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Autore: The queen of darkness    10/08/2013    1 recensioni
Quando la vita presenta ghirigori stranissimi prima di donare una felicità assoluta.
( questa storia è stata precedentemente cancellata per motivi di formattazione. Vi chiedo di portare pazienza; i capitoli verranno ricopiati e la storia procederà con lo sviluppo ideato precedentmente. scusate per il disagio.)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eva era letteralmente scappata da lì. Reid non riusciva a capire: avevano appena arrestato un killer potenziale, con una vittima in auto e lei non voleva assistere all’interrogatorio? Assurdo. In fondo, quello era il suo primo caso; era stato anche merito suo se erano arrivati ad un arresto.
Quando vide che si stava dirigendo verso i bagni, capì. Il suo istinto si accese come un allarme; non aveva mai fatto affidamento su quello che gli diceva il cuore, ma aveva sempre e solo ascoltato il cervello. Forse era ora di smetterla, visto che non tutte le sue scelte si erano rivelate esatte.
Per questo non ebbe nessuna esitazione nell’aprire la porta del bagno femminile e di non sentirsi fuori luogo nemmeno per un istante: aveva notato che Eva non stava bene ed era deciso a capire perché.
Come temeva, aveva terribilmente ragione. La ragazza era chinata sul water e stava vomitando.
-Eva! – esclamò. Chiuse a chiave la porta dietro di sé. Non voleva turbarla ancora di più.
Lei tossì, e cercò di voltarsi. Sussurrò il suo nome, ma fu scossa da un altro conato, che la costrinse a piegarsi ancora, con un singulto.
In un attimo di lucidità, agguantò un asciugamano pulito e si precipitò da lei: si inginocchiò al suo fianco e si permise di metterle una mano sulla schiena.
Lei stava cercando di riprendere fiato, spostandosi i capelli dietro le orecchie e pulendosi gli occhi lacrimanti con le dita, cercando di recuperare un contegno. Boccheggiò e dovette chinarsi sulla tazza ancora una volta, ma dopo il suo stomaco sembrò calmarsi, e lei tenne la testa abbassata per qualche altro secondo, come per capire se era il caso di rimettersi in piedi oppure continuare ad essere prudenti. Optò per la prima ipotesi.
-Grazie – gracchiò, accettando l’asciugamano che il ragazzo le porse.
-S…stai bene? – domandò lui.
Eva, il viso arrossato e gli occhi lucidi, lo guardò con un sopracciglio sollevato. Sospirò. –No, non esattamente.
Da anni aveva imparato ormai che il concetto di Reid di “salute” non poteva essere reso evidente se non dopo la domanda di rito. Anche con un proiettile nello stomaco, se si avesse risposto che era tutto ok, il ragazzo si sarebbe sentito rincuorato.
Con uno sbuffo sconsolato rivolto principalmente a sé stessa, si appoggiò alla parete piastrellata, portandosi le mani alle tempie dopo essersi asciugata la bocca.
-Mi sento uno schifo – ammise.
Il ragazzo non ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. –Anch’io.
-Davvero? – chiese.
-Sì…non mento su certe cose.
Eva sorrise, piano. –Lo so, ti conosco.
Si accorse solo dopo dell’amarezza che pervase quella semplice frase: in fondo era vero, lo conosceva, ma non poteva sapere tutto quello che era avvenuto dopo i suoi sedici anni d’età, e ora ne avevano quasi trenta! Il che significava che poteva essersi trasformato in qualcuno di completamente diverso dallo Spence che ricordava, lasciandola di nuovo sola e sperduta in mezzo a visi sconosciuti.
-Ti…ti va di parlarne? – provò a chiedere Reid, timidamente. Aveva quasi paura della risposta.
La verità era che si sentiva in colpa, terribilmente in colpa. In fondo, era stato lui ad abbandonarla al proprio destino, senza neppure interessarsi di come stesse, di dove si trovasse o cosa facesse. Se ora stava male, lui non aveva nessun diritto di chiederle nemmeno come stava, visto che non si era fatto vivo proprio quando ne aveva bisogno.
Nel frattempo, lei aveva distolto lo sguardo. Sembrava stanca, pallida e provata. Quella mattina l’aveva vista decisamente più in forma, ma ora la bocca piegava all’ingiù e i suoi occhi erano nostalgici e arrossati.
Dalla posa sembrava essersi chiusa a riccio. Evidentemente, non aveva intenzione di dire nulla.
-È una storia davvero…complicata – spiegò. –E non so nemmeno se ne valga la pena ricordarla.
-Come…come vuoi – mormorò il ragazzo. Anche se era perfettamente consapevole di quanto fosse sciocco preoccuparsi di simili cose, si sentì comunque vagamente deluso dal fatto che lei avesse smesso di confidarsi con lui.
Eva, dal canto suo, sentiva come una sorta di blocco fisico all’altezza della gola, come un nodo o una fascia di stoffa. Durante la sua vita aveva imparato a tenere a freno la lingua e a non far trapelare nulla, di sé, tanto che alla fine si era accorta di quanto poco rimanesse della sua vera essenza. Non se la sentiva di dare una svolta confidenziale al loro rapporto tutto d’un fiato, perché prima aveva bisogno di capire cosa davvero era rimasto dai tempi del college. Tuttavia non escludeva un’amicizia, magari meno intensa, in futuro.
Tossì ancora, temendo di dover vomitare di nuovo. Reid si drizzò a sedere con espressione preoccupata, ma lei gli fece cenno che era tutto a posto. Non credeva che un semplice sculettare avrebbe portato una così vivida serie di ricordi.
-Sai – esordì il ragazzo, schiarendosi la voce, - prima ho parlato con JJ. Dice che sembri una brava agente.
-Oh… - rispose, sinceramente sorpresa. –Ne sono lusingata…non è facile ricevere complimenti durante il primo giorno di lavoro.
-Si domanda dove tu possa aver studiato – sussurrò lui, guardando a terra. Sembrava smarrito, e indifeso. –Se lo domandano tutti.
“Tranne Hotch”, pensò amaramente la ragazza, ma non disse niente. Non aveva senso farlo sentire ancora più solo di quello che era in realtà, sarebbe stato crudele da parte sua. Decise di tacere, evitando di fissarlo direttamente negli occhi.
-Meno ne sai, meglio è, Spence – lo ammonì, con voce stanca. Aveva usato il vecchio nomignolo quasi incosciamente, perché nonostante tutto lui era ancora una delle poche figure amichevoli della sua vita, e il suo ricordo non era mai realmente sbiadito del tutto.
In fondo, non poteva fargli una colpa della lontananza che era intercorsa fra loro. Insomma, fra università, una madre complicata da gestire e chissà cos’altro, lei avrebbe dovuto aspettarsi di passare in secondo piano. Se era stato così difficile da accettare, era solo perché lui era importante per Eva, ma a quanto pareva la stessa cosa non valeva per entrambi.
Il solo pensiero di essere stata sacrificabile per altri scopi l’aveva fatta vacillare più di ogni altro sopruso. Perché se gli altri avevano usato la carne per farle del male, lui aveva utilizzato l’amore.
-D’accordo…i…io non volevo – farfugliò.
Con un sospiro, Eva lo interruppe: -Ho frequentato le scuole in Italia. Sono tornata in America prima di finire la specializzazione; negli USA ho seguito un corso serale per cercare di dare un senso agli studi interrotti, ma non ho avuto il tempo di portare a termine nemmeno quello.
-E tutto questo per quasi vent’anni? – chiese, con un velato e triste sorriso.
La giovane scosse la testa. –No. Ma questa è l’unica cosa che non fa male raccontare.
Questa frase fece molto più male di una verità completa ed esaustiva, perché comunque aveva lasciato intendere quanto dura e cruda fosse stata la sua vita e, a causa della mancanza di dettagli, la mente di Reid aveva subito preso a galoppare a briglia sciolta.
In poche parole, tutto ciò che aveva dovuto subire poteva riassumersi in questo: un passato che è preferibile obliare completamente, il quale è così abominevole da non essere degno di un giusto ricordo, e l’unica consolazione era giunta dalla sezione di cadaveri putrefatti.
Il dottore deglutì. Aveva capito una minima parte di quello che lei aveva lasciato intendere, ma di certo non poteva sapere che anche solo qualsiasi deduzione non poteva che essere un pallido e fioco spettro di ciò che Eva aveva davvero dovuto sopportare.
-Sai… - disse la ragazza, ad un certo punto, -… non sono sicura di voler rimanere nella squadra.
Il dottore strabuzzò gli occhi, senza capire: -Perché?
Eva alzò le spalle in segno di noncuranza, come a lasciar capire che era un dettaglio da nulla, ma non lo guardò negli occhi nemmeno una volta.
-Mah, semplicemente non credo di essere tagliata per questo lavoro – ammise. –È troppo duro, per me. Sempre a caccia di assassini, sempre in calo di amore, di riposo, di pace….ho bisogno di una vita tranquilla, di potermene stare per conto mio quando ne ho bisogno, di riuscire anche solo per un momento a… - si interruppe, per cercare le parole giuste, - … a staccare.
Spencer rimase in silenzio. L’afflizione cominciò subito a farsi strada in lui: se davvero Eva avesse deciso di andarsene dal suo nuovo lavoro, per altro conquistato con molta fatica, allora avrebbe significato che il debole e fragile contatto appena recuperato si sarebbe spezzato di nuovo.
Reid aveva avuto prova di cosa la lontananza potesse fare a loro due; era stato devastante poterla rivedere dopo tutti quegli anni e non poter nemmeno parlarle, esprimerle quanto gli fosse mancata a causa della propria stupidità. Si sentì quasi spezzare a metà per il senso di incompletezza. Aveva quasi raggiunto il proprio obiettivo e ora ecco che tutto gli sfuggiva via dalle mani, un’ennesima volta.
-Capisco cosa intendi dire – mormorò, abbassando la testa.
Vedendolo così rattristato, Eva si intenerì: -Su, non fare quella faccia! Me ne vado dalla squadra, è vero, ma non c’è ancora nulla di deciso. Può darsi che alla fine di questo caso io cambi idea, in fondo lavoro qui da due soli giorni!
-Sembra passata un’eternità – osservò Spencer, sempre a capo chino.
-In effetti è così – concordò Eva, dolcemente, - ma comunque vadano le cose, sappi che non mi allontanerò poi molto. All’inizio, la Strauss mi fece scegliere fra due opzioni: la squadra di profiler più rinomata al mondo, oppure un grigio obitorio di periferia. Posso sempre chiederle se la seconda è ancora valida.
Ci fu un istante di silenzio, durante il quale la ragazza recuperò un po’ di colore sulle guance. Si sentì un po’ meglio, anche grazie al piccolo riavvicinamento avuto con il suo vecchio amico. Le era mancato tantissimo durante la loro separazione, e in cuor suo aveva sperato davvero di riuscire a mettere da parte l’orgoglio.
-Allora… - disse, incerto, - … se vuoi andartene non è colpa mia, vero?
Eva lo guardò per una frazione di secondo, intensamente. Poi scoppiò a ridere.
-Oddio, Spence, certo che hai proprio un masochismo contorto! – esclamò, improvvisamente divertita. Lui arrossì.
Non vedendolo ancora del tutto convinto e ben poco partecipante alla sua ilarità, Eva decise di giocarsi l’ultima carta: -Prendi un foglio e una penna, se non mi credi; ti darò il mio indirizzo, stai tranquillo.
-Non serve scriverlo, me lo ricordo – puntualizzò il ragazzo, raddrizzandosi, - perché io ho un…
- …a memoria eidetica – concluse Eva. –Lo so, lo so.
Questo non contribuì di certo a far tornare il ragazzo di un colorito normale, tuttavia lo fece sentire a casa. Come al solito, con Eva si sentiva al sicuro, a proprio agio, e non aveva minimamente bisogno di trattenersi o fingere; con lei poteva essere sé stesso, fino alla fine.
La ragazza, appoggiandosi meglio al muro, pronunciò l’indirizzo, premurandosi di specificare il palazzo e il numero civico. Spencer fece una smorfia, che si trasformò in una sincera sopresa.
-Hey, ma è lo stesso posto dove abito io! – esclamò.
Eva lo fissò. –Cosa?
Il ragazzo ripetè la via per filo e per segno, con tanto di breve spiegazione di come arrivarci giusto per essere matematicamente sicuro di non essersi sbagliato, cosa per altro impossibile, e dovettero entrambi concordare che stavano parlando dello stesso posto. Ad un tratto, gli occhi di lei si illuminarono di comprensione.
-Ah, ma allora eri tu il ragazzo schivo, timido e un po’ gay descritto dalla signora Portland!
Spencer storse il naso, ma decise non dire niente. Dunque era così che quella signora un po’ strana lo vedeva?
-Caspita – commentò la ragazza, - è incredibile. Pensavo di essere l’unica disperata ad aver bisogno di un appartamento così. Come mai hai scelto un posto del genere?
La domanda era così pregna di sincero interesse che il giovane non poté fare a meno di domandarsi cosa ci fosse di strano in quel condominio. Certo, i prezzi degli affitti erano molto bassi per un motivo specifico, e come zona residenziale non era un granchè, però vivendo nello stesso piano di un idraulico non aveva difficoltà a farsi otturare tutte le perdite che gocciolavano dal soffitto, né nel sistemare il lavandino che aveva sempre qualche bullone fuori posto.
Ovviamente non si trattava di una struttura particolarmente chic, ma era molto vicina alla stazione della metro e anche al centro, in modo da garantire una certa comodità negli spostamenti. Come se non bastasse, il suo ristorante indiano preferito era giusto dietro l’angolo, in modo che nelle serate di ritorno da un caso difficile non doveva nemmeno fare la fatica di mettersi in macchina per un pasto caldo degno di questo nome.
Spencer stava per accingersi a spiegare questa serie di ottimi motivi alla ragazza, ma venne interrotto con un gesto di mano. Eva si era messa in ascolto, drizzandosi a sedere in modo composto. Poco dopo, un discreto bussare alla porta annunciò la voce di JJ:
-Eva? Tutto bene? – chiese discretamente.
-Ehm… certo – rispose la ragazza, lanciando un’occhiata incerta a Reid. –Adesso esco, non preoccuparti.
-D…d’accordo – continuò la donna. –Hotch vuole che tu faccia l’interrogatorio con lui.
La nuova agente deglutì. –Splendido. Mi do una rinfrescata e sono da voi.
-Ok… - disse JJ, incerta. Poi sentirono il rumore dei suoi passi percorrere il corridoio a ritroso.
Tornata la calma, la ragazza si ricompose con estrema velocità: si alzò in piedi, sistemò i capelli in una coda alta e si rinfrescò brevemente, asciugandosi il viso con rapidi gesti.
-Sarà meglio che esca prima io – commentò, - e che tu aspetti cinque minuti. Sai com’è, non tutti potrebbero capire la tua presenza nel bagno delle donne.
Spencer balbettò qualcosa in risposta, magari l’embrione di un’affermazione, ma la ragazza era già uscita. Alzandosi di scatto, si assicurò che la porta restasse ben chiusa per almeno cinque minuti: dovette concordare con la collega, infatti, sul fatto che la sua presenza lì era decisamente fuori dal comune.
 
*
 
Hotch sembrava davvero seccato. Stava parlando al telefono quando Eva tornò nella stanza, e chiuse la comunicazione non appena la vide arrivare.
La ragazza, non abituata a gestire gli umori del capo squadra, cercò aiuto con lo sguardo verso Rossi, ovvero colui che le sembrava il più abile nel placare Hotch, tuttavia l’uomo la contraccambiò solo con un’occhiata curiosa e, forse, diffidente. La stavano analizzando, tutti. Guardandosi intorno, si rese conto di essere sotto esame.
Per un attimo fu presa dal panico, poiché il pensiero che qualcuno avesse potuto spifferare anche solo parte di ciò che aveva dovuto subire le faceva venire la nausea, ma si costrinse a restare eretta e fiera in mezzo a loro, per cercare di capire cosa diavolo stesse succedendo.
-Eva – disse Hotch, severamente, - una prostituta minorenne e incinta chiede di te.
Sollevò un sopracciglio, con una pausa ad effetto. –Come lo spieghi?
L’agente spalancò gli occhi, allibita. –Cosa? – balbettò.
Il capo si scambiò una breve occhiata con Morgan, prima di tornare a concentrarsi su di lei.
-Ammetti di non saperne niente?
La ragazza scosse la testa, stavolta con una certa amarezza. –Al contrario…ne so fin troppo.
Alzò lo sguardo e lo puntò dritto negli occhi di Hotch: -E lei dovrebbe saperlo. Fa tutto parte di quello che sa su di me, signore.
I due si squadrarono per qualche secondo che parve infinito. Ovviamente un possibile coinvolgimento in un caso di omicidio plurimo, con aggravante di rapimento e vilipendio di cadavere assieme ad una buona dose di guai con la buoncostume, la stessa che aveva precedentemente trattato il suo caso, non poteva certo far brillare la sua carriera appena iniziata all’FBI, e in quella stanza ognuno ne era cosciente.
D’altra parte, l’oscurità sul passato della nuova agente aveva destato parecchio stupore, visto che aveva cominciato a lavorare per l’unità solo il giorno prima.
Un sospiro impercettibile scappò dalle labbra severe di Hotch, ma la sua espressione non mutò di una virgola. Con tono stanco, le disse, spostandosi leggermente: - Lì c’è una ragazza che si fa chiamare “Kimberly”. È lei che sostiene di conoscerti.
Eva sbirciò nella direzione dove il braccio di Hotch puntava, e scorse un’adolescente sprofondata scompostamente su una sedia nella stanza grigia degli interrogatori. La prima cosa a colpirla fu il disordine e la trasendatezza del suo aspetto: i capelli ricci, crespi e rossicci formavano una nuvola che le cadeva sulle spalle magre, mentre la pelle pallida e lentigginosa era a stento coperta da degli abiti parecchio succinti ricoperti di lustrini cremisi. Il ventre visibilmente arrotondato lasciava indovinare un’avanzata gravidanza mentre, disposti in file nutrite, braccialetti, collanine, pendagli, cavigliere e sonagli penzolavano inerti e silenziosi dai suoi polsi, o dal collo magro, o dalle caviglie che spuntavano dalle scarpe esageratamente alte.
C’era qualcosa nell’espressione annoiata della cosidetta “Kimberly” che destò il suo interesse. I tratti erano dolci, molto femminili e incrostati di trucco vecchio di giorni. A causa delle lacrime da poco versate, rigagnoli di mascara colato le imbrattavano le guance magre, e gli occhi vacui stavano fissando lo smalto mangiucchiato delle unghie.
Stranamente, si ricordò di lei grazie alla borsetta: era la stessa, o almeno una dolorosamente simile, che portava la prima volta che l’aveva vista.
Eva strabuzzò gli occhi, ma decise di mantenere un contegno. Ogni singolo agente lì presente stava aspettando, palpitante, una sua reazione.
-Si chiama Tracy – disse, senza nessun’ombra di incertezza, - Tracy Chamberlain.
-Sentito, Gracia? – sussurrò discretamente Emily, sollevando davanti alla bocca un cellulare acceso. Un mormorio metallico rispose alla domanda, prima che la donna rimettesse via l’apparecchio. La ragazza non si era nemmeno accorta, nel frattempo, che la donna ce l’avesse sempre avuto in mano.
-Ho bisogno di chiarimenti in merito alle origini della vostra conoscenza – disse Hotch, abbastanza severamente. –Anche in privato – aggiunse poi.
Eva non rispose. Rivedere quella ragazza dopo così tanto tempo, e scoprirla viva nonostante tutto, la fece sentire strana; da un lato sollevata, poiché le si era affezionata, mentre dall’altro terrorizzata. Faceva pur sempre parte di un periodo che stava cercando di dimenticare.
-Devo parlarle, prima – sussurrò l’agente, fissando il vetro.
In quell’esatto momento, notò che la porta dietro di lei si era aperta e che vi era comparso Reid, che si schiarì immediatamente la voce con un moto di imbarazzo. Nessuno fece caso a lui e, notando tutte quelle facce serie, si mise in un angolo con un mortale pallore, prima di fissare insistentemente la schiena dell’amica che aveva appena recuperato.
Ci fu un attimo di indeciso silenzio, poi Hotch diede la sua opinione: -Non più di dieci minuti con Morgan come assistenza.
-Non puoi senza sapere cos’è successo, Hotch! – ribattè l’interessato.
Il capo lo placò con un gesto della mano, parlando abbassando la voce di un tono: -Lo so, Morgan, lo so.
A quest’affermazione, l’agente di colore si bloccò. Strinse gli occhi a fessura, ma non disse niente. Rossi fissò il collega di un tempo negli occhi, come per voler capire cosa quella frase realmente significasse, ma Hotch si ritrasse, voltandosi verso la stanza. La ragazza, immobile, stava ancora guardando le proprie mani.
-D’accordo – cedette Derek, sotto voce. Un istante dopo, Eva era già uscita dalla porta per fare il suo ingresso nella stanza attigua, con il cuore a mille.
Sentendo un movimento alle proprie spalle, Tracy si voltò immediatamente, come se fosse stata punta; non sembrò realizzare subito cosa vide, ma non appena riconobbe la figura che aveva espressamente chiesto di vedere, sorrise leggermente, con una malcelata soddisfazione.
-Lo sapevo – disse, a mo’ di benvenuto, - sapevo che saresti sopravvissuta, Eva.
  
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