguardo. Drebber se ne accorse solo quando la sensazione di essere osservato si fece palpabile e distolse in fretta gli occhi dal volto latteo che tanto bel tormento gli aveva dato in passato. Si morse un labbro e stirò le labbra in un altro sorriso.
- Torno … - balbettò - … torno da … sono stato a Kilkenny … per due giorni. È un bel posto – annuì, grattando distrattamente la tesa del cappello che teneva tra le mani. – Voi? State bene?
La giovane aggrottò la fronte. – Io? Sì, sto bene … - disse, sentendosi di colpo stupida e ricercando qualcosa da fare. Assunse un’espressione cortese, mentre rifletteva rapidamente su cosa dire. Poi notò la pozzanghera intorno agli stivali del signor Drebber, e, ispirata, indicò subito il camino.
- Avete bisogno di asciugarvi … venite, le fiamme del camino sono vivaci.
Drebber la seguì, posizionandosi di fronte al camino con i palmi delle mani rivolti alle fiamme. Anya gli disse qualcosa sul cappotto, indicò le gocce d’acqua sul pavimento. Ma dei suoi discorsi capiva ben poco. Obbedì, togliendosi la giacca, allungò il cappello alla sottile mano che gli porgeva, si avvicinò un po’ di più al camino. Aveva la gola secca, la bocca secca, le labbra asciutte. E più la guardava più avvertiva il bisogno di idratarsi. Si muoveva con sicurezza, non perdendo mai quel fare così femminile che le era tipico. Gli orli della camicia da notte danzavano intorno alle caviglie bianche, la lana seguiva le forme del corpo, carezzava braccia e fianchi, evidenziava il movimento delle gambe. Come ricordava bene quell’autunno in sua compagnia! Come bene si capiva adesso, ripensando alla proposta che le aveva fatto!
Serrò gli occhi. Si prese per idiota.
- Signor Drebber?
Si sentì toccare ad una spalla e si girò di scatto. – Sì?
- Mi chiedevo se foste venuto in carrozza …
Drebber scosse il capo. – No … viaggio a cavallo. Una cattiva idea, lo so – si affrettò ad aggiungere notando la sua espressione – ma è stato solo a causa di un contrattempo. Alla mia carrozza è saltata una ruota ad una ventina di miglia dal confine.
- Il cavallo è al riparo?
- L’ho legato sotto la tettoia di fianco alla casa.
Anya assentì e guardò il fuoco.
- Con questo tempo – disse senza voltarsi – dovrete aspettare domani mattina per riprendere il viaggio.
Drebber trattenne il fiato. All’emozione si sostituì presto l’imbarazzo.
- Potrete rimanere qui. Ho una stanza in più …
- Oh no, signorina … arrecherei solo disturbo – disse. Ed era sincero. Non avrebbe davvero potuto accettare una tale proposta da una donna che viveva da sola. Anche se quella donna era lei.
- Non recate nessun disturbo, signor Drebber – borbottò tranquilla Anya, tornando a guardarlo.
- Mi ero fermato alla locanda dei viaggiatori, ma la donna che la gestisce ha detto che non c’erano più letti …  - disse - Non mi sono mai trovato in una situazione simile. Vi sono sinceramente grato per la vostra ospitalità, ma non posso proprio approfittarne. Preferisco rimettermi in viaggio.
- Perdereste la bussola prima ancora di fare un miglio – disse lei con un sospiro. – Forse è meglio se accettate la mia proposta.
Drebber esitò.
- Sia chiaro – precisò Anya, fraintendendolo – non sono mai generosa in fatto di inviti. La vostra è una necessità, per questo insisto.
Tacque, non azzardandosi a guardarla. Mosse gli occhi dalla punta dei suoi stivali al camino, poi dal tavolo alle porte sulla parete di fronte. La sensazione di disagio crebbe, ma alla fine accettò. Anya lo fece sedere al tavolo.
- Gradite qualcosa di caldo? Un tè?
- Davvero, io …
- Suvvia, non esitate. Ho della minestra di patate e carote e del prosciutto, se vi va … avete cenato?
Drebber scosse il capo, con un sorriso imbarazzato. Anya si diede subito da fare, mettendogli davanti un piatto pieno di una profumata minestra fumante e una grossa fetta di pane nero.
- Mi dispiace di non avere una di quelle pagnotte bianche che imbandivano sempre la vostra tavola – disse, tagliando una fetta di formaggio - né del buon vino rosso …
Drebber corrugò il mento con un’aria parecchio soddisfatta. Cercò di rispondere, ma le parole gli si fermarono in gola. Ignara dell’enorme gratitudine che Drebber tentava di manifestare con compostezza, Anya mise la fetta di formaggio su quella di pane nero e lo invitò con un cenno a mangiare, mentre metteva da parte il formaggio rimanente.
- Sono io, adesso, a chiedervi di non scusarvi, signorina Bacott …
Anya prese posto di fronte a lui, dall’altro capo del tavolo. Lo interruppe con un cenno della mano ed un sorriso bonario e tentò di ignorare la sensazione di imbarazzo che la prese quando calò il silenzio. Il signor Drebber la ringraziò con lo sguardo e cominciò a mangiare.
- Avete detto di essere stato a Kilkenny? – gli chiese dopo un po’.
L’uomo ingoiò un boccone di minestra ed annuì. – A Thomastown, per la precisione – disse bevendo un sorso d’acqua. L’espressione di Anya lo invitò a proseguire. – Sono andato a trovare la mia … la famiglia della mia fidanzata.
La giovane sgranò gli occhi. Lo stupore fu tale che non seppe cosa rispondergli. Fece un gran sorriso e disse – Da quanto tempo?
- Da quanto tempo siamo … ?
Anya annuì e lo guardò. La flebile luce del camino non nascose il rossore che gli ricoprì le guance. Si chiese, d’un tratto, se fosse stata avventata.
Drebber si schiarì la voce. – Da ieri.
- Oh … Vi faccio i miei migliori auguri, allora! – disse con entusiasmo, sperando di tamponare l’eccesso di curiosità, al quale Drebber non pareva manco aver fatto caso. Ricambiò il sorriso, ficcando in bocca un pezzo di pane col formaggio.
- Come si chiama?
- Chi?
- La vostra fidanzata … sempre se posso chiederlo.
Lui trattenne un sorriso, ma gli occhi brillarono. Li chinò sul piatto, quando rispose – Keira.
- Un bel nome … in gaelico significa “scuro”.
Drebber fece di sì. – Anche se la mia fidanzata è bionda …
La giovane si dimostrò ancora una volta contenta, ma trattenne l’impulso di fare altre domande per evitare ulteriore imbarazzo. Era vero che conosceva il signor Drebber al punto da poter porre qualsiasi domanda, ma era anche vero che non lo vedeva da mesi e la situazione non sembrava particolarmente propizia per quel genere di discorsi. Fuori il turbinio del temporale si era fatto più forte e in particolari momenti la fiamma del camino veniva scossa dalla corrente attraverso la canna fumaria. Lanciò un’occhiata alla cena del signor Drebber e guardò anche lui mentre mangiava, badando che lui non la notasse. Non nascose che fosse veramente un bell’uomo. I capelli gli si stavano asciugando in fretta, piegandosi in maniera disordinata sulle tempie e sulla fronte, donandogli un aspetto più giovanile. Calcolò che doveva avere poco più di trent’anni e scrutò maliziosamente il viso alla ricerca di qualche ruga. Ne trovò qualcuna solo agli angoli degli occhi, ma erano così superficiali da non avere valore alcuno. Si concentrò allora sul movimento delle iridi e poi sulla piega dei lineamenti. Probabilmente stava ancora pensando alla sua Keira. Provava un pizzico di gelosia, ma non negò di essere contenta per lui, che a quell’età non poteva far altro che sposarsi e zittire le chiacchiere sul suo celibato. Notò pure una cicatrice poco sotto il naso e un’altra appena sopra l’angolo delle labbra. Si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima, dato che erano visibili, ma si diede presto della stupida, ricordando che quando l’aveva conosciuto il signor Drebber aveva i baffi.
La mente andò, così, al giorno del loro primo incontro: Anya era al mercato con Greta e Adele e aveva deciso di allontanarsi perché la visione del macellaio che sgozzava le anatre la faceva star male. Si era allora recata in pasticceria e lì l’aveva visto. Sgranocchiava un biscotto con un’aria così spavalda e trasognata da dare sui nervi. Era stato in quel momento che si era offerto di pagare per qualsiasi suo desiderio. Ma lei si era rifiutata ed era tornata alle sue incombenze.
Di quell’incontro e dei regali che seguirono il signor Langley non fu mai contento. Tentò di nasconderli uno per uno – i muffin, l’abito di seta blu per il ballo – ma lui, volente o nolente, trovava sempre il modo per impicciarsi.
- Le vostre riflessioni sono così tristi?
Anya si ridestò di colpo. Solo allora si accorse di aver distolto lo sguardo dal suo ospite e di essersi portata una mano al petto, all’altezza del cuore, stringendo la camicia da notte come se fosse il suo ultimo appiglio. Calmò i battiti con dei sospiri e si voltò. Drebber la guardava, spezzando la fetta di pane nero.
Scosse piano il capo, abbozzando un sorriso. – No …  - mormorò. Mosse le labbra per aggiungere qualcosa, ma tacque.
Il signor Drebber morse un pezzo di formaggio con aria pensierosa. Tacque anche lui e per un po’ si udì solo il crepitio delle fiamme nel camino. Perfino il vento sembrava essersi placato.
- Non vi ho mai detto quanto mi dispiace – disse poi.
Anya lo guardò. – Per cosa?
Drebber ebbe un istante di esitazione. Il movimento delle iridi tradì il rimorso per aver parlato. – Che … - cominciò - … che il conte Langley …
Anya capì e lo interruppe con un cenno fulmineo della mano. Odiava sentirlo dire. – Va bene, va bene – sussurrò, lo sguardo basso. Drebber si irrigidì leggermente, mentre la vedeva stropicciarsi gli occhi e la faccia con le dita.
- Mi dispiace, non volevo essere indiscreto.
- Non preoccupatevi – disse lei, allontanando le mani dal viso. – Sto ancora cercando di farci l’abitudine … - aggiunse sottovoce dopo un po’.
Il volto del signor Drebber non poté esprimere un dispiacere più grande. Gli occhi si sgranarono leggermente, le sopracciglia si incurvarono, le labbra si dischiusero e balbettarono silenziosamente alla ricerca di suoni da articolare. Al contempo le mani si contrassero, i polpastrelli si nascosero nel palmo della mano, il petto si gonfiò e così rimase fino a quando Anya si alzò e si avvicinò al camino, avvolta nello scialle.
- Signor Drebber … non sentitevi in colpa, ve ne prego …
Lo udì sospirare una, due, tre volte. – Ho lasciato Westok dopo averlo saputo – disse, girandosi probabilmente verso di lei. Anya, di fronte al camino, gli dava le spalle. Senza attendere una risposta, continuò – In un certo senso, quelle lande erano legate a lui. Dopo … - titubò. Prese fiato ancora una volta, poi tacque.
Ma Anya immaginava già cosa voleva dire e le lacrime vennero giù da sole. Alla morte del signor Langley, la gestione dei terreni era passata all’amministratore, il signor Hobson, ma questi, avendo uno spirito più commerciale che contadino, non si era rivelato all’altezza dell’incarico e nel giro di pochi mesi gran parte del raccolto era andato perduto. Certo, la colpa non era solo sua, poiché l’inverno era arrivato in anticipo e il freddo era stato intenso, ma nulla le toglieva dalla testa che il conte, a differenza sua, avrebbe saputo come evitare il disastro. Ciò che stava per dire il signor Drebber, quindi, era che dopo la scomparsa del conte la brughiera era stata sopraffatta dal suo lato più selvatico.
Anya si passò il dorso della manica sulle guance.
- Vi ho cercata a lungo. Imogen stessa mi chiedeva di voi e sperava di convincervi a trasferirvi a casa sua, a Cork … - disse, muovendosi leggermente sulla sedia, forse per poggiarsi alla spalliera.
- Nessuno mi aveva detto che vi eravate trasferita qui.
- Perché nessuno lo sa.
Drebber masticò l’ultimo pezzo di pane senza sentirne il sapore. Quando s’avvide di aver finito la cena, nonostante avesse ancora un certo appetito, non osò chiedere nulla e si alzò silenziosamente per mettersi davanti al camino. La sua giovane ospite era come imbambolata dalle fiamme del camino, ma aveva le guance rigate di lacrime che continuavano a cadere. L’occhiata che le lanciò bastò pure a notare quanto poco si sforzasse di contenersi. D’istinto desiderò abbracciarla e rassicurarla fino a che non si fosse calmata, ma qualcosa lo frenò. Un pizzicore ai polpastrelli lo distrasse dall’intento e tese le mani verso le fiamme.
Il silenzio li avvolse nuovamente, ma questa volta il temporale si sentiva bene. Giusto in quel momento fu come se il cielo si stesse spaccando. Il fragore lacerante del tuono fece vibrare i vetri delle finestre e la porta. Accanto a sé, con la coda dell’occhio, Drebber vide la giovane sussultare e guardarsi dietro, in direzione di una delle due camere da letto, prima di correre verso quella a destra. Uno strano mugolio era sembrato provenire da quella direzione. Un lamento che si era trasformato poi nel pianto di un bambino. Senza ombra di dubbio di un bambino. Confuso e ancora scosso dal frastuono del temporale, sul momento non fu in grado di riflettere sulla faccenda. Si pose a stento una domanda circa la ragione per cui un bambino si trovasse in quella casa. Un pensiero sconnesso si susseguì rapido dietro ad un altro, per cui, quando la ragazza ricomparve con un bebè tra le braccia, lo stupore fu tale che sentì qualcosa nella testa venir meno. Guardò il bambino, poi Anya. Colto l’interrogativo, lei sorrise e annuì, non smettendo di cullare il figlio e rassicurarlo con dolci sussurri.
Sbigottito, dimenticando la necessità di asciugare gli abiti che aveva addosso, Drebber mosse qualche passo verso di lei, fissando con un misto di adorazione e contemplazione quel bimbo che con tanto ardore ricercava le attenzioni della madre. Quando fu vicino Anya sorrise di nuovo, ma questa volta con una strana luce negli occhi, un luccichio che non gli sfuggì e che gli strinse la gola in un nodo delicato.
- Signorina Bacott … - sussurrò, allungando una mano verso il bimbo.
- Perdonate la svista, signor Drebber – disse lei. – Avevo dimenticato di presentarvi Victor, mio figlio.
Il petto dell’uomo fu scosso da un singulto simile ad un brusco tentativo di trattenete il respiro e in un baleno la vista gli si appannò.
- Signor Drebber … - sentì dirle - … signor Drebber … state bene?
Lui sorrise. – Altrochè – bisbigliò, passandosi una mano sul collo – altrochè ... – e sospirò guardandola negli occhi – Vostro figlio, avete detto?
- Sì …
Carezzò delicatamente la nuca del bambino, che nel frattempo si era calmato – Vostro figlio … - sussurrò, incredulo - … è bellissimo …
Victor appuntò i suoi occhi verdastri su di lui, sgranandoli appena nel tentativo di studiarlo. Le piccole sopracciglia vermiglie si incurvarono con una leggere contrazione della fronte e la piega degli occhi si distorse. Allontanò una mano dal petto materno per tenderla verso quello strano individuo. Il signor Drebber gli avvicinò la sua, ma lui la rifiutò prontamente e tornò a stringersi alla madre con lieve fastidio. Una breve ventata del suo profumo lo investì, quando ella sbottò in un sorriso.
- È sempre così con gli estranei …
Approfittò della vicinanza della sedia a dondolo con il camino e vi prese posto. Il signor Drebber la imitò prontamente, sedendosi senza mai smettere di fissare il piccolo. A quel punto gli sorse un dubbio.
- E … il padre?
La giovane si poggiò allo schienale della poltroncina. Victor giochicchiava con i laccetti della sua camicia da notte.
- Lo conoscevate – si limitò a dire, senza alzare gli occhi.
Quella consapevolezza, se possibile, fu più commovente della vista di madre e figlio insieme. Altre lacrime, questa volta di dolore e rancore, gli inondarono gli occhi marroni.
Il petto di Anya era stretto in una morsa non meno dolorosa. Vedendolo emozionarsi, aveva trovato la risposta alla domanda che da molto tempo la assillava, e cioè quale sarebbe stata la reazione del signor Langley nel vedersi il figlio davanti. Per un attimo aveva creduto che lui fosse lì, al posto del signor Drebber. I suoi occhi grigio verdi si erano bagnati di lacrime, la mano aveva coperto la bocca e poi era risalita alla fronte aggrottata per lo stupore. Aveva teso le mani per prenderlo in braccio e non appena Anya, nella sua mente, aveva accettato di porgerglielo, lui era sparito e al suo posto era apparso il signor Drebber.
Victor ricominciò a piagnucolare. Si accorse che la guardava negli occhi e arricciava il mento come se in lei vedesse la persona più spaventosa del mondo. Gli carezzò una guancia ed una lacrima cadde sul dorso. Notò allora di avere il viso bagnato e si affrettò ad asciugarlo con un grande sorriso.
Il signor Drebber era poggiato alle ginocchia coi gomiti, le mani sul viso. A intervalli prendeva bruscamente fiato e scuoteva la testa in un muto e sgomento diniego. Che stesse pensando al conte era chiaro dal modo in cui lanciava occhiate a lei e Victor, ma non c’era nessuna accezione maliziosa; di più era angosciato dall’idea che Anya non avesse un uomo al suo fianco e Victor fosse nato senza padre, come spiegò dopo.
- Quei bastardi … - mormorò con rabbia - … ma come hanno potuto?!
Tacque per alcuni minuti. Continuò a tormentarsi con quei pensieri fino a quando la pelle della fronte cominciò a far male sotto il tocco nervoso e pressante dei polpastrelli.
- Quanti mesi ha?
- Ne farà sette alla fine del mese.
- È nato a Marzo? – disse dopo un breve calcolo.
Anya annuì.
- E … lui lo sapeva, quando … ?
- No – mormorò - non lo sapevo neppure io. Ho scoperto di essere incinta solo quando mi sono trasferita qui.
- E non c’è mai stato nessuno con voi?
Avrebbe voluto rispondere di no, che non era mai stata sola, unicamente per evitare di farlo preoccupare. Serrò la mascella e senza il coraggio di guardarlo, scosse piano il capo. Come immaginava, imprecò a bassa voce.
- Neppure uno dei vostri colleghi alla tenuta? Proprio nessuno?
Victor allungò una mano verso i suoi capelli e lei si affrettò a scostarli dietro le spalle. Voleva giocare e probabilmente dopo gli sarebbe venuta fame. Gli avvicinò una mano e li lasciò stringere e mordicchiare le dita.
- Avevo deciso di non dire ad anima viva di essermi trasferita qui perché non volevo gente che mi commiserasse tra i piedi. Era un periodo parecchio difficile, come potrete immaginare, e decisi di approfittare di una piccola parte del lascito di Pa … del conte, per vivere l’inverno qui. Così venni ad abitare in questa casa, acquistata con tutto il terreno. Qualche giorno dopo andai dal medico del paese a causa di un malessere che persisteva da diverso tempo e scoprì di essere incinta. Fortunatamente non soffrì della maggior parte di disturbi che affligono le donne in quello stato e potei dedicarmi alla ricerca di operai per la costruzione dell’istituto … - si interruppe a causa di un morso particolarmente forte di Victor e allontanò la mano – Il signor Langley aveva fatto preparare il progetto da un architetto di Waterford city, con cui aveva concordato perfino la distanza fra un letto e l’altro del dormitorio. Mi stupì scoprire che il progetto risaliva all’inizio del 1855, qualche mese dopo la morte della moglie e della figlia – Fu di nuovo interrotta da Victor che le aveva slacciato la scollatura della camicia e tirava il tessuto alla ricerca del seno. Si sistemò come poteva e allungò un lembo dello scialle sulla scollatura.
- I lavori al cantiere sono cominciati a fine Aprile, un mese dopo la nascita di Victor. Da allora le mie giornate sono così piene che avvertire la mancanza di qualcuno al mio fianco è difficile.
Drebber la scrutò e capì subito che mentiva. Ricordava come avesse rifiutato la sua proposta di matrimonio per amore del conte. Ricordava il modo in cui aveva stretto il suo corpo quando si era recato alla tenuta per il cordoglio e anche la sua figura smorta, appassita, al funerale. Era un dolore visibilmente intenso e ancora adesso ne rintracciava i segni sul viso bianco.
- Vorrei rendermi utile, signorina. Vorrei poter fare qualcosa per voi e per il piccolo …
Anya si strinse nelle spalle. – Ho tutto quello che mi serve … – rispose.
- Perdonate l’indiscrezione, ma come farete quando il lascito del conte si estinguerà?
- Come ho fatto finora. Mi guadagnerò da vivere dando lezioni e quando l’istituto sarà finito lavorerò lì.
- Date lezioni?
Anya annuì con un atteggiamento che somigliava tanto alla rassegnazione. – A chi si fida di una donna senza un marito e con un figlio.
Drebber aggrottò le sopracciglia e, pensieroso, si voltò verso di lei. Victor sembrava averne abbastanza del fatto che la madre dedicasse le sue attenzioni ad un estraneo e puntò i piedi paffuti sulle gambe della madre con un lamento, facendole capire di non voler più stare sdraiato. Lei lo tirò su, sorreggendolo e facendolo poggiare alla sua spalla sinistra. Visibilmente soddisfatto, Victor sorrise e si lasciò stringere. Nel breve momento in cui il bambino aveva spostato lo sguardo nella sua direzione, Drebber notò la spiccata somiglianza con il padre e si sentì invadere nuovamente il petto di una tristezza infinita. Avevano gli stessi occhi e uguale sembrava essere anche l’arcata sopraccigliare. Quel particolare lo impressionò al punto tale che il battito cardiaco ne fu influenzato e la rabbia nel vedere quella ragazza così sola gli contrasse le pareti dello stomaco. Neppure pensare che gli assassini del conte erano morti servì a consolarlo.
Poco dopo Victor manifestò il bisogno di essere allattato, mettendo mano alla scollatura della camicia da notte della madre e lamentandosi ogniqualvolta lei si sistemava. Drebber, intuiti la stanchezza e l’imbarazzo della giovane, pensò di ritirarsi nella camera che gli era stata offerta. Ebbe la fortuna che sia a camicia che il pantalone si erano asciugati completamente.  Continuò a seguire le azioni di madre e figlio, mentre si sistemava per la notte, dai rumori che gli giungevano. Intuì il momento in cui lei attaccò il bambino al seno quando il piagnucolare si interruppe; in seguito la udì alzarsi e fare lentamente avanti e indietro per la cucina. Lo raggiunsero le note di una melodia appena sussurrata e lottando con sempre più fatica contro il sonno, immaginò gli occhietti di Victor chiudersi come i suoi.
 

  
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