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Autore: musicaddict    12/02/2008    1 recensioni
ville non poteva aspettarsi questo. non che un'assistente sociale gli suonasse al campanello per fargli presente che era padre da 11 anni! e quel bambino è identico a lui, eppure così diverso, così lontano... sarà un'avventura doverlo conoscere, recuperare gli 11 anni trascorsi, e cercare di non farsi odiare per quella decisione presa... quella pessima decisione. [fanfiction ambientata nel 2011]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO VENTUNO

 

Eljas sentì una mano accarezzargli dolcemente i capelli per svegliarlo. Aprì gli occhi lentamente, distinguendo prima un sorriso affettuoso, poi degli occhi di un azzurro chiaro che lo guardavano da vicino. Guardò Jesse cercando di capire quanto tempo avesse dormito e, soprattutto, quando si era addormentato.

-Eljas, svegliati. Il dottore ha detto che possiamo andare a vedere Ville.- gli disse lo zio.

Il ragazzino si tirò su a sedere, qualcuno doveva averlo portato in braccio fino a un lettino dell’ospedale, perché non si ricordava come ci era arrivato. Scrollò qualche volta la testa per cercare di rimettere in circolo l’ossigeno: voleva essere sveglissimo per vedere suo padre, anche se sapeva che non avrebbe potuto parlargli.

-Arrivo.- disse, scendendo dal lettino e tentando di orientarsi. Jesse gli mise una mano dietro le spalle per guidarlo dagli altri. Migé e Burton stavano infilandosi i giacconi, probabilmente in procinto di andarsene ora che non c’era più bisogno di loro, Gas doveva essersene già andato, visto che non sembrava essere nei paraggi. Linde stava rientrando in quel momento dall’esterno, con il cellulare in mano. Eljas notò che Manna non c’era più, probabilmente era andato ad avvisarla che le condizioni di Ville erano rimaste stazionarie.

-Lì fuori c’è ancora un casino tremendo. Non si sbloccano da là nemmeno se li paghiamo per farlo… Credo che sarà un’impresa per voi uscire da qui incolumi.- disse il chitarrista rivolto ai suoi due amici.

Burton agitò una mano –Se ci chiedono qualcosa noi non diremo nulla, se ci bloccano chiamiamo la polizia, mi sembra evidente, ma Migé deve tornare a casa. Vedrana l’ha chiamato per un problema col piccolo.-

Linde guardò l’amico allarmato, Migé sorrise –Nulla di preoccupante, ma devo andare, e anche Burton. Resti tu qui con Kari e Anita?-

Il rasta annuì –Se ho bisogno di un cambio vi avverto, ma preferisco rimanere qui finché è possibile. Anita è abituata a fare la donna forte, ma è evidente che questa faccenda l’ha colpita duramente, ha bisogno di qualcuno che le stia vicino. Più siamo meglio è.- rispose, poi notò che Eljas era tornato tra loro –L’hai svegliato, allora?- chiese rivolto a Jesse.

-Se l’avessi lasciato dormire non mi avrebbe più rivolto la parola.- disse lui con un sorriso.

Eljas non sembrava badare molto alle conversazioni in atto, cercava invece dove fossero finiti i suoi nonni, dove fosse il dottore, qualcosa che gli permettesse, insomma, di individuare la camera in cui si trovava suo padre.

-Dov’è che bisogna andare?-

-Hai ragione: non abbiamo molto tempo, meglio non perderlo.- asserì Jesse salutando gli altri e accompagnando Eljas lungo un corridoio che sembrava non avere mai fine. Girava a ogni porta che incontrava, convinto di essere arrivato, ma suo zio lo rimetteva puntualmente sulla strada giusta. Gli tornavano in mente ricordi di mesi prima… quell’odore pungente di cloroformio, Dania, la migliore amica di sua madre, che piangeva incessantemente mentre lo conduceva da lei, tutti quei suoni nella sua testa che non smettevano mai… Perché non stavano tutti zitti? Perché dovevano parlare? Non capivano che lui non voleva sentire più niente? E adesso tutto tornava, con l’unica consapevolezza che Ville era ancora vivo e che, forse, ce l’avrebbe fatta.

Forse.

E se non fosse andata così? Se quella stabilità non fosse durata che pochi giorni, la quiete che anticipa la tempesta? No, non così, non poteva perdere entrambi i suoi genitori in questo modo.

-Eccoci, siamo arrivati.-  gli comunicò Jesse. I due minuti più lunghi della sua vita.

Eljas entrò in una stanza che conteneva un paio di letti, ma solo uno era occupato. Anita e Kari erano seduti alla destra del cantante, sorridevano al nipote, ma si poteva chiaramente vedere che avevano pianto fino a poco prima. La stanza era di un bianco candido che inquietava, ricordava al ragazzino il gelo della neve, i macchinari che controllavano il battito cardiaco e le funzioni vitali di suo padre che mandavano suoni intermittenti in continuazione, aumentando l’ansia. Guardava le mattonelle del pavimento verde acqua, incapace di lanciare uno sguardo a chi stava sul letto.

Jesse si avvicinò ai suoi genitori, lasciando al nipote la libertà di comportarsi come meglio credeva. Anita cercò di chiamarlo, ma Kari le consigliò di lasciar stare: Eljas doveva decidere da solo come agire.

Lentamente sollevò gli occhi da terra, passando dai piedi, alle gambe, al busto di Ville. Una gamba e un braccio erano ingessati e sollevati, il loro candore che contrastava con la pelle arrossata che sbucava da sotto il camice e le lenzuola, ma quando riuscì a trovare la forza di guardare il volto di suo padre, il mondo si fermò. Il volto tumefatto, le bende, che giravano attorno alla sua testa e sopra un occhio, che cominciavano a sporcarsi nuovamente di sangue, l’unico occhio visibile chiuso, sulla bocca una smorfia di dolore congelata.

Solo in quel momento si rese conto di quello che aveva rischiato: avrebbe potuto non avere più la possibilità di chiarirsi con lui, non avrebbe più potuto conoscere suo padre come aveva sempre desiderato, avrebbe convissuto per sempre con questo senso di colpa.

Era una cosa che aveva già provato una volta, era felice di non doverla provare un’altra volta.

Piano piano si avvicinò al letto, inserendosi tra i suoi nonni e continuando a guardare il volto del cantate. Solo in quel momento riusciva a notare la somiglianza: fin da quando era piccolo avevano sempre sottolineato la sua somiglianza con Alexandra, le stesse espressioni, lo stesso modo di parlare, addirittura gli stessi lineamenti generali. Quando all’inizio gli avevano detto di essere identico a Ville, Eljas si era sentito offeso, come se gli avessero portato via l’unico appiglio che gli era rimasto di sua madre, ma ora riusciva a vedere che effettivamente lui e suo padre erano identici.

Anita parlava dolcemente, raccontando al figlio che loro erano lì che vegliavano su di lui, come se stesse rivolgendosi nuovamente a un bambino di dieci anni. Ancora come se Ville non fosse altro che suo figlio, il suo piccolo Ville. Eljas ascoltava la nonna parlare, lasciandosi cullare dalle sua parole che mischiavano il finlandese all’ungherese, sua lingua natia, stringendo convulsamente un lembo del suo maglione.

Fu così per giorni. Andavano in ospedale la mattina presto e uscivano la sera tardi, quando non potevano far visita a Ville rimanevano nei pressi per essere pronti ad avere nuove notizie, ma le giornate passavano così, piatte e tutte uguali. Come sempre i suoi nonni cercavano di mandare Eljas in un posto più tranquillo, ma come sempre lui si rifiutava di allontanarsi troppo dal luogo.

Un giorno Kari decise di lasciare Eljas fare visita da solo a Ville, convinto del fatto che il ragazzino avesse bisogno di passare del tempo per conto suo insieme al padre. –Deve maturare delle idee.- aveva detto ad Anita. Così Eljas si era ritrovato da solo, a tu per tu con la sua più grande paura, a tu per tu con la sua stessa esistenza.

-Mi dispiace…- balbettò sottovoce, stringendo un lembo del lenzuolo bianco –Avrei dovuto cercare di chiarire le cose prima di andarmene così… ma che te lo sto dicendo a fare? Nemmeno puoi rispondermi, non so nemmeno se stai ascoltando.- disse poi, lasciando andare i lenzuolo e tornando a guardare il volto del padre. –Se non ti parlo adesso, però, non lo farò più. C’era una cosa che mamma mi raccontava spesso di te, era l’unica cosa che mi diceva: diceva che eri uno che quando non si sente a suo agio tende a fare cose stupide… me lo diceva perché anche io faccio così, l’hai visto anche tu. La prima cosa che ho pensato quando ti ho visto, prima che tu parlassi, era che la foto che mi avevano fatto vedere, presa dai giornali, mi aveva dato un’impressione completamente diversa di come eri. Mi eri sembrato uno spaccone, a primo impatto, ma quando ti ho visto sulla porta ho avuto l’impressione che tu fossi fondamentalmente vulnerabile. Forse non ti sentivi a tuo agio, ecco perché hai detto che volevi darmi via… Hai fatto la cosa stupida di cui parlava mamma. Il resto della storia la conosci, sai che non mi sei piaciuto molto all’inizio, anzi… ti ho proprio odiato, ma dopo il discorso in macchina mi sono sforzato di vederti sotto un altro punto di vista. Ti avevo sentito litigare pesantemente con uno dei tuoi migliori amici per me, la cosa mi aveva colpito, e poi avevi detto che volevi provarci anche tu. Mi è piaciuto quel periodo, ero quasi riuscito a sentirmi in armonia con te, ma poi è arrivata Frida e ho avuto paura che mi abbandonassi un’altra volta, mi è sembrato che cercassi di sostituire mamma. Non so perché, avevo come l’impressione che tu non potessi più avere avuto un’altra oltre a lei, così come mamma non aveva più avuto nessuno da quando ero nato io… diceva che non ce n’era bisogno, che l’uomo della sua vita l’aveva già trovato, che ero io.- Eljas si interruppe, sorridendo come si può sorridere a un ricordo che si giudica sia dolce sia sciocco. Sentiva le lacrime salirgli agli occhi, ma guardò in alto per ricacciarle indietro.

–Sono stato stupido, mi dispiace, la situazione con te era molto diversa. Lo so che ho solo 11 anni e che non posso capire certe cose, ma so capire gli errori che ho fatto e voglio dirti che a me non importa se ne hai fatti anche tu. Mi sono accorto che voglio avere te come padre, che sono disposto a stare con te anche se ogni tanto fai delle cazzate enormi, ma soprattutto voglio che ti svegli. Ti prego, svegliati! Fammi capire che sono ancora in tempo per farmi perdonare, ti supplico, svegliati!- le lacrime non potevano più essere trattenute, Eljas non fece più nemmeno lo sforzo per farlo, tanto non c’era nessuno a testimoniare la sua debolezza. In fondo era un bambino che aveva rischiato di perdere il suo unico genitore, dopo aver visto morire l’altro, aveva tutto il diritto di sentirsi debole. Aveva il viso nascosto tra le braccia appoggiate sul bordo del letto, le sue parole suonarono confuse –Ti voglio bene, papà. Svegliati!-

-Sono sveglio…- gli rispose una voce roca proveniente dalla sua sinistra. Eljas alzò il volto di scatto, il braccio buono del cantante si era sollevato quel che bastava per accarezzare lievemente i capelli del bambino.

-Da quanto tempo eri sveglio?-

-Da tanto. Da quando stavi parlando di Alexandra.- disse Ville, l’unico occhio che rivolgeva al figlio uno sguardo pieno d’affetto.

-Perché non me l’hai detto?- lo rimproverò il ragazzino stringendo nuovamente il lenzuolo tra i pugni.

-Perché non volevo interromperti. Non sono mai stato tanto felice di sentire la tua voce, è stato il risveglio più bello della mia vita.- rispose il cantante –E anche io ti voglio bene, Eljas, sono orgoglioso di avere un figlio come te.-

Le lacrime continuavano a scorrere silenziose sulle sue guance piene di bambino, ma la gioia che provava in quel momento si manifestava interamente attraverso i suoi occhi. Eljas si lanciò ad abbracciare suo padre, per quanto gli fosse concesso dai macchinari a cui lui era legato.

-Sei rimasto…- sussurrò mentre Ville gli passava una mano sulla schiena –Sei rimasto.-

-E non ho intenzione di andarmene.-

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