CAPITOLO 8
Era il caso di parlarne e di trovare una soluzione.
Parlare faccia a faccia, senza pressioni esterne.
Parlare senza altri interlocutori che non fossero
stati loro quattro.
Fu per questo motivo che Georg chiamò insistentemente
Tom, Gustav e Bill per tre giorni consecutivi, nell’attesa che loro
rispondessero.
La maggior parte delle chiamate andava a vuoto,
senza risposta.
La rimanenza si perdeva nella voce gentile ed
ipocrita dell’operatrice telefonica, la quale lo informava che il numero
chiamato non era raggiungibile perchè spento, oppure occupato in un’altra
conversazione.
Ma non doveva demordere.
Una volta per ogni ora, prendeva il suo cellulare e
ricomponeva i soliti tre numeri.
Di nuovo ed ancora un’altra volta.
Gustav fu il primo a rispondere dei tre, il quarto
giorno, verso le sette di sera.
“Ti ho risposto solo perchè così la smetti di
chiamarmi ancora.”, disse, appena la linea fu stabilita.
“Ehm… Gustav, come va?”, esordì Georg, indeciso su
come dovesse affrontare la questione.
“Come se ti interessasse veramente… cosa vuoi?”
Meglio rimanere calmi e pacifici.
“Vengo subito al punto… vorrei parlare con tutti
voi. Seriamente.”
“Seriamente esclude in automatico di dare del
figlio di puttana in faccia alle persone.”, tuonò Gustav.
"Sì…”, fece Georg, incassando il colpo successivo,
“Ma qua a casa mia, senza nessun altro che noi.”
“Gli altri due?”, chiese Gustav.
“Non hanno ancora risposto.”
“E non lo faranno.”
“Prima o poi si decideranno ad accettare le mie
chiamate, a meno che non vogliano stare a sentire il loro telefono squillare ininterrottamente.”,
disse Georg.
L’altro rimase qualche istante in silenzio.
“Perchè lo stai facendo Georg? Perchè ti stiamo
tanto a cuore, quando invece ti sei rivolto a noi offendendoci in quel modo?”,
gli domandò Gustav.
“Perchè mi voglio scusare… e voglio parlare con
voi.”, fece Georg, che non riusciva più a trattenersi, istigato
dall’atteggiamento rissoso dell’altro, “Quindi, se ti va bene, domani sera a
casa mia, verso le sei.”
“Ok, ok… .”, disse Gustav, e chiuse la
chiamata.
***
Decise di presentarsi alla porta di casa loro. O
faceva in quel modo, oppure non avrebbe mai più sentito la loro voce.
“Cosa ti fa credere che voglia aprirti…”, sentì
sibilare la voce di Bill, al di là del grande portone blindato che chiudeva
l’accesso all’attico dove lui e suo fratello vivevano. Non aveva aperto
all’ormai ex amico, ma lo stava sicuramente osservando dal piccolo schermo di
sorveglianza: la sua immagine veniva costantemente catturata dallo
spioncino-telecamera che stava affisso sulla porta.
“Perchè posso accamparmi qua fuori anche tutta la
notte. E perchè prima o poi voi dovrete uscire fuori di casa.”, rispose Georg,
prontamente.
“E se chiamassi la polizia?”, azzardò Bill.
“Non lo faresti.”
“Come fai ad esserne tanto sicuro?”
“Perchè ancora nessuno di noi si è pronunciato sul
nostro scioglimento. E nessuno di noi sembra intenzionato a farlo. Quindi
perchè renderlo ufficiale facendomi arrestare mentre tampino la vostra porta di
casa, nel vano tentativo di riconciliazione che mi sto sforzando di mettere in
piedi?”, disse Georg, sicuro che la sua risposta sarebbe stata di chiaro
effetto.
L’altro, infatti, se ne rimase silenzioso.
“Se vi interessa provare a riallacciare i nostri
rapporti,”, gli fece, “venite a casa mia. Domani sera, verso le sei.”
“Abbiamo da fare.”, disse Bill, seccamente.
“E quando è che sarete liberi? Mai?”, fece Georg,
toccandosi stancamente le tempie.
“Sì.”
“Come non detto. Domani sera vi aspetterò. Se non
verrete, significa che non ve ne frega un cazzo di quasi dieci anni passati a
suonare insieme, in giro per il mondo.”
Dette quelle semplici parole, Georg tornò verso
l’ascensore, e lasciò che tutti prendessero le proprie decisioni.
***
Seduto sul divano.
Gambe distese, piedi incrociati.
Mani congiunte sul ventre.
Un leggero ticchettio del ginocchio sinistro.
Attendeva che qualcuno si presentasse alla sua
porta. Impaziente.
Erano le sei e mezza ed ancora nessuno si era fatto
vedere. Ma il ritardo era tipico di tutti loro, quindi non doveva farci caso.
Scacciò via un lieve prurito sul suo naso, ricordandosi
che non era sicuramente di buon auspicio.
Qualcuno avrebbe suonato il suo campanello, bussato
alla sua porta?
Anche uno solo di loro. Uno su tre.
Non doveva desistere, no, doveva sperare fino in
fondo che tutto sarebbe andato per il meglio.
Se ne convinse.
Deciso, si alzò, incrociò le braccia e prese a
passeggiare nervosamente per il suo soggiorno.
Ininterrotto, continuò a farlo per diversi minuti,
finchè il suono metallico del suo campanello lo risvegliò dal torpore agitato.
Andò alla porta.
Aveva sperato in uno solo di essi. Magari Gustav. I
due Kaulitz non si sarebbero mossi l’uno senza l’altro.
Ed invece erano lì, tutti e tre, davanti alla porta
di casa sua.
“Entrate, prego.”, fece Georg, discostandosi per
farli passare.
In fila indiana, silenziosi, sospettosi, andarono a
sedersi sul suo divano.
“Volete qualcosa da bere?”, chiese Georg, ancora in
piedi.
Gli altri scossero la testa e Georg si accomodò.
Avrebbe voluto iniziare subito il discorso, ma notò
dalle loro facce che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa in più al resto.
Bill se ne stava a testa bassa, con le braccia
conserte sul petto.
Tom, accanto a lui, preferiva spostare lo sguardo
altrove, piuttosto che sugli altri.
Gustav, a gambe incrociate, era l’unico che
attendeva un segnale, una parola, un gesto da Georg, guardandolo dritto negli
occhi.
“Allora…”, si fece coraggio Georg, “Vorrei prima di
tutto iniziare con…”
Gustav si mosse, sembrava volersi accomodare
meglio, ma invece non fece altro che sbottonare la giacca che indossava, infilare
una mano dentro di essa e tirarne fuori qualcosa, che finì ben presto sul vetro
del tavolino davanti a lui.
“Cos’è?”, fece Georg, prendendo quel giornale.
Guardò la copertina.
Non appena i suoi occhi caddero su una parola a lui
conosciutissima, il suo nome, stampato a caratteri quasi cubitali a fondo
pagina, si sentì mancare il fiato.
‘In esclusiva: Georg Listing! Cade il silenzio
sui Tokio. E cadono anche i Tokio.’
Sgranò il occhi.
Freneticamente, sfogliò tutto il giornale, sotto
l’occhio vigile degli altri.
Ma fu inutile leggere, già sapeva che cosa avrebbe
trovato scritto.
E soprattutto, sapeva chi l’aveva scritto. Helen,
quella era la rivista di moda per cui lavorava.
Prese il giornale e lo scaraventò a terra.
“Mi aveva promesso che non avrebbe detto una
parola. Non una parola!”, esclamò Georg, iniziando ad animarsi.
I due Kauliz, dal loro canto, non risposero in
alcun modo.
Gustav, invece, raccolse la rivista e, ad alta
voce, lesse qualche passo.
‘Fonti vicine alla nostra rivista e totalmente attendibili,
continuavano a riportarci da almeno un paio di mesi che il gruppo non era più
unito come una volta. Litigi, invide e gelosie si sono infiltrate infidamente
nel loro rapporto, minandolo dalle fondamenta…’
“Basta, per favore…”, disse Georg.
“Aspetta! Ancora il passo meglio deve arrivare:”,
riprese a leggere Gustav, “Per quello che mi riguarda, i Tokio Hotel non
esistono più. Sono queste le prime parole che sono uscite dalla bocca di Georg,
quando gli è stato chiesto del destino del suo gruppo.”
“Non l’ho mai detto!”, si difese Georg, “Io non le
ho mai dette queste cose!”
“Georg…”, fece Bill, guardandolo di sbieco, “Almeno
ti hanno pagato bene per questa intervista?”
“Cosa?”, esclamò il ragazzo, “Non ho mai concesso
nessuna intervista su di noi! E’ stata Helen, mi ha raggirato e mi ha sfruttato
per pubblicare un’esclusiva!”
“Certo che sei proprio un’idiota!”, esclamò Tom,
“Lo sapevi che lavorava per un giornale! Cosa ti costava non parlarle del
nostro lavoro!”
“Lei mi ha sempre promesso che non avrebbe mai
fatto parola di quello che le dicevo! E io mi sono fidato!”, gli rispose Georg,
che si sentiva il sangue ribollire nelle vene.
“Ma cosa ti passava nel cervello Georg!”, fece
Gustav, “Da quando in qua i giornalisti sono delle pie anime che tengono i segreti
che vengono confidati loro?”
“Proprio non conosci la prudenza, Georg.”, disse
Bill, scuotendo la testa.
“Credete che lo abbia fatto apposta vero?”, disse
l’accusato, alzandosi in piedi, “Credete che non abbia mai pensato che Helen
stesse insieme a me per trarne un profitto? Sì, l’ho pensato, anche più di una
volta. Ma mi fidavo di lei. E mi dispiace essermi sbagliato sul suo conto!”
Riprese fiato, cercò di non esplodere in un attacco
d’ira e tornò a parlare.
“Ho taciuto le cose più importanti. Non sono nato
ieri! E sono convinto che tutto quello che avete letto, dalla prima all’ultima
parola, sia stato completamente inventato… Non le parlavo dei nostri litigi, anche
se sapeva che accadevano. Non le ho mai detto che ci siamo divisi, perchè
nessuno si è mai pronunciato su questo fronte.”
“Georg, per favore!”, disse Tom, alzandosi,
“Smettila con queste cazzate! Io l’ho sempre saputo che lei stava con te per
convenienza, per trovare uno scoop su di noi… ma non te ne ho mai parlato
perchè sei sempre stato mio amico, e non era mio compito intromettermi nella
vostra relazione…”
“Perchè non lo hai fatto!”, si animò Georg.
“Perchè pensavo avessi il buon senso di mandarla a
fanculo in poco tempo. Ma a quanto leggo Helen era una specie di confessionale
per te!”
“Te lo ripeto! Quello che c’è scritto in quelle due
pagine sono solo stronzate! Lei sapeva pochissimo di quello che succedeva tra
di noi!”, gli ripetè Georg.
“Fatto sta che oggi siamo in prima pagina su questa
rivista… e si sta scatenando l’inferno nelle altre redazioni, su internet e in
televisione.”, disse Gustav, sventolando il giornale, prima di gettarlo a terra.
“Perchè allora non facciamo una conferenza
stampa!”, propose Georg, “Smentirò tutto quello che c’è scritto sulla rivista,
farò una denuncia e la cosa si sistema!”
Gli altri tre si guardarono.
Tom sospirò.
Bill scosse la testa.
“Vogliamo buttare nel cesso tutto quello che
abbiamo fatto insieme?”, disse Georg, che aveva trovato il momento giusto per
iniziare con il discorso che si era studiato a fondo, prima che loro
arrivassero.
“Non vogliamo provare a rimettere insieme i
pezzi?”, fece, cercando il loro sguardo, che invece sfuggiva via.
“Era il nostro sogno. Diventare famosi e suonare
insieme per sempre. Per sempre… o almeno finchè saremmo stati in grado di
mantenere le nostre dentiere attaccate in bocca.”, disse, facendosi scappare un
lieve sorriso, che poi subito scomparve, “E’ per questa nostra promessa che
dovremmo continuare a stare insieme, uniti come un gruppo. Uniti come i Tokio
Hotel. Dobbiamo dimenticare le difficoltà, gli ostacoli che ci hanno fatto
cadere. Dobbiamo alzarci di nuovo, lottare per riprendere il posto che ci
spetta…”
“Ma quante belle parole... Perché non ti butti in
politica?”, sibilò Tom.
“Non siamo finiti, ragazzi.”, riprese Georg,
ignorandolo, “Non saremo finiti finchè siamo noi a non volerlo essere. Lo so
che ci siamo detti cose troppo grandi da dimenticare… ma dobbiamo farlo. IO
sono disposto a farlo perchè ancora credo nel nostro sogno, nella nostra
promessa. E voi?”
Ecco, aveva finito, aveva terminato.
Il respiro si era fatto pesante.
Attendeva una risposta.
“Io non ci riesco.”, disse Bill, alzandosi ed
andando verso la porta, seguito da Tom.
“E a me non interessa farlo.”, disse Gustav, “E’
stato bello finchè è durato. Non siamo più i soliti, Georg, siamo cresciuti. Il
successo ci ha cambiato ed i Tokio Hotel non sono stati altro che un fenomeno
passeggero, per ragazzine. Adesso è il momento di voltare pagina e di farsene
una ragione. Io ho già trovato un nuovo scopo… o un nuovo sogno da seguire,
come vuoi chiamarlo tu.”
E se ne andò.
Fine.
Era la fine.
Lui ci aveva provato, fino in fondo.
Ma aveva fallito, totalmente.
***
Prese la vecchia maniglia scolorita, lievemente
arrugginita, e la spinse in basso.
La porta non si aprì, era chiusa. Per la prima
volta, la vecchia libreria del signor
Metternich e della nipote Mondenkind era chiusa.
Avvicinò gli occhi al vetro opaco, cercando di
vedere se qualcuno fosse al suo interno. Gli parve di intravedere qualcosa
muoversi, nella penombra, e unì le mani intorno agli occhi, per vedere meglio.
C’era qualcuno, ma non sentiva nessun rumore
provenire dall’interno. Bussò alla porta ed iniziò a chiamare il nome della sua
amica Mondenkind. Vide la figura muoversi ancora nel buio.
“Mondenkind! Sei tu? Ti devo parlare!”, disse,
continuando a bussare sul legno della porta.
L’ombra sembrò avvicinarsi alla porta.
Sentì il clack stanco della serratura.
Georg afferrò di nuovo la maniglia ed aprì la
porta, entrando timoroso dentro alla libreria, totalmente buia.
“Mondenkind…”, disse Georg.
Le luci basse si accesero, facendolo sobbalzare.
“Cosa vuoi, giovanotto screanzato! Siamo chiusi!”,
sbottò improvvisamente il signor Metternich, alle sue spalle.
Georg si voltò non appena il cuore ebbe preso a calmarsi.
“Mi dispiace, signore ma… c’è per caso
Mondenkind?”, chiese al vecchietto.
Piccolo e grassoccio, chiuso nel suo cappotto
consunto, sembrava impaziente di liberarsi del suo scocciatore.
“No! Non c’è! E lasciala in pace!”, disse.
A passi veloci ritornò verso la porta del suo
negozio e lo esortò, facendogli gesti poco amichevoli, ad andarsene.
“Volevo solo parlare con lei…”, si spiegò Georg.
“Non c’è! Ed io devo andarmene!”
“E dove posso trovarla?”, chiese Georg, “Devo
parlarle… è urgente…”
“Anche io ho urgenza!”, urlò il vecchietto, con
voce stridula e pungente, “E comunque non è in condizione di vederti!”
Georg si preoccupò nel sentire quelle parole.
Mondenkind ultimamente non si era sentita affatto bene… e se il suo stato di
salute si fosse aggravato? Se fosse peggiorato improvvisamente?
“Mondenkind sta bene?”, domandò a suo nonno, che
era sempre più ansioso di scacciarlo via, “E’ di sopra? Posso fare qualcosa per
voi?”
“Puoi lasciarci in pace?”, sbraitò il vecchietto,
gesticolando vistosamente, “Se mi fai ritardare ancora di un minuto, mancherò
il numero tre! E devo ancora acquistare il biglietto!”
Numero tre, biglietto… L’autobus numero tre era quello
che portava all’ospedale.
“E’ all’ospedale!”, esclamò Georg, “Che cosa le è
successo?”
“Giovanotto!”, esclamò il signor Metternich, “Mi
sta facendo perdere l’ultimo briciolo della mia pazienza!”
“Ce la porto io all’ospedale, signore. In meno di
cinque minuti saremo lì e lei non dovrà pagare nessun biglietto.”, gli fece,
aspettandosi una reazione tutt’altro che positiva.
Inaspettatamente, il nonnetto sbuffò ed accettò,
non senza una vistosa espressione riluttante sulla sua faccia.
Durante il tragitto, lo rimproverò di premere
troppo sull’accelleratore, di non guardare mai negli specchietti, di non dare mai
la precedenza ai pedoni e così via, finchè non scese, ricordandogli di quanto
era stato spiacevole il suo modo di guidare.
Dopo che, all’accettazione, venne detto loro in
quale camera si trovasse Mondenkind, scoppiò l’ennesimo battibecco.
“Brutto ignorante!”, esclamò Metternich, mentre
raggiungevano l’ascensore, “E’ mia nipote! Vattene!”
“Ed è anche mia amica e sono preoccupato per lei!”,
rispose Georg.
“Solo i parenti possono visitare gli ammalati!”,
contrattaccò il vecchietto, deciso a non demordere.
“Signori! Vi prego! Questo è un ospedale, non un
talk show!”, si ribellò un infermiere che passava di lì.
I duellanti riposero momentaneamente le armi,
guardandosi con segno di sfida. L’ascensore arrivò e li caricò, per portarli al
settimo piano.
Quasi come in una gara, i due si fronteggiavano
lungo il corridoio, finchè un dottore parò loro la strada, chiedendo quale
paziente stessero cercando.
“Mondenkind, mia nipote.”, disse prontamente
Metternich, prima che Georg potesse parlare.
“E lui chi è?”, fece il dottore, indicando con la
penna Georg.
“Sono suo cugino.”, disse il ragazzo, bruciando sul
tempo il vecchietto, che prese ad animarsi, incolpandolo di essere un bugiardo.
“Per cortesia!”, irruppe il dottore, “Seguitemi
oppure vi faccio buttare fuori dall’ospedale.”
La coppia litigiosa, in silenzio, camminava
appresso al dottore che, dopo una ventina di metri, si fermò davanti ad una
porta bianca, del tutto uguale a quelle a cui erano passati davanti in
precedenza.
“Ecco, questa è la sua camera. Avete un’ora per
stare con lei.”, disse il dottore, mentre apriva la porta.
Georg strinse un pugno, ribollendo di rabbia. Quel
vecchietto era veramente insopportabile, non avrebbe voluto mai incontrato. Quando
si accorse che il suo atteggiamento era del tutto fuori luogo agli occhi del
dottore, si calmò, abbozzando un sorriso per scusarsi.
“E’ veramente cugino della ragazza?”, gli chiese
l’uomo in camice bianco, che odorava di candeggina e disinfettante, così come
tutti gli ospedali della terra.
“Sì, lo sono davvero… è che nostro nonno è
arteriosclerorico… sa, non c’è più tanto con la testa…”, disse Georg, mentendo
spudoratamente.
Il dottore lo squadrò per l’ennesima volta da capo
a piedi, tolse da sotto il suo braccio la cartellina metallica, vi annotò sopra
qualcosa. Poi tornò a fissarlo, con le mani giunte, come se stesse attendendo
qualcosa da lui.
“Come sta Mondenkind?”, gli chiese Georg
comprendendo che, da buon parente, anche se finto, era la prima domanda che
avrebbe dovuto fare ad un dottore come lui.
“Sta… letteralmente, sta bene. Non ha niente. O
almeno, non ha niente che noi sappiamo riconoscere.”, disse il dottore, con
faccia quasi imbarazzata per quell’ammissione di ignoranza.
“Che cosa intende dire?”, fece Georg, che non
comprendeva.
“Non è facile da spiegare…”, disse il medico,
grattandosi la testa, “Le abbiamo fatto qualsiasi tipo di analisi, dalla più
superficiale a quella più approfondita. Tutto nella norma. Niente, sua cugina
sta bene.”
“E allora perchè è qua in ospedale?”, venne
spontaneamente da domandare a Georg.
“E’ in uno stato comatoso. Non risponde agli
stimoli… eppure pare che non ci sia una causa per questo. Respira
autonomamente, tutte le sue funzioni vitali sono a posto. Abbiamo provato anche
a…”
Il discorso del dottore fu interrotto da un bip-bip,
segno che il suo cerca persone era stato attivato da una chiamata in arrivo.
L’uomo gli dette un’occhiata e si scusò, aveva ricevuto un’emergenza e doveva scappare.
Passarono cinque, poi dieci, ed infine quindici
minuti, prima che il vecchietto uscisse dalla stanza della nipote, per
permettergli di visitarla. Stava quasi pensando che volesse farglielo apposta:
rimanere lì dentro dalla nipote fino alla scadenza dell’orario delle visite
solo per non fargliela vedere.
Poi ne uscì, con la faccia triste e pensierosa,
mentre tastava il suo cappotto nero sbiadito lungo tutte le tasche, in cerca di
qualcosa. Non lanciò nemmeno uno dei suoi sguardi corrucciati a Georg: un passo
dopo l’altro, immerso nelle sue elucubrazioni mentali, il vecchietto percorse
tutto il corridoio in silenzio.
Facendo spallucce, Georg entrò dentro la camera di
Mondenkind.
Lei se ne stava pacifica, distesa sul letto,
coperta fino al petto, con le mani che innaturalmente ferme stavano distese
lungo i suoi fianchi. Dai suoi polsi partivano dei lunghi tubicini per le
flebo, una pinzetta stava fissa sul suo indice sinistro.
L’aveva sempre vista con i capelli ammansiti in una
treccia lunga, appoggiata sulla sua spalla destra. In quel momento, però,
stavano liberi sul cuscino. Il bianco della federa impallidiva davanti al nero
lucido dei capelli di Mondenkind.
Gli occhi chiusi, il respiro regolare ed
impercettibile.
L’espressione assente.
La testa piegata lievemente di lato.
Una sedia anonima stava accostata al muro, vicino
al letto. La prese e vi si sedette a cavalcioni, incrociando le braccia ed
appoggiandole sullo schienale.
No, no e no!
Non poteva stare male senza un perchè. Doveva
esserci qualcosa per curarla, per farla tornare a sorridere, per farla tornare
alla sua libreria! Com’era che i dottori non avevano trovato una causa a questo
suo male? Perchè la medicina non sapeva spiegare che cosa avesse Mondenkind? Era
impossibile, tutte le malattie del mondo erano state scoperte, anche se alcune
di queste non avessero ancora una cura. Perchè Mondenkind doveva starsene su
quel letto senza un perchè?
Era terribilmente ingiusto. Trovava un’amica, una
persona che lo comprendeva, che sapeva metterlo per la giusta via quando stava
sbagliando… e la perdeva.
Beh, Mondenkind era sempre lì, davanti ai suoi
occhi. Ma era come priva di vita.
Pallida ed inerme, immobile.
“Mondenkind… mi senti?”, le fece, in cerca di una
risposta.
Ma lei non fece nemmeno un piccolo cenno con la
testa.
“Ovviamente non mi sentirai… ma ti parlerò lo
stesso.”, disse Georg, con amarezza.
Si immaginò che lei si sedesse sul bordo del letto,
con la sua camicia da notte biancastra, e gli chiedesse se stava bene e cosa aveva
da raccontarle di bello.
“Se sto bene?”, sbuffò Georg, “Benissimo! Così bene
che salto dalla gioia.”
Rise a denti stretti.
“Sto da schifo…”, disse poi, “Non è servito niente…”
‘Cosa
intendi?’, gli domandò l’immaginaria Mondenkind.
“Ieri mi sono incontrato con gli altri… ho scoperto
che la mia ex ragazza mi sfruttava per pubblicare un articolo esclusivo su di
noi. Loro non l’hanno presa bene.”
‘Cosa
ti hanno detto?’
“Mi hanno accusato di essere stato uno stupido, un
ingenuo… e non mi hanno ascoltato. Anzi, mi hanno ascoltato. E comunque ognuno
ha preso la sua decisione. E’ definitiva, non esistiamo più come gruppo. I
Tokio Hotel si sono sciolti.”, disse Georg, appoggiando la testa sulle sue
braccia incorciate, sopra la spalliera della sedia.
‘Mi
dispiace…’
“Anche a me dispiace tanto… E’ stata una delle
delusioni più grandi che abbia mai vissuto. Pensavo che tutto sarebbe tornato
come prima… e adesso….”
‘Niente
torna ad essere come lo ricordavamo prima della sua fine.’,
disse saggiamente
“Non mi hanno nemmeno dato il tempo di… di provare
a fare qualcosa!”, disse il ragazzo, sfogandosi, “Se ne sono andati, felici di
avermi fatto sentire in colpa per una cosa che è successa indipendentemente
dalla mia volontà. Ho giudicato male Helen, non mi sono accorto che aveva un
doppio fine! E me ne pento amaramente! Ma a loro non interessa… ed è tutto
finito.”
‘Sì,
così è davvero tutto finito.’, gli disse l’eterea
Mondenkind, con faccia triste.
“Non era destino che stessimo insieme per sempre.”,
disse Georg, toccandosi la fronte con espressione stanca ed abbattuta.
‘Ma
tu credi nel destino, Georg?’
Per essere una Mondenkind immaginaria, poneva delle
domande veramente intelligenti, pensò Georg. Ma era solo il suo io interiore a
fargliele, purtroppo.
Riflettè bene sulla risposta che stava per darsi.
“No, non ci credo. Credo che ognuno di noi crei la
propria vita con le scelte che prendiamo.”, disse, guardando dentro ad un pozzo
di saggezza.
‘E
allora perchè dici così?’
“Mi correggo: si vede che le loro scelte non
combaciavano con le mie.”
‘Ecco…’,
fece Mondenkind, sorridendogli.
Georg sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“E’ come lasciare la fidanzata storica, quella con
cui sei stato insieme per vent’anni. Ti chiedi cosa farai, quando tornerai ad
amare qualcun’altra…”, disse, buttandosi in una metafora.
“Mi sento esattamente in quel modo. Vuoto, smarrito,
incompleto.”, disse Georg.
‘Non
dovresti.’
“E perché? Non dovrei crogiolarmi nella mie
depressione?”, disse Georg, sorridendo.
‘Perchè
è più facile creare qualcosa dal niente che dall’esistente.’
Non avrebbe mai pensato che il suo Georg interiore
fosse stato così saggio. Decisamente di più di quello esteriore.
“Ma basta parlare dei miei problemi…”, disse poi,
scuotendo annoiato la testa, “Ti ho portato una cosa.”
Aprì il giubbino di pelle che indossava, infilò una
mano nella tasca interna e tirò fuori il libro.
Dette una rapida occhiata alla stanza. C’erano
diversi macchinari ma tra quelli riconosceva solo quello che contava il battito
cardiaco, gli altri non sapeva nemmeno a cosa servissero. Erano di troppo alla
sua vista, non di buon auspicio… Tutta la camera era bianca, asettica, pulita,
lustra. C’era una piccola televisione appesa al
muro, spenta. Una finestra chiusa, con delle tendine che oscuravano
lievemente il debole sole.
Guardò l’orologio, aveva ancora una mezz’ora per stare con lei.
Ovviamente non aveva altri impegni fuori, avrebbe potuto starci tutta la
giornata se non fosse stato per le rigide regole ospedaliere.
“Come la spendiamo quest’ultima mezz’ora?”, chiese
a Mondenkind, “Ti leggo qualcosa?”
Si girò il libro tra le mani.
Lui non leggeva quasi mai.
Non gli piacevano i libri.
Preferiva guardarsi le televisione. I film.
Eppure, mai dire mai.
Non aveva comunque pensato che i libri fossero solo
sollazzi per gente annoiata…
Soprattutto, forse peccando con un po’ troppa
superbia, non aveva mai immaginato che un libro, quel libro, avesse
potuto insegnagli così tanto.
Prese a sfogliarlo, dalla prima pagina, con gli
occhi che venivano catturati dalle parole qua e là.
Tra le migliaia che vide, solo una lo rapì.
Cairone.
Cairone era il centauro che aveva affidato ad
Atreiu il talismano Auryn, affidandogli la missione.
Cairone era anche il più grande medico di tutta
Fantàsia.
Carione non era riuscito, come tutti gli altri
medici di Fantàsia, a trovare una cura per la misteriosa malattia
dell’Imperatrice, che la faceva stare così male e…
“Sai Mondenkind…”, disse Georg, chiudendo il libro
e posandolo stancamente sul comodino, accanto al letto, “Questo libro a volte
pare quasi una profezia! E’ strano, ma alcune cose che mi sono successe…
somigliano spesso a fatti di questo libro.”
Riflettè, cercando di trovare le analogie tra la
sua vita e la finzione.
“Innanzitutto, il modo in cui sono precipitato
nella libreria di tuo nonno! Quasi identico a quello che è successo a Bastian…
e, visto che ci sono, devo dirti anche che questo libro inizialmente l’ho
rubato, e non c’entrava niente l’arteriosclerosi di tuo nonno!”, le rivelò,
sorridendo, “E comunque ti spiegherò un giorno per bene com’è andata, quella
mattina… poi, tu… questa strana malattia che hai e che ancora i dottori non
hanno capito quale sia…”
Appoggiò la fronte sulle braccia, conserte sopra la
spalliera della sedia.
“Facciamo questo gioco!”, esclamò Georg, alzando di
nuovo la testa, “Facciamo finta che io sia Bastian, e tu sia l’Imperatrice
Bambina!”
Si sentiva totalmente stupido, ma proseguì con il
gioco. Stare lì, in quella camera d’ospedale, lo faceva deprimere…
“A dire il vero io mi sono sempre immaginato,
modestamente, come Atreiu, mentre leggevo… ma questa è un’altra storia.”, fece,
ridendo, “Allora, dato che io sono Bastian, devo trovarti un nome nuovo, così
ti riprenderai e tutto finirà.”
Sarebbe stato bellissimo.
Avrebbe dato via l’anima perchè accadesse qualcosa
del genere.
Ma quella era la realtà e non bastava un semplice
nome nuovo per guarire una persona malata.
“Un momento che devo pensare al nome che voglio
darti…”, disse Georg, toccandosi pensieroso il mento.
Ci voleva un nome d’effetto, che si ricordasse per
sempre…
Liane?
Theresa?
Libeth?
Susanne?
No… erano nomi troppo comuni.
Ma non ne aveva molti altri in mente.
Si sforzò nel pensarci, ma la sua mente non
produceva niente.
Se non una canzone.
Ce l’aveva dalla mattina in testa e non riusciva a
liberarsene.
L’aveva sentita prima di addormentarsi e si era
svegliato con quella.
Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint, allein
und alle Träume sterben
Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint allein
und alle Engel schreien heut Nacht
Maledetta LaFee e la sua bellissima ‘Mitternacht’, pensava Georg.
Gli veniva quasi da canticchiarla, ma così sarebbe
passato da pazzoide.
Mitternacht…
Mitternacht.
“Mitternacht!”, esclamò, “Potrebbe essere un bel nome!
Strano… ma è un bel nome, non è da tutti i giorni essere chiamati come un’ora
del giorno! Ti piace, eh, Mitternacht?”
Nessun segno di approvazione.
Georg appoggiò il mento sulle braccia conserte.
“Mondenkind… Mitternacht… dove andremo a finire con
questi nomi…”, disse.