Serie TV > Teen Wolf
Segui la storia  |       
Autore: S t r a n g e G i r l    09/08/2013    5 recensioni
Tutti i bambini hanno paura di qualcosa, che solitamente poi si nasconde sotto il letto.
L'uomo nero, mostri, rapinatori...
Quel che spaventava me, ad esempio, era verde e aveva i tentacoli.
Ma quello da cui Isaac era terrorizzato, da cui si nascondeva e fuggiva non era nulla di simile; il suo, di mostro, aveva le fattezze di suo padre.
Quando me lo aveva raccontato, io avevo riso come se fosse stata una barzelletta e lui non mi aveva rivolto parola per mesi, fino a quando non ero andata a casa sua con un dolce fatto da mia madre per farmi perdonare e, dalla finestra, l'avevo intravisto anche io, il suo incubo.
E da allora in me era nato l'istinto di proteggerlo.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Isaac Lahey, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Pioggia Di Vetro

5. Pioggia di lame.


- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


« Sì, mamma, sì. »
Sbuffo e sposto il telefono, incastrandolo fra l’orecchio e la spalla.
Mi servono le mani per disfare in fretta i bagagli.
Mi serve un tempo che mi sembra di non avere.
« Ho dormito quasi tutta la durata del viaggio. » borbotto ancora, distratta, roteando gli occhi.
Mery, seduta sul suo letto dal copriletto giallo, sogghigna.
« Certo che c’erano i suoi genitori ad aspettarmi. Come credi ci sarei arrivata da lei, altrimenti? Volando? Casa sua dista chilometri dalla stazione, lo sai bene. »
Batto un piede a terra, l’ansia che aumenta di portata nella mia voce.
« Mmh bene, d’accordo. Ora devo andare, la cena è pronta. La sua famiglia si mette presto in tavola. Ti chiamo domani, ok? Ok. Ciao, mamma. »
Chiudo svelta la telefonata, come se temessi che un’altra sua parola possa farmi esplodere, e torno di fronte alla mia amica, l’espressione disperata in faccia.
L’espressione di chi ha perso tutto.
La mia espressione solita senza Isaac.
« Ripetimelo. Spiegami ancora come diavolo fa un ragazzo a sparire sotto il naso della polizia e a far perdere le sue tracce come fosse semplicemente… evaporato. » gesticolo agitata, mimando un soffio di aria calda che esce da una pentola che bolle.
« E’ tutto quello che so, Violet. Cosa potrei sapere io più dello sceriffo? » Mery si stringe nelle spalle e guarda altrove, quasi non sopportasse quel che vede nel mio sguardo.
O, semplicemente, come se non ci fosse proprio niente da vedere in esso.
« Io vado da lui. » decido d’improvviso, animata dall’impossibilità di star ferma a contemplare gli eventi che si susseguono come in una pellicola al cinema.
Mery torna a fissarmi controvoglia, sondando il mio viso alla ricerca di qualcosa che somigli ad un sintomo di follia repressa fino a quel momento ed emersa tutta d’un colpo.
Frugo nel borsone ai miei piedi alla ricerca di una sciarpa.
« Tu sai dov’è? » mi chiede sconcertata.
Le lancio un’occhiata ironica.
« O a casa sua o alla stazione di polizia, dove vuoi che sia? »
Infilo la giacca, adagiata sull’attaccapanni solo qualche minuto prima, e mi guardo intorno, sperando di intravedere la mia tracolla.
« Non credi che, se fossi in uno di quei due posti, non lo riterrebbero “scomparso”? »
Mery si alza e poggia le sue mani, dalle unghie mangiucchiate, sulle mie spalle.
Ho iniziato a tremare senza nemmeno accorgermene.
« Sto parlando dello sceriffo Stilinski. Del padre di quel ragazzo che tutti chiamano Stiles perché non hanno idea di quale sia il suo vero nome. Devo andare da lui a sentire se ci sono novità. Non so e non posso starmene qui ferma. Devo trovarlo. Io devo farlo. Lui… lui… »
Le parole s’incagliano fra le mie corde vocali e non ne vogliono sapere di uscire, di formulare una frase sciocca come “lui ha bisogno di me”.
Perché non è vero, lui non necessita affatto della mia presenza, del mio conforto, dei miei abbracci, dei miei baci.
Di me.
Se così fosse, non sarebbe sparito un mese prima ancora che succedesse tutto questo.
Se così fosse, io saprei della morte di suo padre da lui, non da Mery.
Se così fosse, saprei con certezza che sta bene. Non dove si trova, magari, ma perlomeno che non gli è successo nulla.
Che è al sicuro.
Invece non so niente più del fatto che è scomparso.
E non solo dalla mia vita.
« Lo capisco, Violet. Ma cosa pensi di poter fare? Peggiorerai la sua posizione andando dallo sceriffo. »
« Non è vero. »
« Sì che lo è. Ascolta: la polizia ha già la deposizione di Whittermore, il co-capitano della squadra di Lacrosse, vostro vicino di casa, in cui emerge il carattere violento del padre di Isaac e le torture che infliggeva a suo figlio. Questo, loro, lo chiamano movente! »
La voce di Mery è inflessibile, dura; quella che le maestre usano con i bambini indisciplinati prima di metterli in punizione.
La ascolto e capisco che ha ragione, eppure le orecchie sono l’unica parte del corpo che resta nella stanza.
Il resto viene catapultato indietro nel tempo, alla prima volta che avevo visto Isaac nel parco.
Mi sembra di avere tatuate sulla retina degli occhi tutte le ferite e le cicatrici che lo hanno segnato negli anni.
Marchiato.
Ed ora solcano anche la mia pelle, come se avessi subito gli stessi suoi supplizi.
Perché io mi sono resa complice di suo padre, col mio silenzio.
Avrei potuto farmi avanti, denunciare quel mostro di carne ed ossa – non come i miei, di paure e fantasia – al posto suo e porre fine alle notti di Isaac nel congelatore.
Ma non l’avevo fatto.
Lui mi aveva implorato di stare fuori da quella questione.
Era in grado di cavarsela, diceva.
Aveva me e gli bastava. Era, anzi, più di quanto avesse mai osato sperare, diceva.
Ma ora cos’è che diceva quella sua assenza, quella sua fuga?
Perché non era rimasto alla stazione di polizia, aspettando che i fatti assumessero una luce più chiara?
E nonostante tutto urli il contrario, lui è innocente. Io lo so.
« Se parlassi con lo sceriffo, scoprirebbe che sapevi quello che succedeva a casa Lahey. Saresti coinvolta. Verresti sospettata di complicità. Violet, ti prego. Ti prego, non farlo. Lui non lo vorrebbe. » insiste Mery.
Una volta Isaac mi aveva detto «Io non ho nessuno. » ed io, dopo un bacio, gli avevo detto che non era vero. Non più.
Adesso, è di nuovo così? E’ tornato ad essere solo?
Chi gli è rimasto?
Il nostro rapporto è morto ed anche l’ultimo legame di sangue che possedeva è stato tranciato.
Come sopravvive?
O meglio… sopravvive? Lo sta facendo, nascosto da qualche parte in attesa che le acque si calmino?
O ha concesso, infine, la sua vita alla solitudine?
Crede che io l’abbia abbandonato?
« D’accordo. D’accordo. » alzo le mani e mi scosto dalla mia amica, che sospira sollevata.
Individuo la tracolla e l’afferro al volo, correndo poi alla porta della sua stanza prima che possa fermarmi.
« Non andrò dallo sceriffo, ma non rimarrò neppure qui ad aspettare che mi dicano che l’hanno trovato morto in qualche vicolo, come suo padre. Vado a cercarlo. Dì ai tuoi che… non lo so. Ho mal di testa, mal di pancia, mal d’amore. Qualunque cosa. Cercherò di non far tardi, ti faccio uno squillo sul cellulare così mi apri dalla porta di servizio in cucina, ok? » dico tutto d’un fiato, con un piede già fuori dalla stanza.
Poi, ci ripenso. Torno indietro e l’abbraccio forte.
Come avevo fatto con Isaac prima d’andar via.
Come ogni volta che saluto qualcuno senza sapere se poi lo rivedrò.
« Ti voglio bene. »

L’aria della notte mi raschia la pelle come fosse fatta di schegge di ghiaccio.
La giacca sembra di cartone umido e spugnoso e rende impacciato ogni mio movimento.
Le dita si sono intorpidite alle estremità e non sento più l’indice destro, che tengo spasmodicamente premuto su una bomboletta di spray al peperoncino.
La torcia del mio cellulare illumina piccole porzioni di terreno, sufficienti solo a non farmi inciampare in qualche buca, ma per il resto, intorno a me, l’oscurità è quasi assoluta.
Non ci sono stelle, solo uno strato di nuvole così compatto da sembrare panna grigia stesa in cielo.
Deve essere saltata la corrente nel quartiere in cui abitavo: i lampioni non danno segni di vita e le case nelle vicinanze hanno tutte le finestre buie, di un nero che ha inglobato ogni particella di luce esistente.
Lo stesso colore che ha rosicchiato anche parte dei miei sentimenti per Isaac, in tutti quei mesi di lontananza.
Avevo guardato in ogni stradina, ogni angolo scuro davanti cui ero passata venendo da casa di Mery, ma di lui neppure l’ombra.
Il parco era deserto -e anche un tantino lugubre, con un vento rabbioso che faceva muovere da sole le altalene in una sinfonia sinistra di cigolii-, perciò casa Lahey era l’unico luogo che mi era rimasto, perlomeno per quella notte.
L’indomani, se non avessi trovato Isaac neppure lì, sarei andata a chiedere in giro anche ai suoi compagni di Lacrosse e allo stesso figlio dello sceriffo, se fosse stato necessario.
Sospiro e a tentoni raggiungo il retro della casa, cercando un accesso: magari la porta di servizio è rimasta aperta o c’è una botola che conduce al seminterrato…
Il cellulare vibra nella mia mano fredda e, dopo aver letto un messaggio preoccupato di Mery che mi chiede che fine ho fatto, la mia attenzione viene catturata dalla porta a vetri della cucina che ho di fronte.
Provo a girare la maniglia ma, come supponevo, è chiusa.
C’è però lo sportellino d’accesso per i cani che si muove al vento.
Mi chino a quell’altezza e, prima ancora di essermi soffermata a chiedermi se ci possa passare o meno, lo sto già facendo.
Fortuna che sono bassa e magra!
Infilo la testa ed una spalla nella porticina, sentendomi un po’ Alice nel Paese delle Meraviglie quando mangia il cibo che la fa ingigantire di colpo, e piano piano, contorcendomi e probabilmente lussandomi il gomito sinistro, riesco ad intrufolarmi in casa.
Resto seduta a massaggiarmi l’articolazione del braccio per un paio di minuti buoni, poi mi decido a muovermi, col cellullare in mano che proietta luce in modo tremulo qui e lì.
Isaac raramente mi aveva invitato da lui e quelle poche volte erano i giorni in cui suo padre era a lavoro ed io e lui marinavamo scuola per stare un po’ insieme.
Di notte, comunque, non ho mai messo piede fra quelle pareti… e a dirla tutta non sono entusiasta della cosa neppure in questo momento.
La casa sembra un gigantesco mausoleo, arredato con mobili in ciliegio invece che con lapidi di marmo.
Foto di quella che di sicuro era la madre di Isaac e di Camden, suo fratello, sono appese su ogni muro.
Ma non mi sento come se guardassi con una nota malinconica i bei ricordi in un album di fotografie di famiglia, no; è più come assistere allo strenuo sforzo di qualcuno di credere che loro siano ancora vivi, ancora in questa casa, fra i sorrisi nelle foto e le piccole azioni quotidiane immortalate.
Davanti a cosa mi trovo, quindi? All’ennesima sadica tortura che Isaac subiva ogni giorno?
Guardarsi intorno e dover fare i conti con la perfezione di chi non c’è più, che lui non avrebbe mai potuto eguagliare neppure volendo?
Rabbrividisco e illumino il salotto, anch’esso colmo di cornici in cui però Isaac non compare mai.
E’ come un fantasma, uno spettro che non resta impresso sulle pellicole.
La nausea si aggrappa al mio stomaco ed io sono costretta a reprimere un conato.
La polizia è entrata qui dentro?
Ha visto questo posto?
Come possono ancora credere che Isaac sia colpevole?
Un omicidio resta sempre un omicidio, vero, ma in questo caso io lo chiamerei, piuttosto, giustizia.
Chiunque sia stato, ha salvato un ragazzo che altrimenti avrebbe continuato a subire le angherie del padre per anni e anni, fino a morire consumato di un dolore somministratogli a piccole dosi ogni giorno della sua vita.
Piccole quanto le schegge di vetro che calpesto dirigendomi verso la porta in fondo al corridoio, quella che ora è socchiusa e che Isaac non ha mai aperto in mia presenza, additando la scusa di non averne la chiave.
Le tenebre, oltre quell’uscio, sembrano più corpose, quasi mi stessi andando ad aggrovigliare in pesanti sipari di teatro color pece.
La fioca luce del mio cellulare illumina una scalinata che scende verso il fondo -un fondo che non vedo- ed ogni gradino, consumato dalle tarme, scricchiola.
Tutto, in questo posto, mi grida di scappare, d’andar via, ma non riesco a fermare i miei piedi, calamitati verso qualcosa che so con certezza si trova proprio in quel seminterrato.
Scendo l’ultimo scalino con un sospiro di sollievo e mi controllo le dita, trovandole piene di schegge di legno del corrimano.
C’è un odore pungente che mi pizzica il naso e che non riesco ad identificare bene.
Sembra un misto di muffa, sudore e anche… sangue?
Mi muovo un poco, cercando di non inciampare in nessuno degli oggetti accatastati a sinistra della scalinata in modo davvero poco stabile: ci sono cassette di legno sia intere che rotte e fogli sparsi, strappati e macchiati, in terra; una testa di cervo che pende da un lato sulla parete di fondo, vicino ad un’aquila impagliata e teli polverosi di plastica scura che penzolano dal soffitto un po’ ovunque come pure pesanti catene arrugginite.
Una sedia dalle zampe piegate è afflosciata addosso al muro davanti a me e sopra vi riposa un vecchio peluche a forma di scimmia. Come serpenti che strisciano, in cima ad ogni parete, ci sono tubature da cui cola qualcosa di viscido che si accumula dietro uno specchio rotto alla mia destra.
Ma è su un oggetto in particolare che tengo puntata la luce, come se fosse il protagonista di un’opera di teatro illuminato da un occhio di bue al centro del palco.
Un congelatore, di quelli capienti da bar, dall’aria malconcia giace di fronte a me.
A terra, una scia di graffi traccia un percorso proprio verso quel freezer.
Mi avvicino timidamente, la mano premuta sulla bocca per non far scappar fuori un urlo d’orrore, e quando sono ad un passo noto che un lucchetto lo sigilla.
Ma il lucchetto è aperto, constato con un’occhiata più attenta, e allora le mie dita si muovono senza il permesso del cervello e lo tolgono dalla cerniera.
Prendo un respiro, due, tre, tutti quelli che entrano nella manciata di minuti che mi servono ad accumulare sufficiente coraggio, e poi adagio le mani sul congelatore.
E’ spento ma freddo, di un freddo metallico e inanimato, che quasi mi risucchia il calore dai polpastrelli.
Mi mordo con ferocia il labbro inferiore e con uno scatto sollevo il coperchio, senza sapere bene cosa aspettarmi.
Poi i miei occhi individuano le unghiate profonde, scavate più volte dalle stesse dita, e il sangue secco e le ammaccature e mi sfugge un singhiozzo di bocca.
E al singhiozzo seguono le lacrime -una cascata-, mentre con la mano accarezzo i segni degli inutili tentativi di Isaac di liberarsi di quell’orrenda prigionia.
« Non dovresti essere qui. »
Una voce –la sua voce- mi coglie di sorpresa alle spalle ed io piango di più, continuando a percorrere con occhi increduli quei graffi e immaginando di udire le sue richieste d’aiuto, mai raccolte da nessuno.
« Nemmeno tu. » replico dopo un po’ ed il suo respiro gioca con i capelli corti sulla mia nuca.
E’ dietro di me.
Ma non mi abbraccia, non mi prende per mano, non mi sfiora neppure.
Sento solo un fruscio, forse dovuto ad un suo movimento, e poi l’ambiente circostante si colora di una debole luce ocra: Isaac ha acceso una lampadina penzolante dal soffitto proprio sopra la mia testa.
« Ti piace il mio letto? E’ un po’ stretto e decisamente scomodo, ma… »
« Smettila, non è divertente. » lo zittisco con un singulto represso e poi mi volto per fronteggiarlo a faccia aperta, senza vergognarmi delle mie lacrime.
Dio, mi sei mancato.
Isaac mi guarda e in quel chiarore giallino i suoi occhi sono del colore dell’oceano, giù nelle profondità dove le alghe lo sfumano di verde.
Ha le labbra strette in una maschera d’impenetrabile amarezza che mi spaventa.
Guarda quel congelatore con disgusto ed io, scioccamente, mi chiedo se sia stato fatto un funerale per suo padre e se ci sia andato qualcuno.
Ma so bene che la risposta è negativa; che di fronte a quell’ipotetica bara nessuno si dispererebbe, nessuno piangerebbe, invocando il suo nome.
In fondo, la sua morte rappresenta solo un mostro di meno al mondo.
Ma, in questo caso, è un mostro che ha lasciato anche un orfano completamente abbandonato a se stesso.
Io avrei partecipato al rito funebre solo per essere vicina ad Isaac, per non lasciarlo solo a lottare contro l’ennesimo dolore dovuto ad una perdita.
Gli avrei tenuto la mano, senza dire nulla, e poi l’avrei portato via di lì, a casa mia dove avrei cercato di colmare il suo vuoto col mio amore.
« Devi andartene, Violet. » asserisce lugubre, distante più che mai ed ogni sua parola mi ferisce come un coltello.
E più parla, più resto lacerata.
E’ come se addosso a me, soltanto a me, stessero piovendo lame affilate.
« Non vado da nessuna parte senza spiegazioni. Me le devi, Isaac. Almeno quelle. » ribatto pronta, puntandogli un dito al petto.
Lui mi lancia un’occhiata ardente come brace ed emette quello che pare un ringhio animalesco.
« Vuoi davvero sentirmelo dire? Non lo immagini da sola quello che è successo e perchè? » chiede e forse è una mia fantasia, ma mi sembra che dietro quella domanda ci sia una supplica a non andare oltre.
« Dimmelo. Dimmi perché hai promesso qualcosa che non hai mantenuto, perché mi hai illuso per mesi, lasciandomi poi ad aspettarti ad un telefono muto. Se volevi lasciarmi, dovevi dirmelo in modo esplicito. Sei un codardo! » esclamo e vorrei darmi uno schiaffo da sola perché so bene che quello era uno degli insulti preferiti di suo padre.
Glielo ripeteva continuamente, come una cantilena. Come l’antica tortura della goccia cinese. L’ennesima.
Forse, dopotutto, quella pioggia di lame non è ad opera solo di Isaac ma anche mia.
Forse è un sadico gioco, il nostro, a chi riesce a farsi più male.
La sofferenza di uno solo non basta, meglio essere coinvolti entrambi.
Lui digrigna i denti e respira forte dalle narici. Mi prende un polso e mi fa male.
« Sto con un’altra adesso, contenta? Si chiama Erica ed è come me. Tu non potresti capire. Vattene. »
Mi spinge lontano in modo brusco ed io mi ritrovo accasciata contro il congelatore, senza respiro.
Se per il dolore del colpo alla schiena contro il metallo o per quello che mi ha appena sputato in faccia, non saprei dirlo con certezza.
« Cazzo, pulcino ti sei fatta male? »
Alzo gli occhi e me lo trovo davanti, il viso preoccupato e l’espressione colpevole addosso.
E lo riconosco.
Questo è il mio Isaac.
« Come hai fatto a lanciarmi così? Tu non sei mai stato particolarmente forte o violento. Che ti succede, Isaac? » gli chiedo, accarezzandogli una guancia.
La rabbia e la delusione nel mio corpo sono evaporate, come acqua marina sulla spiaggia che lascia solo cristalli di sale.
In me, quel sale è l’amore.
« Non posso… non posso. » mi fissa addolorato e bacia il palmo della mano che tengo sul suo viso.
« Cosa? Dimmelo, ti prego. »
« Devi andartene, non è sicuro qui. Nessun posto è sicuro per te, con me. » ha la voce spezzata, tagliata dall’ennesima lama caduta fra noi.
« Non mentirmi. Se vuoi che stia lontana da te, devi dirmi il vero motivo! » insisto, assottigliando gli occhi per una fitta di dolore alla colonna vertebrale.
« Perché sei così testarda? » esplode di colpo e si alza, allontanandosi da me.
Calcia una di quelle casse di legno malandate ai suoi piedi e la manda in frantumi.
Poi afferra la sedia e la scaraventa contro il muro opposto, riducendola ad un ammasso di plastica e metallo informe.
Trattengo il fiato, terrorizzata come mai.
« Anche se ti dicessi la verità sarebbe inutile: non l’accetteresti, lo vedo dai tuoi occhi. » mormora inspirando forte.
Troppo.
Nasconde d’improvviso le mani e continua a rivolgermi le spalle, a capo chino.
« Ti ho sempre accettato, Isaac. Le cose non sono cambiate! »
Mi alzo a fatica, reggendomi al freezer, e arranco verso di lui.
« Sì, invece. L’Isaac che conoscevi tu è morto insieme a suo padre. Quello che sono ora non va bene per te. Torna a Sacramento, alla tua vita che non pullula di omicidi e attacchi d’animali e sii felice. » dice talmente piano che a malapena riesco ad udirlo.
Poi, un battito di ciglia dopo, è sparito.
« Isaac! » lo richiamo, guardandomi intorno disperata.
Sento la porta d’ingresso sbattere, segno che se n’è andato e mi ha lasciato qui.
Crollo a terra, fatta ormai interamente a pezzi dalla pioggia di lame, che smette di scendere solo in quel momento.






Ero terrorizzata per questo capitolo.
Ero piena di dubbi a causa della storyline e temevo che avrei inconsciamente copiato la scena della lite dalla fanfiction di un'altra ragazza, sempre su Isaac.
Invece il risultato non mi pare male.
Per la gioia di alcune di voi, il capitolo è anche bello lungo.
Spero di non aver esagerato con i polpettoni-descrizioni e non aver abbondato in dettagli.
Si sa: il troppo stroppia sempre.
Questo è il mio augurio per tutte voi di buone vacanze -finalmente sono arrivate anche per me @_@ - perciò non aspettatevi di sentirmi tanto presto.
Sto fuori circa due settimane e non appena torno non posso pubblicare, in quanto non ho ancora scritto nulla.
Ma rimedierò, promesso.
Bon, credo di aver detto tutto.
Vi lascio con tanti abbracci dolciosi e tanto amore.
Grazie di tutte le belle parole che sempre riservate a questa storia, mi rendete felice ed orgogliosa.

Strange.

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Teen Wolf / Vai alla pagina dell'autore: S t r a n g e G i r l