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Autore: ljghtwood    08/08/2013    5 recensioni
Non c’è spazio per la compassione, non su una barca stracolma di gente diretta verso l’Europa, verso la ricchezza, verso la morte. Non c’è spazio per nulla, nemmeno per respirare. Non c’è acqua, non c’è cibo e nemmeno dignità. C’è solo speranza, speranza di farcela, almeno finché non ti assale la stanchezza a tal punto che l’unico desiderio è quello di addormentarsi, di dimenticare, di smetterla di soffrire, di star male.
Prima di un viaggio come questo devi mettere in conto che non solo perderai la tua famiglia, la tua casa, i tuoi averi o i tuoi amici; con loro perderai tutto e perderai anche te stesso, perché non c’è spazio per le persone o meglio, per i trafficanti - che si tratti di mare o deserto o qualunque cosa tu voglia - non siamo nulla, solo soldi, solo stolti da derubare per poi lasciare in mezzo al nulla a patire. Magari il loro scopo è quello di trasformare il deserto in un cimitero di sfollati, una grande tomba senza croci, senza pietre e senza sepolture per la gioia dei predatori.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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646: a girl without a name.

 

 
 
 









 
Se sopravvivi al deserto sei salva.
Ma ero sicura, sapevo che l’avrei superato perché nella tasca del vestito stringevo forte un biglietto, quello del pullman che mi avrebbe condotto oltre le dune, oltre la sabbia.. verso il mare. Non avevo detto a mio nonno del biglietto, anche se forse lo avrebbe rassicurato un po’. Avevo risparmiato molto per quel pezzo di carta e avevo paura che a dirlo ad alta voce qualcuno si presentasse durante le notte per portarmelo via.  Ne ero terrorizzata, tenevo a quel biglietto più che alla mia stessa vita.
Sapevo che la gente moriva tra le dune, che quando la sabbia cominciava alzarsi al comando del vento rabbioso e rumoroso se ti salvavi era solo un miracolo. Ma non sarei morta, non in quel posto almeno, perché quel biglietto era la mia salvezza e non avrei permesso a niente e nessuno di portarmelo via.
Mia nonna era scoppiato a piangere vedendomi partire, con la sua vecchia sacca scucita sulle spalle e il vestito lungo, quello di lino colorato. La sera prima mi aveva ricoperto la cute di tante piccole trecce, come faceva quando ero piccola. Non mi piacevano particolarmente ma l’avevo lasciata fare: non avrebbe sopportato che la scacciassi in un momento del genere. Io non avevo comunque nient’altro da fare e mi ero rilassata sotto il suo tocco materno fino ad addormentarmi.
Almeno i capelli legati non mi avevano fatto morire di caldo, non troppo almeno. Ma se ero sopravvissuta al deserto era stato un miracolo. A metà strada il pullman aveva consumato tutto il carburante e l’autista se l’era svignata su una jeep che passava casualmente di li, lasciandoci tutti e venti come fossimo giocattoli rotti in una discarica infinita. Una discarica di sabbia e di morti. Non avevo mai visto nessuno senza vita fino ad allora e avrei preferito non farlo. Erano li, ad ogni passo rischiavi di inciampare in carcasse putride e terrificanti, scheletri ancora ricoperti di pelle e capelli rinsecchiti dal sole. Ad uno di loro presi un fazzoletto che mi legai stretto in testa, per non permettere al sole il contatto diretto con la fronte. Non sarebbe dispiaciuto, a quello spettro, anzi magari gli avrebbe fatto piacere e durante la notte dissi una preghiera anche per lui o lei, perché era talmente malridotto che nemmeno ero riuscita a capire cosa fosse. Non si è più persone qui, si diventa cose. Prima di un viaggio come questo devi mettere in conto che non solo perderai la tua famiglia, la tua casa, i tuoi averi o i tuoi amici; con loro perderai tutto e perderai anche te stesso, perché non c’è spazio per le persone o meglio, per i trafficanti - che si tratti di mare o deserto o qualunque cosa tu voglia - non siamo nulla, solo soldi, solo stolti da derubare per poi lasciare in mezzo al nulla a patire. Magari il loro scopo è quello di trasformare il deserto in un cimitero di sfollati, una grande tomba senza croci, senza pietre e senza sepolture per la gioia dei predatori. Fortunati almeno loro che possono mangiare. Ma io non avrei fatto parte di quel cimitero, non sarei stata cibo per nessuno e non volevo che nessuno di passaggio si impossessasse della mia sacca, dei miei pochi soldi e dei miei scarponcini dalla suola forte, perfetti per le lunghe camminate. Avrei preferito polverizzarli piuttosto che vederli prendere a qualcuno.
Forse avrei preferito non superarlo, non avrei voluto possedere le mie gambe forti perché se credevo che quello fosse il peggio non ero ancora arrivata al mare. Non l’avevo mai visto prima di allora ma non credevo fosse così grande. Pensavo fosse come un lago, solo più grande e salato, ma non così immenso da non vedere nemmeno in lontananza uno squarcio di terra, di sassi, di rovi. Avrei voluto vedere qualunque cosa che non fosse quel deserto d’acqua limpida e calma.
Dopo la camminata nel deserto ero distrutta: non toccavo cibo ne acqua da così tanto tempo che avevo perso il conto delle lune che avevo osservato passarmi sopra la testa ogni notte da quando ero partita. Non dormivo da allora, forse per il freddo che sprigionava il deserto durante la notte, forse semplicemente per paura che i miei occhi decidessero di non vedere più, di abbandonarmi insieme alle mie gambe in mezzo al vuoto. Non avevo idea di dove mi trovassi, ma trovai un vicolo isolato e vuoto e mi sedetti più in fondo, il più nascosta possibile.
Quasi non svenni alla vista delle vesciche che ricoprivano i miei piedi, delle unghie lunghe e sporche sia dei piedi che delle mani, dello sporco incrostato sulla mia pelle scura. La schiena e il collo mi facevano un male atroce, o meglio, non c’era parte del mio corpo che non dolesse da far paura. Il vestito di lino colorato col quale ero partita era diventato scuro, i colori erano spenti ed era strappato in vari punti. Anche gli scarponcini pesanti avevano la suola leggermente staccata ed erano pieni di sabbia, i calzini bianchi erano diventati neri, quasi per magia. Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti e mi lasciai definitivamente abbandonare alla stanchezza continuando a tenere stretta la sacca di mia nonna al petto.
Quando mi risvegliai mi sorpresi di essere ancora viva. Non sapevo quanto fosse passato dal mio arrivo in città, ne quanto avessi dormito e le braccia e le gambe facevano ancora male, certo, ma meno rispetto a prima e lo stomaco aveva ripreso a brontolare – aveva smesso qualche giorno dopo la fine delle scorte di cibo, probabilmente consapevole che era inutile sprecare energie perché in cambio non avrebbe ricevuto niente. Decisi di alarmi e mi incamminai verso il centro della città dove, se le mie orecchie non mi ingannavano, riuscivo a sentire il rumore del mercato. Appena vidi una fontana mi ci fiondai sopra, assaporandone l’acqua leggermente tiepida – ma non mi importava, in quel momento sarebbe potuta essere anche bollente che l’avrei festeggiata come fosse ghiacciata.
Mi strofinai le mani, il viso, le braccia cercando di togliere lo strato di croste e sporco che si erano formate sulla mia pelle. Cercai anche di pulirmi le unghie, senza però un risultato particolarmente buono. Riempii d’acqua le due borracce che tenevo nella sacca, non sicura di quando avrei potuto riempirle ancora, e feci bene.
Fui fortunata, o almeno così credevo. Al mercato riuscii a comprare un paio di mele e riuscii a parlare con un uomo che organizzava gruppi di barche per l’Europa. Non potevo crederci perché nonostante si fosse preso tutti i miei soldi mi aveva detto che saremmo partiti il giorno seguente. Non stavo più nella pelle. L’idea di andare in Europa mi riempiva di felicità, ammirare tutte quelle città meravigliose che fino a quel momento avevo visto solo sui libri che mia nonna mi mostrava prima di andare a dormire. Probabilmente se avesse saputo che quelle foto mi avrebbero riempito la testa di idee assurde non me le avrebbe mostrate.
La mattina successiva mi avviai verso il porto, come l’uomo mi aveva detto e rimasi sconvolta da tutta la gente che c’era: chi sbraitava, chi mostrava soldi, chi pezzi di carta. Mi tenni a distanza dalla massa di persone vicino alla nave e quando furono saliti tutti mi arrampicai anche io sulla barca, mostrando all’uomo il biglietto che mi aveva dato la mattina prima. Il proprietario accese il motore, poi scese dalla barca e urlò qualcosa di una lingua che non conoscevo. Un vecchio che sedeva vicino a me cominciò a sbraitare qualcosa prima che la barca cominciasse ad andare verso il vuoto, da sola come guidata da un comandate sprettro.
Mi trovavo nel nulla, di nuovo. Ero stipata in una barca di legno scuro con altre trenta persone, circa, e nonostante ogni tanto qualche ospite precipitasse in acqua – o ci venisse buttato – si stava comunque stretti ed il caldo era insopportabile.
Non avrei mai creduto che il mare potesse essere davvero tanto grande. Questa volta le avevo contate, le lune, e stanotte sarebbe stata l’undicesima. Eravamo li da quasi due settimane e non mangiavo ne bevevo da quasi sei giorni. Avevo finito le mie due borracce quando nessuno mi osservava, terrorizzata all’idea che qualcuno potesse vedere che con me avevo l’acqua e che cercasse di strapparmela dalle mani, un po’ come avevo fatto col biglietto dell’autobus settimane, forse mesi prima. Il sole picchiava rabbioso sulle nostre teste ed ero felice di aver ancora il fazzoletto rubato nel deserto che me la copriva ma nonostante questo il caldo era insopportabile e la sete mi stava distruggendo. Ogni tanto sentivo le mia mani cominciare a pizzicare, l’unico desiderio delle mie palpebre era quello di abbassarsi, forse per qualche secondo, forse per sempre e questo mi terrorizzava. Sentivo la pelle secca, bruciava a contatto coi raggi solari, mi sentivo sporca ed ero terrorizzata all’idea di ciò che avrei trovato sul mio corpo una volta tolta la veste che indossavo, una volta tolti gli scarponi e le calze. Nonostante non camminassi da un pezzo sentivo le vesciche scoppiare, il pus si appiccicava alle calze e ogni volta pensavo a come avrei fatto a toglierle senza distruggermi i piedi più del dovuto. Ero sempre stata magra, ma ora riuscivo quasi a sentire perfettamente ogni costola, ogni osso che sporgeva dalla mia pelle malandata. Non dovevo avere un bell’aspetto, ma d'altronde chi ce l’aveva in quel posto? Non facevo nulla tutto il giorno a parte ascoltare i lamenti dei miei compagni di sorte. Il mio vicino, il vecchio che aveva urlato quando la nave era partita sbraitava tutto il giorno in una lingua che non conoscevo. Una volta, esasperava, gli avevo chiesto di smetterla e lui mi aveva guardato, carico d’odio e si era azzittito per qualche minuto, per poi ricominciare la sua lunga routine di racconti a cui nessuno sembrava prestare ascolto, ne apprezzava. Le mie labbra erano ormai screpolate, tagliate e sapevano perennemente di sale. A furia di stare seduta le mie gambe sembravano come fossilizzare: avevo passato tutto il viaggio rannicchiata con le gambe strette al petto ad annusare l’odore del mio vestito che, nonostante puzzasse da far schifo, era mio e preferivo sentire quello piuttosto che l’odore che emanavano gli altri. Dall’inizio del viaggio molti non c’erano già più. Il primo ad abbandonarci era stato un bambinetto di pochi anni, le guance scavate e gli occhi enormi tra le orbite, il nasino leggermente schiacciato e un paio di denti mancanti nel sorrisino spento. Non era morto per la stanchezza, per il caldo, o per la mancanza d’acqua che avevo distrutto la maggior parte degli altri caduti: era stata una brutale fatalità. Il bambino si era sporto forse più del dovuto ed era precipitato urlando. Nessuno aveva ascoltato le grida di quella povera madre che, disperata, si era poi lanciata a sua volta in acqua senza che nessuno le impedisse di compiere quel gesto estremo. Io l’avrei fatto, glielo avrei impedito, ma mi trovavo dall’altra parte della nave e non ero nemmeno sicura che quella donna parlasse la mia lingua. Inoltre ero troppo stanca, le mie labbra sembravano sigillate e la mia lingua non aveva intenzione di muoversi per dire alcuna parola. Anche il successivo a morire era stato un bambino, questa volta per l’acqua probabilmente. Di nuovo, la madre era morta sfinita dei lamenti e dalle lacrime ed era stata buttata in mare anche lei. Era questo che toccava alle vittime, il mare come unica tomba, una fossa comune per quei morti dimenticati dal mondo, da Dio sempre che esistesse. Stavo davvero cominciando a non crederci, tanto che erano ormai passati diversi giorni dall’ultima preghiera che avevo fatto. Dov’era, questo Dio? Dov’era mentre il mare, il deserto, queste distese desolate si trasformavano tombe infinite, senza distinzioni, senza memoria. Non volevo morire in quel mondo, non gettata in mare e ripensai a casa, al deserto. Mi arrabbiai con mia nonna, per avermi mostrato su quei libri le meraviglie dell’Europa e con la mia indole curiosa che era stanca di poterle vedere solo attraverso immagini. Era non avrei potuto più nemmeno vederle in foto, non avrei potuto toccarle, visitarle. Non avrei più fatto nulla. Ero stanca, sentivo la testa esplodere, la lingua cercava un po’ d’umidità sulle mie labbra secche e incrostate. Avrei voluto vedere la neve. Anche quella l’avevo vista sui libri. Avrei avuto freddo e avrei indossato per la prima volta in vita mia una giacca pesante, magari una sciarpa ed un berretto, e avrei lasciato i capelli sciolti, senza treccine, cosicché potessero contribuire a scaldarmi la cute. Prima che le palpebre mi si abbassassero notai un ragazzo, sedeva poco lontano da me, anche lui vestito di stracci e con una cicatrice sul polpaccio sinistro. Era magro, molto magro, ma era anche molto carino. Aveva i capelli crespi, gli occhi scuri mi scrutavano e non appena notò il mio sguardo rivolto su di me sorrise appena. Chissà come si chiamava, da dove veniva. Magari era del mio stesso Paese e avremmo potuto parlare la stessa lingua. Chissà come si era procurato quella cicatrice. Cosa faceva prima di salire su quella barca verso l’inferno.  Sorrisi leggermente anche io socchiudendo gli occhi. Ero stanca, mi faceva male la schiena. Sperai che diventasse come le gambe, insensibili a qualunque cosa. Chissà se sarei ancora riuscita a camminare. Si poteva perdere l’uso degli arti perché rimasti fermi troppo a lungo? Ma non volevo pensare a camminare, non in quel momento almeno. Ci avrei pensato toccando terra, finalmente. Chissà se sarei arrivata in Italia o in Francia? Avrei preferito l’Italia, nonostante in Francia parlassero la mia lingua e uno dei miei più grandi sogni era sempre stato quello di vedere Parigi, con la sua torre illuminata sul fiume e tutta quella gente che passeggiava allegra. Sorrisi, d’istinto. Ci sarei andata, si. Avrei visitato Parigi e avrei comprato una macchina fotografica per farmi una foto sotto ogni monumento, per poi stamparle e spedirle alla nonna, se mai le avesse ricevute. Sarebbe stata contenta e forse avrebbe smesso di piangere. Ma in quel momento non ci volevo pensare. Volevo solo dormire, chiudere gli occhi e riposarmi un po’. Volevo che le mie ossa tornassero quelle forti di una volta, che smettessero di farmi male. Volevo bere. Avrei dato qualunque cosa per una goccia d’acqua, calda o fredda che fosse.
Magari se dormo un po’ il tempopassa più velocemente e arriviamo prima.
Non volevo aprire gli occhi, non volevo vedere il sole, ne il ragazzo carino che mi aveva sorriso poco prima. Se l’avessi conosciuto in altre circostanze, magari, non sarei nemmeno riuscita a togliergli gli occhi di dosso, ma in quel momento non riuscivo nemmeno ad usare la vista. Avrei voluto tapparmi le orecchie per non sentire quel vecchio strillare, ancora alla mia destra e avrei voluto smetterla di sentire quell’odoro di putrido a cui il mio naso, nonostante fossero passate settimane, non si era ancora abituato. Volevo dormire solo pochi minuti, magari qualche ora. Giusto per sentirmi meglio, per rilassarmi. Avevo dormito solo una volta, sulla barca. Avevo sognato quel bambino che precipitava in madre, le urla della madre mi rimbombavano nelle orecchie e probabilmente avevo urlato nel sonno perché il mio vicino di sinistra mi aveva scosso con forza fino a quando non mi ero risvegliata. Era finito anche lui in quel cimitero di cadaveri dimenticati, qualche giorno dopo il mio sogno, portato via dalla sete, dal caldo e dal delirio. Sembrava un uomo tanto forte, giusto qualche giorno prima, e due giorni dopo urlava come un forsennato, piangendo e graffiandosi le braccia con le unghie spezzate e nere di sporco.
Non volevo fare la sua stessa fine. Non volevo impazzire e nonostante avessi paura degli incubi che il sonno mi avrebbe portato non desideravo nient’altro in quel momento. Non mi sarebbe successo niente a dormire e riposarmi solo per pochi minuti, anzi, poi sarei stata meglio ed ero talmente stanca che probabilmente avrei avuto un sonno senza sogni, senza incubi e senza urla.
Magari mi avrebbero svegliata le urla dei miei vicini alla vista di terra. Avevo la sensazione che la fine di quel viaggio fosse vicina, che la terra fosse vicina. Erano un paio di giorni che mi guardavo intorno cercando di intravedere all’orizzonte ombre più scure della solita riga che separava l’azzurro del mare da quello del cielo.
Avrei riposato solo pochi minuti, giusto per non sentire la schiena dolorante per un po’. Non avrei dormito tanto, mi sarei risvegliata e avrei toccato terra, avrei camminato di nuovo e avrei visitato Parigi.
Finalmente, sfinita, mi addormentai.
 
 
Pluuf.
Il suo corpo fa lo stesso rumore degli altri quando la lanciano giù dal barcone. Un corpo in meno, anche se minuto fa sempre comodo, è sempre uno spazio in più.
Non c’è posto per la compassione, per la tristezza. Alla fine era solo un’estranea. È un’estranea, morta tra estranei e a loro serve solo aria, hanno il bisogno di stiracchiare le gambe stanche e indolenzite, di spazio per sdraiarsi e riposare. Spazio per addormentarsi, per sempre. Non sapeva nuotare, non lo imparerà e non le servirà perché per ad un cadavere non è permesso muovere le braccia, le gambe e cercare di salvarsi. È già spacciato. Ha ancora la sacca scucita della nonna stratta tra le braccia, il fazzoletto rubato a quella carcassa del deserto appuntato sulla testa, gli scarponcini ai piedi: probabilmente non erano più buoni come pensava. Un paio di pesci scansano il suo corpo che sta precipitando lentamente verso gli abissi del Mediterraneo, insieme ad altri che non potranno mai riposare nel legno, destinati a non ricevere visite, ne fiori. Destinati al silenzio, perché effettivamente nessuno sa che resteranno li per sempre, fino a diventare sabbia che si fonderà col le onde del mare, che resterà a giacere sul suo fondale. Magari dalle sue ceneri nasceranno alghe marine. Ne sarebbe contenta, sua nonna ha sempre amato le piante.
È diventata una di loro, un cadavere in un cimitero infinito e dimenticato.
Un morto che nemmeno merita una croce, una pietra o un nome.












 

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ciao.. è da un po' che volevo scrivere questa storia ma ne ho apporfittato di alcuni giorni in montagna per farlo.
l'idea di questa storia è nata perché quando ero andata alla "Perugia-Assisi" del 2011 mi avevano dato un adesivo che diceva "1500 morti nel mediterraneo, Europa dove sei?" insieme appunto a questo numero: 646. ho attaccato questo adesivo dietro alla porta di camera mia ed un giorno l'ho guardato e ho pensato a chi potesse essere questo 646.. non di certo un numero, e qui è nata questa idea.
è semplicemente una storia verosimile, e solo l'idea che qualcuno possa aver vissuto qualcosa del genere mi distrugge. conosco ragazzi che hanno vissuto esperienze simili, ho letto libri sull'argomento, ho sentito un sacco di testimonianza - o meglio, molte le ho intuite perché immagino quanto possa far male rivivere cose del genere.. mi hanno raccontato del deserto, di quando possa essere un'esperienza orribile dover vivere senza acqua, senza cibo, senza nessuno su cui davvero fidarti se non te stesso.. non so se ce la farei, a vivere nella paura intendo..
come potrete vedere la mia protagonista non ha un nome, o meglio.. non l'ho detto io. l'ho fatto semplicemente perché questa non è la sua storia.. non del tutto, intendo.. è la sua storia, com'è quella di altre milioni di persone che muoiono per scappare, per una vita migliore.. per tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini che hanno lasciato questo mondo senza che nessuno lo sapesse, senza che nessuno potesse seppellirli, piangere sui loro corpi.. portare dei fiori, delle pietre.. non so.. forse sto scrivendo troppo, nel senso.. non so se vi interessa.. nemmeno so se qualcuno arriverà mai a leggere tutto ciò, ma se lo stai facendo, grazie. 
grazie non solo per me, ma anche perché mentre leggevi pensavi a questo anonimo e per un attimo anche il suo corpo ha avuto un pensiero, in quel mondo dimenticato.. okei, sono sentimentale, ma queste cose.. queste morti ingiuste mi fanno imbestialire!!

ora vado davvero - ho guida tra dieci minuti e piove, ho una paura matta - e credo di aver detto tutto quello che volevo,.. e ancora grazie.
spero davvero di ricevere qualche parere, qualunque cosa, davvero :)
xx J. 

  
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