Ryouta lo guardò, incerto
se girarsi e andarsene o se aspettare di capire cos’avesse davvero in mente
Akira. Non credeva che l’altro avrebbe davvero fatto qualcosa di dubbio gusto,
vista la sua affermazione di poco prima, in cui si era detto fedele a Jun e
Kise non ne dubitava: nell’insieme di cose – molte – che non conosceva né
comprendeva di Akira, i suoi sentimenti per l’altro modello erano una delle
poche certezze. D’altronde non gli sembrava nemmeno il tipo da metterlo nei
casini con qualche altro presente nel locale… sperava.
Ancora incerto se aspettarsi un agguato da un momento all’altro da parte di
qualcuno o meno, mosse impercettibilmente il piede di mezzo passo indietro.
Lungo i fianchi strinse un poco i pugni e indurì, forse senza nemmeno rendersene
conto, lo sguardo; Akira, scostatosi nuovamente mettendo una discreta distanza
tra i loro volti, lo osservò rimanendo in silenzio per il tempo necessario a
studiarlo.
Poi sospirò e si sedette su uno sgabello del bancone: «Siediti, va.» disse
solamente, indicandogli il posto libero vicino e sistemandosi in modo da dare
il fianco al resto della sala e poterla quindi osservare senza doversi girare
in continuazione. Incerto, Ryouta si mosse fino ad accomodarsi e alternò lo
sguardo da Akira alla sala, per poi tornare sul ragazzo.
«Devo aspettarmi che mi porterai al bagno per fare qualcosa di strano?» chiese
in maniera volutamente stupida, un po’ per smorzare la tensione e un po’ per
sondare il terreno senza darlo troppo a vedere.
«Piuttosto una bambola gonfiabile.» replicò il più grande senza nemmeno provare
ad essere cortese, ma proprio quell’uscita così naturale e priva di fronzoli
fece sciogliere Kise in un ridacchiare leggero e divertito, certamente più
rilassato di poco prima.
«Una birra per me e qualcosa da minorenne per lui.» ordinò al capo «Ma tieni
pronti gli alcolici pesanti, potrei averne bisogno a seconda della piega che
prende la discussione.» aggiunse sarcastico, ricevendo in risposta dall’uomo
niente più di un sorriso divertito prima che si allontanasse verso i boccali.
Dal momento che non sembrava intenzionato a parlare subito – forse stava
ponderando su come affrontare il discorso, qualunque esso fosse – Kise si prese
del tempo per osservare con un po’ più di attenzione la sala. Un solo tavolo era
occupato da quattro persone e, a vederlo da lì, se non avesse saputo che erano
in un locale per omosessuali Ryouta non avrebbe pensato ad altro che ad un
gruppo di amici, magari di vecchia data, che aveva organizzato un’uscita.
Contestualizzato, invece, gli era venuto spontaneo domandarsi se non fosse per
caso un appuntamento a quattro.
Poco lontani da loro, altri due ragazzi occupavano un tavolo: senza essere
troppo invadente nell’osservarli, notò che le loro mani si sfioravano con
naturalezza sopra il tavolo. Subito dopo il loro ingresso nel locale doveva
essere entrato anche un altro uomo, perché Kise notò che il cameriere piuttosto
“amichevole” nei suoi confronti gli aveva appena lasciato un bicchiere d’acqua
allontanandosi per dargli il tempo di decidere cosa ordinare.
Magari, si disse, aspettava qualcuno o pensava di conoscerlo lì?
«Benvenu— Aya-chan!» salutò il ragazzo, notando
sicuramente in un secondo momento un volto conosciuto; spostando d’istinto lo
sguardo verso l’ingresso, Kise notò che erano appena entrate due ragazze: mano
nella mano, una delle due stava ridendo divertita mentre l’altra – forse
proprio “Aya-chan” – sembrava prendere in giro scherzosamente il cameriere.
«Minako-san.» fu il saluto più discreto ma altrettanto famigliare del barman.
Stavolta Ryouta fu abbastanza sicuro che il proprio viso dovesse aver mostrato
un’espressione sorpresa: pur vestendo una camicia e una gonna nera dal taglio
classico, ad aver varcato la soglia del locale e a dirigersi ora verso lui ed
Akira al bancone era certamente un uomo.
I capelli lunghi e ricci erano raccolti in alto, lasciando qualche boccolo
ribelle ad addolcire un poco lineamenti marcati e innegabilmente maschili;
aveva un sorriso furbo e che trasmetteva buon umore, notò, un fisico imponente
per una donna e un’altezza poco consona allo standard femminile nipponico, così
come la corporatura.
«Shige-san—ah, se non è Akira-chan!»
esclamò riconoscendo il ragazzo che non aveva ancora aperto bocca dopo
l’ordinazione, che in quel momento il barman gli stava posando proprio davanti.
Forse perché fino a quel momento Akira si era sempre rivolto alle persone che
avevano incontrato insieme – o a lui stesso – con un’ironia a volte quasi
sgarbata, ma Ryouta non poté che stupirsi di fronte al sorriso gentile che
rivolse alla persona chiamata “Minako”.
«Minako-san, non ti facevi vedere da un po’. Il tuo fidanzato ti tiene per sé?»
domandò con un’ironia bonaria, cortese; lei rise e gli diede una pacca sulla
spalla: «Macché, siamo così impegnati con il lavoro tutti e due che poco manca
dover prendere delle ferie per vederci! Ma è un periodo incasinato al lavoro,
lo sai – a proposito, quand’è che tu e Junjun tornate
a trovarci? Guarda che noi ragazze non vi mangiamo mica!» lo prese in giro
amichevolmente, prendendo posto dal lato libero accanto al ragazzo, opposto a
dov’era seduto Kise.
Osservò Akira prendere un sorso della propria birra e poi tornare a guardarla: «Sai
che con il lavoro di Jun è difficile riuscire a venire spesso, ma appena
possiamo veniamo a trovarti, promesso. Ah, giusto» aggiunse, scostandosi appena
con lo sgabello per rendere visibile Kise: «Lui è Ryouta, un kohai di Jun sul
lavoro. Stesso ambiente, quindi profilo basso.» spiegò con quella frase che
sembrava quasi in codice, per com’era stata pronunciata e alla quale Minako
annuì, per poi piazzargli una mano quasi sotto il naso.
«Ryou-kun? Minako, piacere. Sei nuovo, eh? Non solo del locale, dico.» affermò,
facendogli un occhiolino complice al quale, per una manciata di secondi, Kise
non seppe come rispondere.
Si risolse a stringere innanzitutto la sua mano, annuendo non troppo convinto
di cosa implicasse farlo: «Sì, esistono anche i transessuali Ryouta.» lo sfotté
Akira, intuendone la perplessità forse e causandogli un rossore leggero per
l’imbarazzo del momento; non ci faceva una gran figura con la diretta
interessata.
«Akira-chan, non essere antipatico. E tranquillo,
Ryou-kun, sono felicemente impegnata e non attratta dagli sbarbatelli.» fece
presente, con una naturalezza invidiabile, tanto quanto la sagacia. Doveva
essere molto più abituata alla perplessità altrui, piuttosto che alla loro
spontaneità.
«No, non stavo pensando che volessi farmi la corte, Minako-san.» assicurò con
un sorriso, forse non pregno della disinvoltura che aveva davanti ad una
macchina fotografica, ma sincero: «E smettila di trattarmi come se dovessi
svenire ad ogni persona che mi presenti.» borbottò rivolto ad Akira,
guardandolo di sottecchi e notandone il sorrisetto divertito.
«Oh, ma io mi aspetto che tu svenga. Contavo su Minako-san, ma a quanto pare…»
lasciò in sospeso, bevendo un altro sorso della propria bibita.
«Ignoralo, Ryou-kun. Ora dice così, ma la prima volta era molto più spaesato di
te.» confidò Minako con fare cospiratore «Sembrava uno obbligato a venire in
certi locali perché perde una scommessa o cose del genere. E quando qualcuno ha
fatto un apprezzamento del tutto innocente
sul suo fondoschiena è diventato così rosso che sembrava quasi adorabile. Poi
tutta quella sua pudicizia si è persa.» concluse il racconto con un sospiro
melodrammatico che fece ridacchiare il modello.
«Non era innocente, era una palpata
sostanziosa ed era la prima volta che vedevo un omosessuale oltre Jun. Non
sapevo nemmeno se lo ero io, fai te. E non sono arrossito, cercavo di decidere
se scappare o mollargli un pugno. Quindi non sono mai stato adorabile, tanto
per cominciare.» corresse meticolosamente punto per punto, bevendo ancora; ma
ciò che attirò l’attenzione di Kise fu una cosa in particolare.
«Non sapevi se eri omosessuale?» chiese, palesemente interessato, ed Akira non
se ne stupì di certo.
Sospirò appena, quasi scocciato, mentre Minako allungava una mano a
scompigliare i capelli di Ryouta con una familiarità che lo mise un poco a
disagio, essendo quello il loro primo incontro dopotutto: «Sembra che Akira-chan debba farti un discorso serio, ed io conosco già
la storia. Divertitevi, e spero di vederti presto, Ryou-kun.» salutò allegra
per poi avviarsi verso i tavoli.
Kise non la seguì con lo sguardo fino ad uno di essi, maggiormente interessato
a quanto l’altro avesse da dire.
«Quando Jun si è dichiarato, ero messo più o meno come te. Sapevo che mi
piaceva stare con lui, ma non avevo mai pensato al senso fisico della cosa. Mi
obbligavo a non pensarci.» ammise, facendo una breve pausa quasi a dargli il
tempo di assimilare la cosa: «Ad ogni modo non ti ho portato qui per
raccontarti i fatti miei. Girati.» ordinò quasi, facendolo lui per primo in
modo da dare le spalle al bancone e avere lo sguardo libero di vagare per il
locale. Kise lo imitò, cercando con gli occhi qualcosa, sebbene non sapesse di
preciso cosa Akira volesse mostrargli lì e che non potesse essere trovato
altrove.
«Alcuni di loro sono clienti abituali, a quest’ora difficilmente vengono altri
nuovi. Quello sulla sinistra, con altri tre uomini al tavolo, è Inoue-san. Lui e l’uomo che è seduto vicino a lui sono
insieme da quasi un anno. La sua relazione precedente gli ha lasciato una
cicatrice e non sto parlando per metafore: ha rischiato davvero grosso perché
il suo partner precedente era uno stronzo violento.» spiegò, senza risparmiarsi
i propri commenti personali, benché nel tono con cui raccontava non ci fosse
pietà ma rispetto, per Inoue.
Spostò lo sguardo verso le due ragazze entrate prima di Minako, che nel
frattempo avevano preso posto e fatto le loro ordinazioni: «Aya,
la ragazza più alta. Una collega di lavoro ha scoperto per caso che stava con
la sua ragazza e lo ha detto sul posto di lavoro. L’hanno licenziata, con una
scusa chiaramente, ma è ovvio che è stato per il suo orientamento sessuale.
Vive lontana dalla famiglia, quindi è stata davvero nei casini. Per un periodo
il capo l’ha persino ospitata nell’appartamento che c’è qua sopra.» raccontò
brevemente. Usava un tono in un certo senso incolore, eppure a Ryouta sembrava
ci fosse una sfumatura di puro risentimento – non che sentisse di potergli dare
torto: al di là di tutto, dal punto di visto umano era uno schifo.
«Minako ha avuto un sacco di problemi, e Jun la conosce molto meglio di me,
quindi non so tutto. Ma puoi immaginartelo, se ti dico che ha una figlia e che
da quanto ne so non la vede da almeno due anni: di sicuro non l’ha presa bene,
anche se meglio di tutti gli uomini che le hanno rivolto insulti che sono
davvero troppo persino per me.»
concluse con un sospiro e uno sguardo alla donna che al momento rideva
scambiando due chiacchiere con il cameriere.
Tornò su Kise: «Non te lo sto dicendo per fare terrorismo psicologico, anche se
penso che non sia un male per te farti un’idea di un sacco di cose che potrebbero
succederti se sapessero del tuo orientamento sessuale. Perché non importa se
hai qualche amico che lo accetta e che va oltre, o se nell’ambiente in cui
lavori è più “diffuso” e quindi sembra ben visto. Fa schifo, Ryouta. Per ogni
persona che ti accetta ce ne sono almeno dieci che ti insulteranno in ogni modo
possibile e che calpesteranno tutto di te: sentimenti, dignità, tutto. Non
importa se io o Jun, o tutte le persone che vedi qui sappiamo che non c’è nulla
di male, che non cambia assolutamente nulla tra amare un uomo e amare una
donna. Agli altri non interessa. Per gli altri sarà sempre uno schifo, una
vergogna o un abominio. Ne sei consapevole, vero?»
Kise non annuì subito. Non sapeva se a stupirlo fosse la serietà di Akira o la
crudezza con cui diceva quelle cose, pronunciate – al tempo stesso – con una
sincerità spiazzante.
«Ma» riprese «c’è un’altra cosa. Tutti qui hanno avuto e hanno ancora i loro
problemi, dovuti a quello che sono e a quello che sentono. Li ho avuti anche
io.» fece una breve pausa, puntando con decisione lo sguardo in quello del più
giovane: «Ma nessuno mai si sfoga sugli unici amici che sarebbero disposti a
stargli vicino. Io non conosco quella ragazza con cui stavi parlando, ma ti sei
sentito? Ti stai isolando da persone che potrebbero accettarti… anzi, visto che
non penso ci sia nulla da “accettare”, diciamo che ti stai allontanando da
persone che ti vogliono bene e che potrebbero essere quelle che non smetteranno
di farlo quando gli dirai che ti piace un uomo, se è così che sarà. E posso
assicurartelo: di persone come quelle ne hai davvero bisogno.» disse, tornando
quindi a sorseggiare la sua bevanda.
Ryouta tacque, a disagio.
Non per il locale, non per l’intimità del discorso appena affrontato con Akira,
non per l’essere a conoscenza di dettagli dolorosi della vita di persone di cui
conosceva a malapena il nome.
Era a disagio, cosciente di quanto immaturo sarebbe sembrato ai loro occhi se
avessero ascoltato quello che Akira aveva involontariamente origliato al locale
con Momoi.
Quando la sera era
rientrato a casa era convinto di aver compreso, alla fine, cosa Akira avesse
voluto dire.
Si era ripromesso, quando era quasi arrivato ormai, di chiamare presto Momoi e
scusarsi non solo per l’improvvisata dell’altro ragazzo ma, soprattutto, per
come le si era rivolto. Pensandoci a mente fredda sapeva che la ragazza non lo
aveva fatto per impicciarsi o per fargli la paternale, quanto più perché – ai
suoi occhi – quel suo atteggiamento doveva essere sembrato un pessimo segno,
memore di quanto avvenuto già una volta alle medie. Momoi era forse, fra loro,
la persona che aveva sofferto maggiormente di tutto quel distacco, incapace di
fare alcunché per evitarlo.
Dallo scusarsi con lei al parlare con Aomine dei suoi problemi – di cui lui era
inconsapevolmente la causa – si parlava però di tutt’altra questione; per
questo ricevere un sms da lui era stato del tutto inaspettato.
Che è successo con Satsuki?
Avrebbe potuto rispondergli una qualsiasi cavolata, se Momoi non fosse
stata una ragazza diversa dalle altre: l’aver passato anni ad essere la manager
della Teikou e, in generale, l’essere amica d’infanzia di uno come Daiki
l’aveva resa meno toccata dalle sciocchezze medie di molte ragazze della sua
età. Il che era un bene, perché Momoi era una delle persone più in gamba che
conoscesse… ma ciò significava anche che inventare una bugia credibile fosse
molto più complicato.
Così, alla fine, non aveva risposto all’sms fino al mattino seguente: si era
scusato per non aver scritto immediatamente – dando la colpa ad un impegno per
il quale aveva dovuto spegnere il telefono – e aveva promesso di scusarsi con
Momoi per essersene andato via in fretta e furia a causa di un problema
improvviso di un suo collega, motivo per cui era stato prelevato.
Non aveva aggiunto altro, come se non ci fosse stato altro problema o altra
mancanza oltre quello.
Per questo ritrovarsi Aomine davanti una volta uscito dalla palestra dopo gli
allenamenti aveva minato alla sua psiche e alla sua tranquillità emotiva; si
era gelato sul posto.
«A-Aominecchi.» salutò, cercando di imporsi una certa
spontaneità e un sorriso di quelli che aveva sempre rivolto all’ex compagno di
squadra, anche se dubitò di aver reso il tutto come avrebbe voluto; Daiki aveva
incurvato le labbra in un mezzo ghigno che Ryouta avrebbe riconosciuto sempre, ossia quello di quando era
profondamente seccato da un atteggiamento. Gli si avvicinò senza tante
cerimonie, passandogli un braccio attorno alle spalle – sembrava un gesto
amichevole, ma a Kise sembrò più una mossa per assicurarsi che non fuggisse
adducendo qualche scusa.
«Kise, bastardo…» iniziò e ciò confermò tristemente l’idea che si era fatto di
quell’approccio «Sarà meglio per te se non devi andare al lavoro.»
Si erano spostati,
lasciando il terreno scolastico e camminando per un tratto in silenzio.
Ryouta da parte sua non aveva idea del perché della sua presenza lì – che Momoi
gli avesse parlato del loro incontro, dicendogli anche della sua chiara
intenzione di evitarlo? – e non osava introdurre l’argomento o anche solo
stimolare la conversazione; d’altra parte il silenzio di Daiki, che non era
noto per essere una persona propensa a pesare le parole, lo preoccupava anche
più di tutto il resto.
«Aominecchi» azzardò ad un certo punto «gli allenamenti…?»
«Avevo da fare da queste parti.» tagliò corto, implicando l’aver bigiato,
sebbene avesse ripreso ad allenarsi tempo addietro con una certa costanza e
avesse continuato da quanto ne sapeva. Era anche un’evidente bugia: qualunque
cosa volesse acquistare dubitava che non si trovasse nella sua zona, o che
andasse a comprarla senza Satsuki; o, ancora, che fosse così urgente da non
poter aspettare il week-end.
Era una casualità troppo ovvia per risultare credibile.
Fu una vera fortuna, perso nei propri tentativi di indovinare cosa passasse per
la testa di Daiki, se si accorse del fermarsi dell’altro prima di finirgli
addosso; si guardò attorno per qualche breve istante, riconoscendo un parco
della zona.
Aomine si voltò verso di lui, le mani in tasca e l’aria seccata: «Allora, cos’è
successo con Satsuki?» domandò senza tanti giri di parole, sorprendendo Kise.
Si era aspettato una domanda diversa – e molto più catastrofica, difficile da
aggirare, come “perché mi stai evitando?” – ma non quella, a cui pensava di
aver già risposto al telefono.
«Un collega aveva avuto un problema e la mia manager ha il segnale del gps del mio telefono per quando deve venirmi a prendere da
qualche parte.» iniziò, ricordando perfettamente la versione scritta con tanta
cura nel messaggio di quella mattina «Avevo detto di dovermi incontrare con
un’amica delle medie, chiacchierando del più e del meno, e devo aver nominato
la zona. Mi hanno visto da fuori il bar dov’eravamo, uno dei ragazzi è entrato
e mi hanno quasi portato via di peso. Mi dispiace se Momoicchi è rimasta sola—»
«Se hai finito con le stronzate, non ho tutto il pomeriggio.» lo interruppe
Daiki, fissandolo mortalmente serio. Kise tacque, deglutendo e forzando su se
stesso una certa calma: era abbastanza sicuro che la convinzione di Aomine sul
suo stare mentendo – o sul non stare centrando il punto della questione che gli
interessava – fosse dovuto a qualcosa che sapeva e non al fatto di essere
suonato poco convincente.
Non c’era ancora bisogno di agitarsi, si disse.
«Allora dimmi cosa vuoi sapere, perché non mi viene in mente altro a parte
essermene andato in fretta e furia e magari averla fatta preoccupare.» ribatté,
più a tono di quanto avrebbe voluto o pensato di fare.
Dopotutto, aveva sempre affrontato Daiki a testa alta, tanto sul campo da
basket quanto fuori, almeno per quel che il ragazzo da un certo punto in poi
gli aveva permesso alle medie; ma lui stesso – Kise – era stato preso da ben
altro, durante gli anni della Teikou.
«Satsuki non me lo ha detto, ma so che c’è qualcosa che non va. Non so di che
avete parlato, ma tu sei quello che ultimamente le dice sempre di non poter
venire quando ci vediamo, giusto? Che problemi hai?»
«Lavoro, Aominecchi. Ed è ingiusto quello che dici. Pensavo avessimo già
chiarito riguardo il tuo compleanno, visto che non ero l’unico assente, no?»
fece presente, un vago e inconscio accenno di broncio. Sentì Daiki inspirare
forte dal naso.
«Sì, ho capito, non è quello il punto.» tagliò corto «Ma le hai anche detto di
non chiamarti, no?» domandò, causando in lui la stessa sorpresa che se gli
avesse lanciato improvvisamente un petardo acceso in mezzo ai piedi.
«…Te lo ha detto lei?»
«L’ho capito da solo. Un momento prima era lì a chiamarti, quello dopo diceva
che eri impegnato senza nemmeno averti mandato un messaggio. Ci sono arrivato
persino io.» sbottò.
Se lo sarebbe dovuto aspettare, pensò Kise: Aomine aveva sempre sostenuto che
Momoi fosse una seccatura, con il suo fargli da mamma e riprenderlo su almeno
la metà delle cose che faceva, eppure erano cresciuti insieme e Ryouta sapeva –
forse meglio di chiunque altro, dopo il tempo passato ad osservare Aomine anche
al di fuori del campo da gioco – che non era davvero infastidito da lei e dalle
sue attenzioni e che lamentarsene era solo un modo burbero di dire che le era
grato, anche se spesso poi non seguiva i suoi consigli.
Avevano il legame speciale tipico degli amici d’infanzia, ed era chiaro che ad
un minimo accenno di problema serio tra Satsuki e un ragazzo Aomine saltasse su
con un fare protettivo tutto suo, anche se quel ragazzo era lui, che di certo
difficilmente poteva ferire Momoi da un punto di vista amoroso.
Difficilmente.
Quel pensiero lo colpì con tanta forza quanta era stata l’apparente naturalezza
con cui si era riscoperto a formularlo. Perché mai “difficilmente”? Non certo
perché Satsuki non fosse bella o cose del genere, né si poteva dire che non gli
piacesse anche nel complesso.
Perché le era stato vicino abbastanza da non riuscire a vederla in altro modo
che come amica?
«Quindi?» lo incalzò Aomine, impaziente, muovendo un passo in avanti quasi ad
esortarlo anche con la gestualità oltre che con le parole.
Perché era una ragazza.
O perché non era Daiki.
«… Forse ho detto delle cose non molto gentili.» ammise, sentendosi prendere
per il bavero neanche un istante dopo e ritrovandosi il viso di Aomine – con
espressione tutt’altro che amichevole – ad una distanza così esigua dal proprio
che, per un momento, il sussurro provocatorio di Akira nel locale gli sembrò
molto meno imbarazzante dell’intera situazione.
«Se scopro che hai—»
«Non l’ho offesa, per chi mi hai
preso?» sbottò immediatamente senza neanche lasciarlo finire, intuendo con una
facilità quasi sconvolgente cosa si stesse agitando nella sua testa «Voglio
bene a Momoicchi, e non faccio così schifo da permettermi di dirle certe cose.
O di dirle alle ragazze in generale.» puntualizzò.
La cosa parve convincere Daiki abbastanza da lasciarlo andare, la camicia
sgualcita lì dove era stata afferrata con foga.
Se la sistemò distrattamente con la mano: «Abbiamo parlato del perché
ultimamente avessi rifiutato gli inviti.» iniziò con quanta più calma possibile
cercando, al tempo stesso, di pensare in maniera quasi febbrile a cosa
aggiungere. Non voleva mentire, ma non aveva nemmeno intenzione di dire la verità
che aveva taciuto alla stessa Momoi.
«E ho detto che non è un buon periodo. Sono stressato per problemi miei, e
lavoro davvero la maggior parte del tempo.» continuò, perché dopotutto non era
una bugia quella: si era oberato di ingaggi di proposito, per quanto possibile «E
quando siamo andati sul personale ho detto che non aveva diritto di chiedermi
niente. Non sarò stato gentile, ma non era sbagliato. Però mi scuserò perché
non era quello il modo per dirlo.» concluse.
Aomine non sembrava totalmente convinto, ma chiaramente non aveva nemmeno nulla
a cui aggrapparsi a parte suoi eventuali sospetti su quanto Kise potesse essere
o meno sincero. Sospirò, portando una mano a grattarsi la nuca, come se non
sapesse bene nemmeno lui come placare l’insoddisfazione evidente per quella
spiegazione povera di dettagli.
«Sarà meglio.» rimarcò innanzitutto «E poi che ne so, ha detto che te ne sei
andato con un tizio e che era preoccupata.» borbottò, lasciando Ryouta
perplesso per qualche istante.
«Akira-san è un mio conoscente, e non ha quest’aria così pericolosa da doversi
preoccupare.»
«Sarà un altro modello.»
«Non proprio, ma diciamo che lo conosco nell’ambiente. E comunque non sono
affari tuoi, Aominecchi. O sei geloso?» lo prese in giro, pentendosene
l’istante dopo.
«Ah? Ma figurati, fai come ti pare, io dico solo quello che mi ha raccontato
Satsuki.» sbottò sgarbato, anche se non più del solito.
Ryouta tacque, dandosi dell’idiota; a volte se le cercava proprio, eh?
Dopo l’improvvisata di Aomine avrebbe voluto chiamare Jun, ma sapeva che
l’altro sarebbe stato impegnato con il lavoro e quindi aveva evitato.
In parte, aveva dovuto ammetterlo almeno con se stesso, non aveva provato a
chiamarlo al telefono anche perché si sentiva abbastanza stupido: benché
l’altro modello gli avesse più volte ribadito di essersi preso a cuore la sua
situazione – e, dopotutto, lo avevano ampiamente dimostrato sia lui che Akira –
Ryouta sentiva ancora una sorta di disagio nel ritrovarsi a riferirgli ogni più
piccolo sviluppo.
Aveva anche l’impressione, a volte, che stesse abusando di una cortesia magari
mostrata per simpatia ma anche per educazione; era difficile non confidarsi con
persone che conosceva da molto più tempo, e imparare contemporaneamente a
considerare fidate altre con cui aveva legato solo di recente e per caso, come
lo stesso Jun.
Tuttavia, gli erano ormai chiari almeno due punti: era attratto da un ragazzo
ed era attratto da Aomine in quanto Daiki.
E questo, per il momento, bastava e avanzava a complicargli la vita senza il bisogno
immediato di scoprire se lo stesso sarebbe stato con un qualsiasi altro uomo da
lì in avanti – e non era nemmeno interessato a sapere dove sarebbe dovuto
andare e come si sarebbe dovuto comportare per scoprirlo. A quasi diciassette
anni già vedersela con la propria sessualità per la prima volta dopo anni di
convinzioni evidentemente errate era abbastanza.
«Pronto?»
«Momoicchi.» salutò allegro, il sorriso sulle labbra mentre scendeva dal taxi
di fronte agli studi dove doveva lavorare quel giorno. Normalmente si sarebbe
occupata la sua manager di andarlo a prendere e accompagnarlo, ma aveva dovuto
precederlo per gli ultimi accordi con il fotografo, o così gli aveva scritto.
«Ki-chan!» ribatté la ragazza dall’altro capo del telefono, di certo sorpresa
dalla chiamata.
«Cos’è, il bastardo finalmente chiama per scusarsi?» sentì pronunciare dalla
voce di Aomine; nonostante tutto, mentre coglieva Momoi riprenderlo con un
“Daichan stai zitto!”, li sfuggì uno sbuffo divertito.
«Scusa Ki-chan, ignoralo. Dimmi.» riprese con tono più dolce rivolta a lui.
«In realtà Aominecchi ha indovinato.» ammise «Mi dispiace per l’altro giorno.
Sia per essermene andato di fretta, sia per quello che ho detto… per come l’ho
detto, in realtà. So che ti stai solo preoccupando per me.» pronunciò con
gentilezza.
Non ne fu certo, ma gli sembrò di sentirla sospirare sollevata, benché stesse
evidentemente cercando di nasconderlo: «Dispiace anche a me. Avevi detto che
non era un buon periodo e—»
Sentendola interrompersi Daiki, che aveva guardato distrattamente una vetrina
di articoli sportivi, spostò lo sguardo verso di lei, incuriosito; la curiosità
si affievolì quando notò dapprima uno sguardo confuso sul viso di lei e, poco
dopo, la preoccupazione sostituirsi all’espressione avuta fino a poco prima.
«…Ki-chan? Mi senti?» provò, scostando il telefono dal viso per controllare che
la chiamata fosse ancora in corso, premendolo poi nuovamente contro l’orecchio.
Vederla sbiancare gli diede la conferma che qualcosa non andava.
«Ki-chan!» esclamò, lo spavento ormai palpabile nel tono di voce.
«Ohi Satsuki, che succede?»
«Io- Non lo so, Daichan. Stavamo parlando, poi si è sentito un gran trambusto,
non ho capito…» prese a spiegare agitata, risultando persino meno comprensibile
di quanto dovesse essere stato per lei da sentire direttamente.
«Gli sarà caduto il telefono, o avrà dovuto spegnerlo al lavoro come al solito.»
osservò, anche se aveva la fastidiosa sensazione che non fosse nulla di così
semplice.
«Sembrava… la voce della sua manager.» mormorò, mettendo sbrigativamente il
cellulare nella borsa e iniziando a camminare.
«Ohi, fermati un attimo!» sbottò affiancandola in mezza falcata: «Si può sapere
che cacchio hai sentito? Che ha detto, dove—Satsuki»
chiamò fermandola per la spalla, forse anche più bruscamente di quanto avrebbe
voluto.
«Non lo so, ho sentito nominare l’ospedale e Ki-chan non ha più risposto!»
So che in questo momento
mi state amando tantissimo 8D
Ad ogni modo, poche parole e un avviso: difficilmente questa fan fiction sarà
aggiornata prima di Settembre inoltrato, a causa di due contest (con
scadenza a fine Agosto e a Settembre) e di quel magnifico mondo che sono gli
esami.
Potrei anche avere un momento di follia e fare un tour de force di una giornata e partorire
il capitolo, ma siccome deve essere proprio un momento di ispirazione
fulminante, sarà difficile.
Approfitto di questo spazio per fare gli auguri (con qualche giorno di ritardo)
a OhBirds: è molto troll da parte
mia dedicarti questo capitolo per il compleanno, ma tanto mi minacceresti
comunque, perciò tanto vale <3