CAPITOLO VENTUNO
Eljas sentì una mano accarezzargli
dolcemente i capelli per svegliarlo. Aprì gli occhi lentamente, distinguendo
prima un sorriso affettuoso, poi degli occhi di un azzurro chiaro che lo
guardavano da vicino. Guardò Jesse cercando di capire quanto tempo avesse
dormito e, soprattutto, quando si era addormentato.
-Eljas, svegliati. Il dottore ha
detto che possiamo andare a vedere Ville.- gli disse lo
zio.
Il ragazzino si tirò su a sedere,
qualcuno doveva averlo portato in braccio fino a un lettino dell’ospedale,
perché non si ricordava come ci era arrivato. Scrollò qualche volta la testa per
cercare di rimettere in circolo l’ossigeno: voleva essere sveglissimo per vedere
suo padre, anche se sapeva che non avrebbe potuto
parlargli.
-Arrivo.- disse, scendendo dal
lettino e tentando di orientarsi. Jesse gli mise una mano dietro le spalle per
guidarlo dagli altri. Migé e Burton stavano infilandosi i giacconi,
probabilmente in procinto di andarsene ora che non c’era più bisogno di loro,
Gas doveva essersene già andato, visto che non sembrava essere nei paraggi.
Linde stava rientrando in quel momento dall’esterno, con il cellulare in mano.
Eljas notò che Manna non c’era più, probabilmente era andato ad avvisarla che le
condizioni di Ville erano rimaste stazionarie.
-Lì fuori c’è ancora un casino
tremendo. Non si sbloccano da là nemmeno se li paghiamo per farlo… Credo che
sarà un’impresa per voi uscire da qui incolumi.- disse il chitarrista rivolto ai
suoi due amici.
Burton agitò una mano –Se ci
chiedono qualcosa noi non diremo nulla, se ci bloccano chiamiamo la polizia, mi
sembra evidente, ma Migé deve tornare a casa. Vedrana l’ha chiamato per un
problema col piccolo.-
Linde guardò l’amico allarmato,
Migé sorrise –Nulla di preoccupante, ma devo andare, e anche Burton. Resti tu
qui con Kari e Anita?-
Il rasta annuì –Se ho bisogno di un
cambio vi avverto, ma preferisco rimanere qui finché è possibile. Anita è
abituata a fare la donna forte, ma è evidente che questa faccenda l’ha colpita
duramente, ha bisogno di qualcuno che le stia vicino. Più siamo meglio è.-
rispose, poi notò che Eljas era tornato tra loro –L’hai svegliato, allora?-
chiese rivolto a Jesse.
-Se l’avessi lasciato dormire non
mi avrebbe più rivolto la parola.- disse lui con un
sorriso.
Eljas non sembrava badare molto
alle conversazioni in atto, cercava invece dove fossero finiti i suoi nonni,
dove fosse il dottore, qualcosa che gli permettesse, insomma, di individuare la
camera in cui si trovava suo padre.
-Dov’è che bisogna
andare?-
-Hai ragione: non abbiamo molto
tempo, meglio non perderlo.- asserì Jesse salutando gli altri e accompagnando
Eljas lungo un corridoio che sembrava non avere mai fine. Girava a ogni porta
che incontrava, convinto di essere arrivato, ma suo zio lo rimetteva
puntualmente sulla strada giusta. Gli tornavano in mente ricordi di mesi prima…
quell’odore pungente di cloroformio, Dania, la migliore amica di sua madre, che
piangeva incessantemente mentre lo conduceva da lei, tutti quei suoni nella sua
testa che non smettevano mai… Perché non stavano tutti zitti? Perché dovevano
parlare? Non capivano che lui non voleva sentire più niente? E adesso tutto
tornava, con l’unica consapevolezza che Ville era ancora vivo e che, forse, ce
l’avrebbe fatta.
Forse.
E se non fosse andata così? Se
quella stabilità non fosse durata che pochi giorni, la quiete che anticipa la
tempesta? No, non così, non poteva perdere entrambi i suoi genitori in questo
modo.
-Eccoci, siamo arrivati.- gli comunicò Jesse. I due minuti più
lunghi della sua vita.
Eljas entrò in una stanza che
conteneva un paio di letti, ma solo uno era occupato. Anita e Kari erano seduti
alla destra del cantante, sorridevano al nipote, ma si poteva chiaramente vedere
che avevano pianto fino a poco prima. La stanza era di un bianco candido che
inquietava, ricordava al ragazzino il gelo della neve, i macchinari che
controllavano il battito cardiaco e le funzioni vitali di suo padre che
mandavano suoni intermittenti in continuazione, aumentando l’ansia. Guardava le
mattonelle del pavimento verde acqua, incapace di lanciare uno sguardo a chi stava sul
letto.
Jesse si avvicinò ai suoi genitori,
lasciando al nipote la libertà di comportarsi come meglio credeva. Anita cercò
di chiamarlo, ma Kari le consigliò di lasciar stare: Eljas doveva decidere da
solo come agire.
Lentamente sollevò gli occhi da
terra, passando dai piedi, alle gambe, al busto di Ville. Una gamba e un braccio
erano ingessati e sollevati, il loro candore che contrastava con la pelle
arrossata che sbucava da sotto il camice e le lenzuola, ma quando riuscì a
trovare la forza di guardare il volto di suo padre, il mondo si fermò. Il volto
tumefatto, le bende, che giravano attorno alla sua testa e sopra un occhio, che
cominciavano a sporcarsi nuovamente di sangue, l’unico occhio visibile chiuso,
sulla bocca una smorfia di dolore congelata.
Solo in quel momento si rese conto
di quello che aveva rischiato: avrebbe potuto non avere più la possibilità di
chiarirsi con lui, non avrebbe più potuto conoscere suo padre come aveva sempre
desiderato, avrebbe convissuto per sempre con questo senso di
colpa.
Era una cosa che aveva già provato
una volta, era felice di non doverla provare un’altra
volta.
Piano piano si avvicinò al letto,
inserendosi tra i suoi nonni e continuando a guardare il volto del cantate. Solo
in quel momento riusciva a notare la somiglianza: fin da quando era piccolo
avevano sempre sottolineato la sua somiglianza con Alexandra, le stesse
espressioni, lo stesso modo di parlare, addirittura gli stessi lineamenti
generali. Quando all’inizio gli avevano detto di essere identico a Ville, Eljas
si era sentito offeso, come se gli avessero portato via l’unico appiglio che gli
era rimasto di sua madre, ma ora riusciva a vedere che effettivamente lui e suo
padre erano identici.
Anita parlava dolcemente,
raccontando al figlio che loro erano lì che vegliavano su di lui, come se stesse
rivolgendosi nuovamente a un bambino di dieci anni. Ancora come se Ville non
fosse altro che suo figlio, il suo piccolo Ville. Eljas ascoltava la nonna
parlare, lasciandosi cullare dalle sua parole che mischiavano il finlandese
all’ungherese, sua lingua natia, stringendo convulsamente un lembo del suo
maglione.
Fu così per giorni. Andavano in
ospedale la mattina presto e uscivano la sera tardi, quando non potevano far
visita a Ville rimanevano nei pressi per essere pronti ad avere nuove notizie,
ma le giornate passavano così, piatte e tutte uguali. Come sempre i suoi nonni
cercavano di mandare Eljas in un posto più tranquillo, ma come sempre lui si
rifiutava di allontanarsi troppo dal luogo.
Un giorno Kari decise di lasciare
Eljas fare visita da solo a Ville, convinto del fatto che il ragazzino avesse
bisogno di passare del tempo per conto suo insieme al padre. –Deve maturare
delle idee.- aveva detto ad Anita. Così Eljas si era ritrovato da solo, a tu per
tu con la sua più grande paura, a tu per tu con la sua stessa
esistenza.
-Mi dispiace…- balbettò sottovoce,
stringendo un lembo del lenzuolo bianco –Avrei dovuto cercare di chiarire le
cose prima di andarmene così… ma che te lo sto dicendo a fare? Nemmeno puoi
rispondermi, non so nemmeno se stai ascoltando.- disse poi, lasciando andare i
lenzuolo e tornando a guardare il volto del padre. –Se non ti parlo adesso,
però, non lo farò più. C’era una cosa che mamma mi raccontava spesso di te, era
l’unica cosa che mi diceva: diceva che eri uno che quando non si sente a suo
agio tende a fare cose stupide… me lo diceva perché anche io faccio così, l’hai
visto anche tu. La prima cosa che ho pensato quando ti ho visto, prima che tu
parlassi, era che la foto che mi avevano fatto vedere, presa dai giornali, mi
aveva dato un’impressione completamente diversa di come eri. Mi eri sembrato uno
spaccone, a primo impatto, ma quando ti ho visto sulla porta ho avuto
l’impressione che tu fossi fondamentalmente vulnerabile. Forse non ti sentivi a
tuo agio, ecco perché hai detto che volevi darmi via… Hai fatto la cosa stupida
di cui parlava mamma. Il resto della storia la conosci, sai che non mi sei
piaciuto molto all’inizio, anzi… ti ho proprio odiato, ma dopo il discorso in
macchina mi sono sforzato di vederti sotto un altro punto di vista. Ti avevo
sentito litigare pesantemente con uno dei tuoi migliori amici per me, la cosa mi
aveva colpito, e poi avevi detto che volevi provarci anche tu. Mi è piaciuto
quel periodo, ero quasi riuscito a sentirmi in armonia con te, ma poi è arrivata
Frida e ho avuto paura che mi abbandonassi un’altra volta, mi è sembrato che
cercassi di sostituire mamma. Non so perché, avevo come l’impressione che tu non
potessi più avere avuto un’altra oltre a lei, così come mamma non aveva più
avuto nessuno da quando ero nato io… diceva che non ce n’era bisogno, che l’uomo
della sua vita l’aveva già trovato, che ero io.- Eljas si interruppe, sorridendo
come si può sorridere a un ricordo che si giudica sia dolce sia sciocco. Sentiva
le lacrime salirgli agli occhi, ma guardò in alto per ricacciarle
indietro.
–Sono stato stupido, mi dispiace,
la situazione con te era molto diversa. Lo so che ho solo 11 anni e che non
posso capire certe cose, ma so capire gli errori che ho fatto e voglio dirti che
a me non importa se ne hai fatti anche tu. Mi sono accorto che voglio avere te come padre, che sono
disposto a stare con te anche se ogni tanto fai delle cazzate enormi, ma
soprattutto voglio che ti svegli. Ti prego, svegliati! Fammi capire che sono
ancora in tempo per farmi perdonare, ti supplico, svegliati!- le lacrime non
potevano più essere trattenute, Eljas non fece più nemmeno lo sforzo per farlo,
tanto non c’era nessuno a testimoniare la sua debolezza. In fondo era un bambino
che aveva rischiato di perdere il suo unico genitore, dopo aver visto morire
l’altro, aveva tutto il diritto di sentirsi debole. Aveva il viso nascosto tra
le braccia appoggiate sul bordo del letto, le sue parole suonarono confuse –Ti
voglio bene, papà. Svegliati!-
-Sono sveglio…- gli rispose una
voce roca proveniente dalla sua sinistra. Eljas alzò il volto di scatto, il
braccio buono del cantante si era sollevato quel che bastava per accarezzare
lievemente i capelli del bambino.
-Da quanto tempo eri
sveglio?-
-Da tanto. Da quando stavi parlando
di Alexandra.- disse Ville, l’unico occhio che rivolgeva al figlio uno sguardo
pieno d’affetto.
-Perché non me l’hai detto?- lo
rimproverò il ragazzino stringendo nuovamente il lenzuolo tra i
pugni.
-Perché non volevo interromperti.
Non sono mai stato tanto felice di sentire la tua voce, è stato il risveglio più
bello della mia vita.- rispose il cantante –E anche io ti voglio bene, Eljas,
sono orgoglioso di avere un figlio come te.-
Le lacrime continuavano a scorrere
silenziose sulle sue guance piene di bambino, ma la gioia che provava in quel
momento si manifestava interamente attraverso i suoi occhi. Eljas si lanciò ad
abbracciare suo padre, per quanto gli fosse concesso dai macchinari a cui lui
era legato.
-Sei rimasto…- sussurrò mentre
Ville gli passava una mano sulla schiena –Sei rimasto.-
-E non ho intenzione di
andarmene.-
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