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Autore: RubyChubb    18/02/2008    10 recensioni
Spinse con forza la porta di vecchio legno scuro e vetro. Una serie che pareva infinita di scricchiolii e mugolii accompagnò quel breve momento e, non appena anche l’ultimo centimetro del suo corpo fu all’interno, la richiuse. Uno tintinnio sottolineò la sua presenza: attaccati sulla porta, piccoli e di bronzo, delle piccole campanelle avevano suonato fin dal primo istante in cui la sua mano si era appoggiata sulla nera maniglia esterna.... -RubyChubb-
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 8

 

 

Era il caso di parlarne e di trovare una soluzione. Parlare faccia a faccia, senza pressioni esterne.
Parlare senza altri interlocutori che non fossero stati loro quattro.
Fu per questo motivo che Georg chiamò insistentemente Tom, Gustav e Bill per tre giorni consecutivi, nell’attesa che loro rispondessero.
La maggior parte delle chiamate andava a vuoto, senza risposta.
La rimanenza si perdeva nella voce gentile ed ipocrita dell’operatrice telefonica, la quale lo informava che il numero chiamato non era raggiungibile perchè spento, oppure occupato in un’altra conversazione.
Ma non doveva demordere.
Una volta per ogni ora, prendeva il suo cellulare e ricomponeva i soliti tre numeri.
Di nuovo ed ancora un’altra volta.
Gustav fu il primo a rispondere dei tre, il quarto giorno, verso le sette di sera.
Ti ho risposto solo perchè così la smetti di chiamarmi ancora.”, disse, appena la linea fu stabilita.
“Ehm… Gustav, come va?”, esordì Georg, indeciso su come dovesse affrontare la questione.
Come se ti interessasse veramente… cosa vuoi?
Meglio rimanere calmi e pacifici.
“Vengo subito al punto… vorrei parlare con tutti voi. Seriamente.”
Seriamente esclude in automatico di dare del figlio di puttana in faccia alle persone.”, tuonò Gustav.
"Sì…”, fece Georg, incassando il colpo successivo, “Ma qua a casa mia, senza nessun altro che noi.”
Gli altri due?”, chiese Gustav.
“Non hanno ancora risposto.”
E non lo faranno.
“Prima o poi si decideranno ad accettare le mie chiamate, a meno che non vogliano stare a sentire il loro telefono squillare ininterrottamente.”, disse Georg.
L’altro rimase qualche istante in silenzio.
Perchè lo stai facendo Georg? Perchè ti stiamo tanto a cuore, quando invece ti sei rivolto a noi offendendoci in quel modo?”, gli domandò Gustav.
“Perchè mi voglio scusare… e voglio parlare con voi.”, fece Georg, che non riusciva più a trattenersi, istigato dall’atteggiamento rissoso dell’altro, “Quindi, se ti va bene, domani sera a casa mia, verso le sei.”
Ok, ok… .”, disse Gustav, e chiuse la chiamata.

 

***

 

Decise di presentarsi alla porta di casa loro. O faceva in quel modo, oppure non avrebbe mai più sentito la loro voce.
“Cosa ti fa credere che voglia aprirti…”, sentì sibilare la voce di Bill, al di là del grande portone blindato che chiudeva l’accesso all’attico dove lui e suo fratello vivevano. Non aveva aperto all’ormai ex amico, ma lo stava sicuramente osservando dal piccolo schermo di sorveglianza: la sua immagine veniva costantemente catturata dallo spioncino-telecamera che stava affisso sulla porta.
“Perchè posso accamparmi qua fuori anche tutta la notte. E perchè prima o poi voi dovrete uscire fuori di casa.”, rispose Georg, prontamente.
“E se chiamassi la polizia?”, azzardò Bill.
“Non lo faresti.”
“Come fai ad esserne tanto sicuro?”
“Perchè ancora nessuno di noi si è pronunciato sul nostro scioglimento. E nessuno di noi sembra intenzionato a farlo. Quindi perchè renderlo ufficiale facendomi arrestare mentre tampino la vostra porta di casa, nel vano tentativo di riconciliazione che mi sto sforzando di mettere in piedi?”, disse Georg, sicuro che la sua risposta sarebbe stata di chiaro effetto.
L’altro, infatti, se ne rimase silenzioso.
“Se vi interessa provare a riallacciare i nostri rapporti,”, gli fece, “venite a casa mia. Domani sera, verso le sei.”
“Abbiamo da fare.”, disse Bill, seccamente.
“E quando è che sarete liberi? Mai?”, fece Georg, toccandosi stancamente le tempie.
“Sì.”
“Come non detto. Domani sera vi aspetterò. Se non verrete, significa che non ve ne frega un cazzo di quasi dieci anni passati a suonare insieme, in giro per il mondo.”
Dette quelle semplici parole, Georg tornò verso l’ascensore, e lasciò che tutti prendessero le proprie decisioni.

 

***

 

Seduto sul divano.
Gambe distese, piedi incrociati.
Mani congiunte sul ventre.
Un leggero ticchettio del ginocchio sinistro.
Attendeva che qualcuno si presentasse alla sua porta. Impaziente.
Erano le sei e mezza ed ancora nessuno si era fatto vedere. Ma il ritardo era tipico di tutti loro, quindi non doveva farci caso.
Scacciò via un lieve prurito sul suo naso, ricordandosi che non era sicuramente di buon auspicio.
Qualcuno avrebbe suonato il suo campanello, bussato alla sua porta?
Anche uno solo di loro. Uno su tre.
Non doveva desistere, no, doveva sperare fino in fondo che tutto sarebbe andato per il meglio.
Se ne convinse.
Deciso, si alzò, incrociò le braccia e prese a passeggiare nervosamente per il suo soggiorno.
Ininterrotto, continuò a farlo per diversi minuti, finchè il suono metallico del suo campanello lo risvegliò dal torpore agitato.
Andò alla porta.
Aveva sperato in uno solo di essi. Magari Gustav. I due Kaulitz non si sarebbero mossi l’uno senza l’altro.
Ed invece erano lì, tutti e tre, davanti alla porta di casa sua.
“Entrate, prego.”, fece Georg, discostandosi per farli passare.
In fila indiana, silenziosi, sospettosi, andarono a sedersi sul suo divano.
“Volete qualcosa da bere?”, chiese Georg, ancora in piedi.
Gli altri scossero la testa e Georg si accomodò.
Avrebbe voluto iniziare subito il discorso, ma notò dalle loro facce che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa in più al resto.
Bill se ne stava a testa bassa, con le braccia conserte sul petto.
Tom, accanto a lui, preferiva spostare lo sguardo altrove, piuttosto che sugli altri.
Gustav, a gambe incrociate, era l’unico che attendeva un segnale, una parola, un gesto da Georg, guardandolo dritto negli occhi.
“Allora…”, si fece coraggio Georg, “Vorrei prima di tutto iniziare con…”
Gustav si mosse, sembrava volersi accomodare meglio, ma invece non fece altro che sbottonare la giacca che indossava, infilare una mano dentro di essa e tirarne fuori qualcosa, che finì ben presto sul vetro del tavolino davanti a lui.
“Cos’è?”, fece Georg, prendendo quel giornale.
Guardò la copertina.
Non appena i suoi occhi caddero su una parola a lui conosciutissima, il suo nome, stampato a caratteri quasi cubitali a fondo pagina, si sentì mancare il fiato.
In esclusiva: Georg Listing! Cade il silenzio sui Tokio. E cadono anche i Tokio.’
Sgranò il occhi.
Freneticamente, sfogliò tutto il giornale, sotto l’occhio vigile degli altri.
Ma fu inutile leggere, già sapeva che cosa avrebbe trovato scritto.
E soprattutto, sapeva chi l’aveva scritto. Helen, quella era la rivista di moda per cui lavorava.
Prese il giornale e lo scaraventò a terra.
“Mi aveva promesso che non avrebbe detto una parola. Non una parola!”, esclamò Georg, iniziando ad animarsi.
I due Kauliz, dal loro canto, non risposero in alcun modo.
Gustav, invece, raccolse la rivista e, ad alta voce, lesse qualche passo.
Fonti vicine alla nostra rivista e totalmente attendibili, continuavano a riportarci da almeno un paio di mesi che il gruppo non era più unito come una volta. Litigi, invide e gelosie si sono infiltrate infidamente nel loro rapporto, minandolo dalle fondamenta…’
“Basta, per favore…”, disse Georg.
“Aspetta! Ancora il passo meglio deve arrivare:”, riprese a leggere Gustav, “Per quello che mi riguarda, i Tokio Hotel non esistono più. Sono queste le prime parole che sono uscite dalla bocca di Georg, quando gli è stato chiesto del destino del suo gruppo.
“Non l’ho mai detto!”, si difese Georg, “Io non le ho mai dette queste cose!”
“Georg…”, fece Bill, guardandolo di sbieco, “Almeno ti hanno pagato bene per questa intervista?”
“Cosa?”, esclamò il ragazzo, “Non ho mai concesso nessuna intervista su di noi! E’ stata Helen, mi ha raggirato e mi ha sfruttato per pubblicare un’esclusiva!”
“Certo che sei proprio un’idiota!”, esclamò Tom, “Lo sapevi che lavorava per un giornale! Cosa ti costava non parlarle del nostro lavoro!”
“Lei mi ha sempre promesso che non avrebbe mai fatto parola di quello che le dicevo! E io mi sono fidato!”, gli rispose Georg, che si sentiva il sangue ribollire nelle vene.
“Ma cosa ti passava nel cervello Georg!”, fece Gustav, “Da quando in qua i giornalisti sono delle pie anime che tengono i segreti che vengono confidati loro?”
“Proprio non conosci la prudenza, Georg.”, disse Bill, scuotendo la testa.
“Credete che lo abbia fatto apposta vero?”, disse l’accusato, alzandosi in piedi, “Credete che non abbia mai pensato che Helen stesse insieme a me per trarne un profitto? Sì, l’ho pensato, anche più di una volta. Ma mi fidavo di lei. E mi dispiace essermi sbagliato sul suo conto!”
Riprese fiato, cercò di non esplodere in un attacco d’ira e tornò a parlare.
“Ho taciuto le cose più importanti. Non sono nato ieri! E sono convinto che tutto quello che avete letto, dalla prima all’ultima parola, sia stato completamente inventato… Non le parlavo dei nostri litigi, anche se sapeva che accadevano. Non le ho mai detto che ci siamo divisi, perchè nessuno si è mai pronunciato su questo fronte.”
“Georg, per favore!”, disse Tom, alzandosi, “Smettila con queste cazzate! Io l’ho sempre saputo che lei stava con te per convenienza, per trovare uno scoop su di noi… ma non te ne ho mai parlato perchè sei sempre stato mio amico, e non era mio compito intromettermi nella vostra relazione…”
“Perchè non lo hai fatto!”, si animò Georg.
“Perchè pensavo avessi il buon senso di mandarla a fanculo in poco tempo. Ma a quanto leggo Helen era una specie di confessionale per te!”
“Te lo ripeto! Quello che c’è scritto in quelle due pagine sono solo stronzate! Lei sapeva pochissimo di quello che succedeva tra di noi!”, gli ripetè Georg.
“Fatto sta che oggi siamo in prima pagina su questa rivista… e si sta scatenando l’inferno nelle altre redazioni, su internet e in televisione.”, disse Gustav, sventolando il giornale, prima di gettarlo a terra.
“Perchè allora non facciamo una conferenza stampa!”, propose Georg, “Smentirò tutto quello che c’è scritto sulla rivista, farò una denuncia e la cosa si sistema!”
Gli altri tre si guardarono.
Tom sospirò.
Bill scosse la testa.
“Vogliamo buttare nel cesso tutto quello che abbiamo fatto insieme?”, disse Georg, che aveva trovato il momento giusto per iniziare con il discorso che si era studiato a fondo, prima che loro arrivassero.
“Non vogliamo provare a rimettere insieme i pezzi?”, fece, cercando il loro sguardo, che invece sfuggiva via.
“Era il nostro sogno. Diventare famosi e suonare insieme per sempre. Per sempre… o almeno finchè saremmo stati in grado di mantenere le nostre dentiere attaccate in bocca.”, disse, facendosi scappare un lieve sorriso, che poi subito scomparve, “E’ per questa nostra promessa che dovremmo continuare a stare insieme, uniti come un gruppo. Uniti come i Tokio Hotel. Dobbiamo dimenticare le difficoltà, gli ostacoli che ci hanno fatto cadere. Dobbiamo alzarci di nuovo, lottare per riprendere il posto che ci spetta…”
“Ma quante belle parole... Perché non ti butti in politica?”, sibilò Tom.
“Non siamo finiti, ragazzi.”, riprese Georg, ignorandolo, “Non saremo finiti finchè siamo noi a non volerlo essere. Lo so che ci siamo detti cose troppo grandi da dimenticare… ma dobbiamo farlo. IO sono disposto a farlo perchè ancora credo nel nostro sogno, nella nostra promessa. E voi?”
Ecco, aveva finito, aveva terminato.
Il respiro si era fatto pesante.
Attendeva una risposta.
“Io non ci riesco.”, disse Bill, alzandosi ed andando verso la porta, seguito da Tom.
“E a me non interessa farlo.”, disse Gustav, “E’ stato bello finchè è durato. Non siamo più i soliti, Georg, siamo cresciuti. Il successo ci ha cambiato ed i Tokio Hotel non sono stati altro che un fenomeno passeggero, per ragazzine. Adesso è il momento di voltare pagina e di farsene una ragione. Io ho già trovato un nuovo scopo… o un nuovo sogno da seguire, come vuoi chiamarlo tu.”
E se ne andò.
Fine.
Era la fine.
Lui ci aveva provato, fino in fondo.
Ma aveva fallito, totalmente.

 

***

 

Prese la vecchia maniglia scolorita, lievemente arrugginita, e la spinse in basso.
La porta non si aprì, era chiusa. Per la prima volta, la vecchia libreria del  signor Metternich e della nipote Mondenkind era chiusa.
Avvicinò gli occhi al vetro opaco, cercando di vedere se qualcuno fosse al suo interno. Gli parve di intravedere qualcosa muoversi, nella penombra, e unì le mani intorno agli occhi, per vedere meglio.
C’era qualcuno, ma non sentiva nessun rumore provenire dall’interno. Bussò alla porta ed iniziò a chiamare il nome della sua amica Mondenkind. Vide la figura muoversi ancora nel buio.
“Mondenkind! Sei tu? Ti devo parlare!”, disse, continuando a bussare sul legno della porta.
L’ombra sembrò avvicinarsi alla porta.
Sentì il clack stanco della serratura.
Georg afferrò di nuovo la maniglia ed aprì la porta, entrando timoroso dentro alla libreria, totalmente buia.
“Mondenkind…”, disse Georg.
Le luci basse si accesero, facendolo sobbalzare.
“Cosa vuoi, giovanotto screanzato! Siamo chiusi!”, sbottò improvvisamente il signor Metternich, alle sue spalle.
Georg si voltò non appena il cuore ebbe preso a calmarsi.
“Mi dispiace, signore ma… c’è per caso Mondenkind?”, chiese al vecchietto.
Piccolo e grassoccio, chiuso nel suo cappotto consunto, sembrava impaziente di liberarsi del suo scocciatore.
“No! Non c’è! E lasciala in pace!”, disse.
A passi veloci ritornò verso la porta del suo negozio e lo esortò, facendogli gesti poco amichevoli, ad andarsene.
“Volevo solo parlare con lei…”, si spiegò Georg.
“Non c’è! Ed io devo andarmene!”
“E dove posso trovarla?”, chiese Georg, “Devo parlarle… è urgente…”
“Anche io ho urgenza!”, urlò il vecchietto, con voce stridula e pungente, “E comunque non è in condizione di vederti!”
Georg si preoccupò nel sentire quelle parole. Mondenkind ultimamente non si era sentita affatto bene… e se il suo stato di salute si fosse aggravato? Se fosse peggiorato improvvisamente?
“Mondenkind sta bene?”, domandò a suo nonno, che era sempre più ansioso di scacciarlo via, “E’ di sopra? Posso fare qualcosa per voi?”
“Puoi lasciarci in pace?”, sbraitò il vecchietto, gesticolando vistosamente, “Se mi fai ritardare ancora di un minuto, mancherò il numero tre! E devo ancora acquistare il biglietto!”
Numero tre, biglietto… L’autobus numero tre era quello che portava all’ospedale.
“E’ all’ospedale!”, esclamò Georg, “Che cosa le è successo?”
“Giovanotto!”, esclamò il signor Metternich, “Mi sta facendo perdere l’ultimo briciolo della mia pazienza!”
“Ce la porto io all’ospedale, signore. In meno di cinque minuti saremo lì e lei non dovrà pagare nessun biglietto.”, gli fece, aspettandosi una reazione tutt’altro che positiva.
Inaspettatamente, il nonnetto sbuffò ed accettò, non senza una vistosa espressione riluttante sulla sua faccia.
Durante il tragitto, lo rimproverò di premere troppo sull’accelleratore, di non guardare mai negli specchietti, di non dare mai la precedenza ai pedoni e così via, finchè non scese, ricordandogli di quanto era stato spiacevole il suo modo di guidare.
Dopo che, all’accettazione, venne detto loro in quale camera si trovasse Mondenkind, scoppiò l’ennesimo battibecco.
“Brutto ignorante!”, esclamò Metternich, mentre raggiungevano l’ascensore, “E’ mia nipote! Vattene!”
“Ed è anche mia amica e sono preoccupato per lei!”, rispose Georg.
“Solo i parenti possono visitare gli ammalati!”, contrattaccò il vecchietto, deciso a non demordere.
“Signori! Vi prego! Questo è un ospedale, non un talk show!”, si ribellò un infermiere che passava di lì.
I duellanti riposero momentaneamente le armi, guardandosi con segno di sfida. L’ascensore arrivò e li caricò, per portarli al settimo piano.
Quasi come in una gara, i due si fronteggiavano lungo il corridoio, finchè un dottore parò loro la strada, chiedendo quale paziente stessero cercando.
“Mondenkind, mia nipote.”, disse prontamente Metternich, prima che Georg potesse parlare.
“E lui chi è?”, fece il dottore, indicando con la penna Georg.
“Sono suo cugino.”, disse il ragazzo, bruciando sul tempo il vecchietto, che prese ad animarsi, incolpandolo di essere un bugiardo.
“Per cortesia!”, irruppe il dottore, “Seguitemi oppure vi faccio buttare fuori dall’ospedale.”
La coppia litigiosa, in silenzio, camminava appresso al dottore che, dopo una ventina di metri, si fermò davanti ad una porta bianca, del tutto uguale a quelle a cui erano passati davanti in precedenza.
“Ecco, questa è la sua camera. Avete un’ora per stare con lei.”, disse il dottore, mentre apriva la porta. “Vado prima io!”, esclamò Metternich, sgattaiolando dentro alla stanza e chiudendosi dentro.
Georg strinse un pugno, ribollendo di rabbia. Quel vecchietto era veramente insopportabile, non avrebbe voluto mai incontrato. Quando si accorse che il suo atteggiamento era del tutto fuori luogo agli occhi del dottore, si calmò, abbozzando un sorriso per scusarsi.
“E’ veramente cugino della ragazza?”, gli chiese l’uomo in camice bianco, che odorava di candeggina e disinfettante, così come tutti gli ospedali della terra.
“Sì, lo sono davvero… è che nostro nonno è arteriosclerorico… sa, non c’è più tanto con la testa…”, disse Georg, mentendo spudoratamente.
Il dottore lo squadrò per l’ennesima volta da capo a piedi, tolse da sotto il suo braccio la cartellina metallica, vi annotò sopra qualcosa. Poi tornò a fissarlo, con le mani giunte, come se stesse attendendo qualcosa da lui.
“Come sta Mondenkind?”, gli chiese Georg comprendendo che, da buon parente, anche se finto, era la prima domanda che avrebbe dovuto fare ad un dottore come lui.
“Sta… letteralmente, sta bene. Non ha niente. O almeno, non ha niente che noi sappiamo riconoscere.”, disse il dottore, con faccia quasi imbarazzata per quell’ammissione di ignoranza.
“Che cosa intende dire?”, fece Georg, che non comprendeva.
“Non è facile da spiegare…”, disse il medico, grattandosi la testa, “Le abbiamo fatto qualsiasi tipo di analisi, dalla più superficiale a quella più approfondita. Tutto nella norma. Niente, sua cugina sta bene.”
“E allora perchè è qua in ospedale?”, venne spontaneamente da domandare a Georg.
“E’ in uno stato comatoso. Non risponde agli stimoli… eppure pare che non ci sia una causa per questo. Respira autonomamente, tutte le sue funzioni vitali sono a posto. Abbiamo provato anche a…”
Il discorso del dottore fu interrotto da un bip-bip, segno che il suo cerca persone era stato attivato da una chiamata in arrivo. L’uomo gli dette un’occhiata e si scusò, aveva ricevuto un’emergenza e doveva scappare.

 

 

Passarono cinque, poi dieci, ed infine quindici minuti, prima che il vecchietto uscisse dalla stanza della nipote, per permettergli di visitarla. Stava quasi pensando che volesse farglielo apposta: rimanere lì dentro dalla nipote fino alla scadenza dell’orario delle visite solo per non fargliela vedere.
Poi ne uscì, con la faccia triste e pensierosa, mentre tastava il suo cappotto nero sbiadito lungo tutte le tasche, in cerca di qualcosa. Non lanciò nemmeno uno dei suoi sguardi corrucciati a Georg: un passo dopo l’altro, immerso nelle sue elucubrazioni mentali, il vecchietto percorse tutto il corridoio in silenzio.
Facendo spallucce, Georg entrò dentro la camera di Mondenkind.
Lei se ne stava pacifica, distesa sul letto, coperta fino al petto, con le mani che innaturalmente ferme stavano distese lungo i suoi fianchi. Dai suoi polsi partivano dei lunghi tubicini per le flebo, una pinzetta stava fissa sul suo indice sinistro.
L’aveva sempre vista con i capelli ammansiti in una treccia lunga, appoggiata sulla sua spalla destra. In quel momento, però, stavano liberi sul cuscino. Il bianco della federa impallidiva davanti al nero lucido dei capelli di Mondenkind.
Gli occhi chiusi, il respiro regolare ed impercettibile.
L’espressione assente.
La testa piegata lievemente di lato.
Una sedia anonima stava accostata al muro, vicino al letto. La prese e vi si sedette a cavalcioni, incrociando le braccia ed appoggiandole sullo schienale.
No, no e no!
Non poteva stare male senza un perchè. Doveva esserci qualcosa per curarla, per farla tornare a sorridere, per farla tornare alla sua libreria! Com’era che i dottori non avevano trovato una causa a questo suo male? Perchè la medicina non sapeva spiegare che cosa avesse Mondenkind? Era impossibile, tutte le malattie del mondo erano state scoperte, anche se alcune di queste non avessero ancora una cura. Perchè Mondenkind doveva starsene su quel letto senza un perchè?
Era terribilmente ingiusto. Trovava un’amica, una persona che lo comprendeva, che sapeva metterlo per la giusta via quando stava sbagliando… e la perdeva.
Beh, Mondenkind era sempre lì, davanti ai suoi occhi. Ma era come priva di vita.
Pallida ed inerme, immobile.
“Mondenkind… mi senti?”, le fece, in cerca di una risposta.
Ma lei non fece nemmeno un piccolo cenno con la testa.
“Ovviamente non mi sentirai… ma ti parlerò lo stesso.”, disse Georg, con amarezza.
Si immaginò che lei si sedesse sul bordo del letto, con la sua camicia da notte biancastra, e gli chiedesse se stava bene e cosa aveva da raccontarle di bello.
“Se sto bene?”, sbuffò Georg, “Benissimo! Così bene che salto dalla gioia.”
Rise a denti stretti.
“Sto da schifo…”, disse poi, “Non è servito niente…”

‘Cosa intendi?’, gli domandò l’immaginaria Mondenkind.
“Ieri mi sono incontrato con gli altri… ho scoperto che la mia ex ragazza mi sfruttava per pubblicare un articolo esclusivo su di noi. Loro non l’hanno presa bene.”

‘Cosa ti hanno detto?’
“Mi hanno accusato di essere stato uno stupido, un ingenuo… e non mi hanno ascoltato. Anzi, mi hanno ascoltato. E comunque ognuno ha preso la sua decisione. E’ definitiva, non esistiamo più come gruppo. I Tokio Hotel si sono sciolti.”, disse Georg, appoggiando la testa sulle sue braccia incorciate, sopra la spalliera della sedia.
‘Mi dispiace…’
“Anche a me dispiace tanto… E’ stata una delle delusioni più grandi che abbia mai vissuto. Pensavo che tutto sarebbe tornato come prima…  e adesso….”
‘Niente torna ad essere come lo ricordavamo prima della sua fine.’, disse saggiamente la Mondenkind invisibile con cui lui stava conversando, ‘Questo dovevi saperlo bene, Georg.’
“Non mi hanno nemmeno dato il tempo di… di provare a fare qualcosa!”, disse il ragazzo, sfogandosi, “Se ne sono andati, felici di avermi fatto sentire in colpa per una cosa che è successa indipendentemente dalla mia volontà. Ho giudicato male Helen, non mi sono accorto che aveva un doppio fine! E me ne pento amaramente! Ma a loro non interessa… ed è tutto finito.”

‘Sì, così è davvero tutto finito.’, gli disse l’eterea Mondenkind, con faccia triste.
“Non era destino che stessimo insieme per sempre.”, disse Georg, toccandosi la fronte con espressione stanca ed abbattuta.

‘Ma tu credi nel destino, Georg?’
Per essere una Mondenkind immaginaria, poneva delle domande veramente intelligenti, pensò Georg. Ma era solo il suo io interiore a fargliele, purtroppo.
Riflettè bene sulla risposta che stava per darsi.
“No, non ci credo. Credo che ognuno di noi crei la propria vita con le scelte che prendiamo.”, disse, guardando dentro ad un pozzo di saggezza.

‘E allora perchè dici così?’
“Mi correggo: si vede che le loro scelte non combaciavano con le mie.”
‘Ecco…’, fece Mondenkind, sorridendogli.
Georg sospirò e si passò  una mano tra i capelli.
“E’ come lasciare la fidanzata storica, quella con cui sei stato insieme per vent’anni. Ti chiedi cosa farai, quando tornerai ad amare qualcun’altra…”, disse, buttandosi in una metafora.

La Mondenkind della sua mente gli sorrise, mettendosi una mano davanti alla bocca per rispetto.
“Mi sento esattamente in quel modo. Vuoto, smarrito, incompleto.”, disse Georg.

‘Non dovresti.’
“E perché? Non dovrei crogiolarmi nella mie depressione?”, disse Georg, sorridendo.
‘Perchè è più facile creare qualcosa dal niente che dall’esistente.’
Non avrebbe mai pensato che il suo Georg interiore fosse stato così saggio. Decisamente di più di quello esteriore.
“Ma basta parlare dei miei problemi…”, disse poi, scuotendo annoiato la testa, “Ti ho portato una cosa.”
Aprì il giubbino di pelle che indossava, infilò una mano nella tasca interna e tirò fuori il libro. La Mondenkind della sua immaginazione, seduta sul letto, era scomparsa. Era rimasta quella vera, malata, pallida.
Dette una rapida occhiata alla stanza. C’erano diversi macchinari ma tra quelli riconosceva solo quello che contava il battito cardiaco, gli altri non sapeva nemmeno a cosa servissero. Erano di troppo alla sua vista, non di buon auspicio… Tutta la camera era bianca, asettica, pulita, lustra. C’era una piccola televisione appesa al  muro, spenta. Una finestra chiusa, con delle tendine che oscuravano lievemente il debole sole.
Guardò l’orologio,  aveva ancora una mezz’ora per stare con lei. Ovviamente non aveva altri impegni fuori, avrebbe potuto starci tutta la giornata se non fosse stato per le rigide regole ospedaliere.
“Come la spendiamo quest’ultima mezz’ora?”, chiese a Mondenkind, “Ti leggo qualcosa?”
Si girò il libro tra le mani.
Lui non leggeva quasi mai.
Non gli piacevano i libri.
Preferiva guardarsi le televisione. I film.
Eppure, mai dire mai.
Non aveva comunque pensato che i libri fossero solo sollazzi per gente annoiata…
Soprattutto, forse peccando con un po’ troppa superbia, non aveva mai immaginato che un libro, quel libro, avesse potuto insegnagli così tanto.
Prese a sfogliarlo, dalla prima pagina, con gli occhi che venivano catturati dalle parole qua e là.
Tra le migliaia che vide, solo una lo rapì.

Cairone.
Cairone era il centauro che aveva affidato ad Atreiu il talismano Auryn, affidandogli la missione.
Cairone era anche il più grande medico di tutta Fantàsia.
Carione non era riuscito, come tutti gli altri medici di Fantàsia, a trovare una cura per la misteriosa malattia dell’Imperatrice, che la faceva stare così male e…
“Sai Mondenkind…”, disse Georg, chiudendo il libro e posandolo stancamente sul comodino, accanto al letto, “Questo libro a volte pare quasi una profezia! E’ strano, ma alcune cose che mi sono successe… somigliano spesso a fatti di questo libro.”
Riflettè, cercando di trovare le analogie tra la sua vita e la finzione.
“Innanzitutto, il modo in cui sono precipitato nella libreria di tuo nonno! Quasi identico a quello che è successo a Bastian… e, visto che ci sono, devo dirti anche che questo libro inizialmente l’ho rubato, e non c’entrava niente l’arteriosclerosi di tuo nonno!”, le rivelò, sorridendo, “E comunque ti spiegherò un giorno per bene com’è andata, quella mattina… poi, tu… questa strana malattia che hai e che ancora i dottori non hanno capito quale sia…”
Appoggiò la fronte sulle braccia, conserte sopra la spalliera della sedia.
“Facciamo questo gioco!”, esclamò Georg, alzando di nuovo la testa, “Facciamo finta che io sia Bastian, e tu sia l’Imperatrice Bambina!”
Si sentiva totalmente stupido, ma proseguì con il gioco. Stare lì, in quella camera d’ospedale, lo faceva deprimere…
“A dire il vero io mi sono sempre immaginato, modestamente, come Atreiu, mentre leggevo… ma questa è un’altra storia.”, fece, ridendo, “Allora, dato che io sono Bastian, devo trovarti un nome nuovo, così ti riprenderai e tutto finirà.”
Sarebbe stato bellissimo.
Avrebbe dato via l’anima perchè accadesse qualcosa del genere.
Ma quella era la realtà e non bastava un semplice nome nuovo per guarire una persona malata.
“Un momento che devo pensare al nome che voglio darti…”, disse Georg, toccandosi pensieroso il mento.
Ci voleva un nome d’effetto, che si ricordasse per sempre…
Liane?
Theresa?
Libeth?
Susanne?
No… erano nomi troppo comuni.
Ma non ne aveva molti altri in mente.
Si sforzò nel pensarci, ma la sua mente non produceva niente.
Se non una canzone.

Ce l’aveva dalla mattina in testa e non riusciva a liberarsene.
L’aveva sentita prima di addormentarsi e si era svegliato con quella.

 

Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint, allein
und alle Träume sterben
Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint allein
und alle Engel schreien heut Nacht

 

Maledetta LaFee e la sua bellissima ‘Mitternacht’, pensava Georg.
Gli veniva quasi da canticchiarla, ma così sarebbe passato da pazzoide.
Mitternacht…

Mitternacht.
“Mitternacht!”, esclamò, “Potrebbe essere un bel nome! Strano… ma è un bel nome, non è da tutti i giorni essere chiamati come un’ora del giorno! Ti piace, eh, Mitternacht?”
Nessun segno di approvazione.
Georg appoggiò il mento sulle braccia conserte.
“Mondenkind… Mitternacht… dove andremo a finire con questi nomi…”, disse.

   
 
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