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Autore: _Alaska97    31/07/2013    1 recensioni
"Da piccola sua madre le diceva che al tramonto il sole si voltava verso l’altra parte della terra, «Deve abbracciare pure gli abitanti dell’altra parte della terra con il suo calore, e quando è impegnata a riscaldare gli altri, a noi non rimane che ammirare il nero del suo chador»."
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL COLORE DELLA RELTA'




Alzò la testa verso il cielo; pian piano si stava facendo buio. 
Da piccola sua madre le diceva che al tramonto il sole si voltava verso l’altra parte della terra, “Deve abbracciare pure gli abitanti dell’altra parte della terra con il suo calore, e quando è impegnata a riscaldare gli altri, a noi non rimane che ammirare il nero del suo chador”.
Ibnat aveva tentato di raccontare la storia ai suoi compagni di classe, ma la storia in italiano non rendeva bene. Il sole in Italia era un maschio, non una donna che portava il chador e che, spinta dal suo istinto materno, illuminava diverse parti della terra, voltando la sua faccia luminosa verso ciascuna di loro.
Abbassò lo sguardo sospirando. 
Crescendo, le cose che voleva condividere con i suoi coetanei divennero più complesse e le sue spiegazioni non solo non l’aiutavano a farsi capire, ma sottolineavano il fatto che lei non era come gli altri, era diversa, era straniera. Nonostante avesse imparato l’italiano (che, per sua fortuna, parlava senza il minimo accento), c’era sempre qualcosa che la tradiva. Da bambina la tradivano persino le merendine.
“Mamma , perché non mi fai un semplice panino con la Nutella?” chiedeva ogni mattina speranzosa di portare qualcosa di normale a scuola; ma la risposta era più o meno la stessa: “Ma ieri ho fatto questa Halva con sesamo e miele. Tu adori Halva!“, oppure, sempre sullo stesso tono, “Ma ci sono questi Baklava al pistacchio. Non puoi mangiare sempre la Nutella!”. Sua madre non sapeva che i suoi compagni dicevano che Halva era color cacca e che i Baklava puzzavano di bruciato. Non erano solo i suoi compagni che non capivano. Anche sua madre non capiva.
E continuò a non capire per altri vent’anni. Non capiva perché sua figlia volesse andare al mare e seguire le ragazze occidentali che, senza un filo di pudore, si scoprivano e si mettevano in bikini davanti a uomini sconosciuti; non capiva cosa fossero le uscite serali e che senso aveva truccarsi e andare in giro per la città di notte. “Come le prostitute! Le brave ragazze non sono certo per la strada alle 11 di sera!” diceva, stanca di discutere.
Ogni adolescente si ritrova a combattere contro i propri genitori e confidarsi con i propri amici. Ibnat era da sola. E doveva combattere su due frontiere. Crescendo i suoi amici hanno smesso di chiamare sua madre befana perché portava il foulard o di chiederle quanti cammelli avessero in casa, ma questo non voleva dire che era finalmente libera dai pregiudizi e gli stereotipi; c’era chi le chiedeva se poteva continuare a studiare oppure doveva sposarsi con chi suo padre decideva, o chi le chiedeva se al suo paese poteva uscire di casa. Le persone intorno a lei erano cresciute, ma la loro conoscenza non di molto.
Ibnat si sentiva come se le avessero gettato addosso una rete.
Ad un certo punto si accorse di essere davvero stanca. Stanca della lotta continua tra le due sezioni della sua vita, che da sempre erano scisse e restie a stilare un trattato di pace equo. 
Ibnat era contesa da entrambe le parti del ring: dall’una, le sorridevano i suoi genitori, dall’altra, le sorrideva una vita di libertà che agognava da tempo. Inutile dire, quando la seconda sponda l’allettasse. 
Voleva tuffarsi ed immergersi, fino la punta dei capelli scurissimi, nelle acque di un’esistenza più semplice, dove il concetto di ‘privazione’ o di ‘diverso’ non erano contemplati in nessun dizionario e non condizionavano niente e nessuno. La ragazza, aveva sempre desiderato vivere nel corpo di qualcun altro, di svestirsi della sua pelle e camminare in punta di piedi in quella di qualcuno senza i suoi problemi, anche per un giorno, per poche ore, per qualche minuto. 
E un modo per esaudire quel pretenzioso desiderio c’era: il teatro.
Ibnat era capitata ai provini quasi per caso; un giorno, dopo la fine delle lezioni, si era trattenuta un po’ di più a scuola per fare delle fotocopie. Terminato quell’onere e recuperate le sue cose, eccola scendere le scale verso la porta d’uscita, verso l’aria tiepida di un autunno clemente. 
La struttura sembrava pressoché deserta, se non per la bidella Giovanna, appollaiata su una seggiola mal ridotta, vicino alle enormi porte d’uscita a vetri, la scopa appoggiata al muro. Regnava un silenzio quasi surreale, pressoché inusuale per quel luogo.
Delle grida la fecero sobbalzare, proprio mentre superava l’ultimo gradino.
“Stop, STOP! Terribile!”.
Voci che discutevano e si accavallavano, parole poco raccomandabili scalfivano la quiete di poco prima; e forse furono proprio queste parole proibite e cariche di risentimento che spinsero Ibnat a varcare la porta spalancata del piccolo teatro della scuola, che quasi nessuno utilizzava. Era a conoscenza dell’esistenza di un club di teatro, ma non si era mai interessata troppo.
Sul palco, una ragazza dai capelli rossi gridava oscenità ad un altro ragazzo seduto in prima fila e sommerso di fogli e che, a sua volta, alzava la voce per criticare le sue doti da attrice. Questa, punta sul vivo, era trattenuta dal balzar giù dal palco –non di certo animata da intenzioni onorevoli- da un ragazzo dai capelli scuri ingellati in un taglio all’ultima moda e la pelle molto chiara.
“Chiara, smettila di fare scenate, cazzo!” Gridò esasperato il ragazzo dei fogli, balzando in piedi: Ibnat l’aveva già visto per la scuola, si chiamava Giorgio ed era uno di quegli individui che tutti conoscevano e ammiravano. Questo si voltò, notando Ibnat, che, imbarazzata, non sapeva se correre fuori o dire qualcosa per scusarsi dell’intrusione. Ma lui non le diede il tempo di fare nulla, esclamando a gran voce: “Tu! Sei qui per il provino per Eponine, vero? Vero?”
Un equivoco, ovviamente. Ma lei non aveva mai conosciuto equivoco più dolce. Fu letteralmente obbligata a liberarsi della sua borsa a tracolla e scaraventata sul palco, un copione stropicciato fra le mani. Non si seppe mai cosa colpì Giorgio al punto da affidarle il ruolo su due piedi, ma successe. Le dissero che aveva talento, che doveva solo allenarsi con la presenza scenica, che il suo bel colorito ambrato sarebbe stato perfetto anche con le merdose luci di quel teatro diroccato.
Nella recitazione scoprì qualcosa di nuovo: quando interpretava i personaggi affidatale, riusciva ad ostentare una sicurezza, un timbro, uno sguardo così diversi da quelli della sua realtà da infonderle uno strano senso di libertà. E quella capacità di adattamento la gratificava come mai niente fino a quel momento.
Fu Giorgio a metterle in testa quella strana idea. Ibnat aveva trovato un modo di metter fine a quella lotta che imperversava tra le mura di casa sua, tra i suoi ideali e quelli della sua famiglia. 
Questo rametto della pace venne a galla quando Giorgio le rivelò il suo piccolo segreto: lui era gay. Ne erano a conoscenza solo i membri del club di recitazione. La sua realtà quotidiana era una finzione, recitava davanti a tutta la scuola, persino al cospetto dei genitori.
La recitazione poteva sforare attraverso i personaggi inventati e perpetrare nella vita di tutti i giorni? Il ragazzo ne era l’esempio vivente. All’interno dell’aula di teatro poteva essere se stesso, ma fuori, diventava un’altra persona. 
Fu così che, fuori dalla porta di casa, Ibnat indossò una maschera tessuta dall’apparente sottomissione e dipinta di idee che servivano soltanto a ferire il suo bisogno di libertà. Sua madre accolse quel cambiamento nei suoi modi con una felicità che quasi ferì la ragazza. ‘Perché preferisce abbracciare la finzione che aiutarmi a trovare me stessa, come tutte le madri dovrebbero fare?’ pensava. Dentro di sé imperversava un uragano, fuori i suoi modi ostentavano calma e docilità.
Diventò così brava a nascondere ai genitori se stessa, che questi neanche si accorsero dei sentimenti che le scuotevano il cuore. I genitori non avrebbero mai pensato che, invece delle lezioni di inglese avanzato che diceva di frequentare, Ibnat passava i pomeriggi nel teatro diroccato, donando lentamente il proprio cuore a quel ragazzo dai capelli scuri che aveva visto per la prima volta su quel palco, pronto a scongiurare un accapigliamento tra Chiara e Giorgio.
Quel palco era diventato detentore dei più bei ricordi. Custodiva persino l’impronta delle emozioni del suo primo, vero, bacio.
Dalla finestra si spostò verso lo specchio. "Ogni maschera seppur trasparente ha un peso. E quel peso prima o poi ti stanca." Aveva spiegato il giorno precedente allo psicologo, chiedendosi se una laurea in psicologia poteva permettere ad un non-immigrato di capire come si sentiva.
“La mia vita consisteva nell’interpretare due ruoli assai diversi, oserei dire contraddittori, come il giorno e la notte, come il nero e il bianco, come l’occidente e l’oriente.” Lo psicologo l’ascoltava con attenzione. “Con i miei ero tranquilla, timida, sottomessa al loro volere e ai valori tradizionali. Ero un blu profondo, quello che i buddisti definiscono il colore della purezza e della spiritualità. Fuori dalle mura di casa, ero la donna che il mondo occidentale voleva: indipendente, sicura ma anche sensuale, passionale e consapevole del potere della mia femminilità e del mio corpo. Ero un rosso fuoco peccaminoso come il colore della mela che portò alla perdizione Adamo ed Eva.” Fece una pausa per vedere la reazione dello psicologo e rimase sorpresa notando il sorriso sul volto di quell’uomo di mezza età.
“E il viola ? Non ti piace?”
Ibnat ebbe la sensazione di essere presa in giro. A stento riuscì a rispondere: “Prego?”
“Ibnat, tu sei influenzata sia dalla cultura occidentale che quella orientale. Lo sai anche tu che è giunta l’ora di essere te stessa, non puoi essere la donna modello che vogliono entrambe le culture, si tratta di due figure molto lontane da te, altrimenti non ti saresti stancata di interpretarle. Tu non sei blu, non sei rosso; sei una via di mezzo. Sei un bellissimo viola. Sai cosa significa il viola nella psicologia?”
Ibnat scosse la testa un po’ disorientata. 
“ Il viola è il colore dell’equilibrio, Ibnat. Il colore dell’autorealizzazione. Essendo un miscuglio della passività del blu e dell’energia del rosso, è il colore della vita.” Lo psicologo sorrideva ancora. “Mischia i tuoi due mondi e vedrai che quella via di mezzo, è proprio la cosa di cui hai bisogno. Forse i tuoi genitori saranno meno contenti, forse la società odierna non ti vedrà come la donna perfetta; ma quando osserverai il tuo riflesso allo specchio, riuscirai a vedere te stessa.”
Mentre fuori ormai regnava il nero del chador che il sole indossava , Ibnat davanti allo specchio pensava ad un altro colore. Il colore della sua salvezza, il colore della vita, il viola.

***

Storia vincitrice del concorso 'Write with me" indetto dalla pagina Facebook "Parole che curano, parole che distruggono.", scritta in collaborazione con la mia amica Behnaz. 
Spero sia di vostro gradimento,
xoxo
Jess.

  
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