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Autore: EIP    18/02/2008    3 recensioni
"Ed era Mezzamorta non perché non vivesse. Ma perché il suo modo di vivere non era come quello degli altri. Sul suo viso c'era il colore della cenere, così come sul resto del corpo. E la cenere non è il colore dei vivi."
Sessione EIP di Kaos e Janet Mourfaaill, iniziata il 18/02/2008.
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Sessione EIP - Extreme Improvisation Project - di Kaos e Janet Mourfaaill, iniziata il 18/02/2008)

La chiamavano Mezzamorta perché non si sapeva bene se vivesse o meno. Non si muoveva ma pareva respirasse, e, talvolta, di notte, i contadini vedevano un'ombra avvicinarsi all'orto per poi fuggire via immediatamente, magari portandosi via un po' di ortaggi.
E poi scompariva per qualche giorno, la Mezzamorta, non si sapeva dove finisse. Finché non la ritrovavano da qualche altra parte, gli occhi spalancati e il battito del cuore inesistente.
O era un'ottima attrice, o il fatto era inspiegabile.
L'avevano pure sepolta, qualche volta.
Vivere? In certi momenti di inusuale lucidità mentale la Mezzamorta si chiedeva se la sua potesse essere considerata vita o meno. O meglio, nei giorni particolarmente fausti, cioè quando era in grado di concatenare fra loro fino a tre o quattro pensieri, giungeva alla conclusione che il suo corpo era sì biologicamente vivo, ma la relazione fra lei e il termine "vita" si concludeva lì.
Fin dall'età di otto anni e mezzo venne colpita da una specie di malattia, anche se i più superstiziosi del villaggio pensavano o all'opera di una strega o a una maledizione divina. Alla poveretta marcì tutta la pelle, rendendola simile a un bruttissimo spaventapasseri fatto di scarti. Fu inevitabile una precipitosa e poco onorevole fuga, sia dagli inorriditi genitori che dai forconi dei compaesani.
Prese a vagare non sapeva nemmeno bene lei dove, cibandosi di quel che riusciva a racimolare o rubare.
La Mezzamorta era talmente bella, ma talmente bella, che per tutti era troppo. E così decisero di considerarla brutta, e finita lì. Insomma, a considerar qualcuno brutto poi è tutto più semplice. Per via di quella pelle, poi... Presto la convinsero che era un relitto umano.
Ma era tanto bella, la povera ragazza, anche se Mezzamorta. Non aveva amici, niente amici al di fuori dei fichi che racimolava ogni tanto dagli orti dei contadini.
E passava il giorno a spazzolarsi i capelli quasi invisibili - pensavano tutti che fosse calva, ma era invero il sole ad averle rubato il colore- .
Si ricordava ancora il suo vero nome? Ormai anche i cani, se potessero parlare, l'avrebbero chiamata Mezzamorta. Era il nome che il disprezzo e il disgusto della gente le aveva appiccicato addosso. Ma, in uno dei già citati giorni fausti, le baluginava in testa il suo vecchio, vero nome. Solo che, forse dalla troppa vergogna per la sfortuna abbattutasi su di lei, era un ricordo tremendamente nebuloso.
Sofia, Sara, qualcosa del genere. Cominciava con la essere, e su questo era abbastanza sicura. Ma mai che fosse andata oltre l'iniziale.
Non che contasse qualcosa saperlo. Però, ogni tanto, mentre mangiava il suo misero pasto quotidiano, rintanata in qualche fattoria abbandonata o sotto a un ponte, rifletteva sul perché la gente aveva arbitrariamente deciso di farla diventare una reietta, perseguitata pur non avendo fatto nulla di male. E anzi, avendolo subito in prima persona.
Silvia... no. Stefania... ma Dei del Cielo, proprio no. Chiara... Un momento, non iniziava con la esse, Chiara.
Oh, non aveva importanza.
Forse anche se si fosse ricordata il suo nome, non sarebbe cambiato nulla.
Era e rimaneva la Mezzamorta del Villaggio - a ben pensarci, dei villaggi. Eh già, ormai li aveva già girati quasi tutti, lì nei dintorni -, e c'era poco da fare.
Oh, maledizione, ecco che arrivavano di nuovo i paesani con il becchino, e al seguito degli uomini che trasportavano una bara... Un altro funerale, ma perché, poi?
Ci sarebbero stati solo i suoi fichi ad assistere. Che cosa penosa.
Non poteva nemmeno fingersi viva. Non ci riusciva. O almeno, non nel senso di "viva" che intendevano loro.
Ogni volta che vedeva passare un corteo funebre, ben nascosta dalle fronde degli alberi che costeggiavano il sentiero, sentiva irrefrenabile l'impulso di procurarsi dolore. Un morso, un colpo di pietra su qualche parte del corpo, un calcio a un tronco.
Qualcosa che le ricordava di essere viva, seppur menomata e non voluta.
Altre volte però, in aggiunta a queste azioni, le veniva voglia di uscire allo scoperto, spaventare tutti con la sua orrida faccia scheletrica e saltare insieme al caro trapassato dentro la bara.
Se qualcuno avesse avuto il fegato per restare a guardare, e la sensibilità necessaria per capirlo, non ci avrebbe messo molto a intuire come quello fosse il muto grido d'aiuto di un'anima ferita fino alle sue fondamenta.
E così la Mezzamorta seguitava a nascondersi dai contadini e dalle bare, perché forse pareva anche morta, ma le erano bastati quei quattro o cinque funerali, anni addietro. Aveva bisogno di sole, lei, non poteva stasene rinchiusa in quelle casse da morto per troppo tempo.
Ecco perché le forzava e usciva, dopo qualche settimana. Insomma, fosse stato per lei avrebbe anche finto di essere morta, e chissà, forse lo sarebbe addirittura diventata davvero dopo qualche anno... Ma a lei piaceva spazzolarsi al sole, sotto la brezza autunnale e vedere come le foglie le si appiccicavano tra i capelli, per poi sbricciolarsi con il continuo ululare del vento.
Perché il vento ululava sempre, lì dov'era lei. Sembrava quasi piangere, al vederla così sola.
Così bella che per tutti era la più brutta. Se non era ingiustizia, quella.
A lei era sempre piaciuta la vita. Quando era piccola, normale e accettata amava tantissimo passare le sue giornate a correre nei prati, a rincorrersi coi fratelli più grandi e a tornare a casa ricoperta di fango da capo a piedi. Ai rimbrotti della mamma, che le rimproverava poca femminilità, rispondeva con un sorriso dotato di luce propria e degli occhietti vispi e felici.
Era una bimba che amava tutto.
E quella parte di sè, seppur sepolta sotto strali ingiusti e continuati, era ancora presente da qualche parte. E riverberava quanto poteva in quei piccoli gesti che, nel caso di una comune contadina, sarebbero probabilmente svestiti di qualsiasi significato.
Per lei, invece, erano aria pura da respirare a pieni polmoni.
E fu in uno di quei giorni in cui il vento ululava e il sole era come incupito - le aveva rubato il colore, ma non sarebbe stato mai in grado di splendere come lei -, mentre ricordava tratti della sua lontana infanzia, che si rese conto di non essere sola.
Ma era diverso da quando sentiva di poter contare solo sui suoi fichi o le sue arancie, o le sue patate con la buccia.
No, in quel momento sentì la presenza di qualcuno, molto vicino a sé. Si girò piano, la spazzola di corallo ancora in mano - l'avrebbero vista, lei che mancava di colore? - e rivolse lo sguardo all'altra parte del lago.
C'era un albero molto grosso che non aveva mai notato prima. E su quell'albero, vispa e nitida, appoggiata agli enormi rami bitorzoluti, c'era il suo colore.
Sbattè un paio di volte le palpebre, non sapendo se credere a ciò che vedeva o se pensare che la sua malattia potesse anche compromettere la sua mente.
Ma, nonostante il suo montante stupore, la sua retina si rifiutava di trasmetterle un'immagine diversa.
Fece qualche tremolante passo in avanti inciampando. Era troppo tesa, emozionata, col fiato corto per non incappare in una simile scocciatura.
Si rialzò lesta, la fronte sudata per quello che stava succedendo.
E mentre accellerava il passo verso il ponticello che l'avrebbe condotta dall'altra parte del lago, vicino al grosso albero che prima non aveva mai notato, il suo cuore prese a battere immensamente più veloce. A un certo punto temette che le scoppiasse fuori dal petto, non prima però di essere salito fino alle orecchie.
Era come se tutto il suo colore, tutta l'essenza della sua anima fosse stata lì, appoggiata a quell'albero, ad attendere un suo ulteriore passo in avanti.
Era difficile da spiegare, senza farsi passare per pazza.
Ma se era così orribile, agli occhi altrui, era perché la sua pelle aveva assunto una sfumatura del tutto incomprensibile agli occhi del resto del villaggio.
Era come se si fosse ridotta a cenere, e Dio solo sapeva perché. Non possedeva ricordi del giorno in cui perse il colore. Sua madre le disse che tutti quei rotoloni nel fango non le avevano fatto bene, e avevano finito per farla diventare sporca e senza vita.
Ma lei lo sapeva che era stato il sole. La invidiava, perché a lei bastava sorridere per illuminare il cammino davanti a sé. Le bastava essere felice.
O forse l'aveva perso perché aveva smesso di esserlo? Perché non aveva più alcun ricordo sereno, alcun amico vero?
No, si disse decisa. Lei non aveva mai smesso di essere felice. Anche in quel momento, con la pelle del grigio più pesante e soffocante che si poteva concepire, a lei piaceva curarsi i capelli. Le piaceva bagnarsi la pelle con i raggi dell'invidioso sole. Le piaceva correre per i prati, anche se era meglio che non ci fosse nessuno in vista.
No. Lei non aveva smesso di essere felice. Erano gli altri ad aver smesso di darle la loro felicità e comprensione dopo che si era ammalata.
Si ripetè, con voce ferma, che lei non era colpevole di niente. Era tutta colpa loro. Degli altri. Degli abitanti del villaggio. Dei normali.
Erano stati loro ad ostracizzarla solo per via del suo aspetto.
E, in realtà, aveva ancora dei ricordi sereni. Ma si rese impietosamente conto che era serena solo quando stava da sola, al riparo dagli sguardi carichi di timore, disprezzo e odio delle altre persone.
Si avvicinò ancora di più all'oggetto del suo desiderio, la mano tremolante protesa in avanti come per afferrarlo nel caso fosse svanito.
Piegò un poco il capo verso destra.
Il suo colore era lì, appoggiato all'albero, e colorava l'albero e colorava lo spazio attorno a quel piccolo pezzo di terra.
Splendeva. Era più luminoso del sole.
Chiuse gli occhi mentre faceva due passi avanti e attraversava quell'aria brillante, quel qualcosa che un tempo, lo sapeva, era stato suo.
L'avrebbero presa per pazza, lo sapeva, se l'avessero vista. Il colore non si perde, diceva sua madre. O se si perde - quando si sta per svenire, ad esempio - poi si ritrova. La carne torna ad essere di quel rosa candido, e le guancie arrossate, soprattutto in Inverno.
Ma lei, quando aveva perduto il suo, di colore, non l'aveva più ritrovato. Lentamente, inesorabilmente... La sua pelle era come scomparsa.
Ed era Mezzamorta non perché non vivesse. Ma perché il suo modo di vivere non era come quello degli altri.
Sul suo viso c'era il colore della cenere, così come sul resto del corpo.
E la cenere non è il colore dei vivi.
Poteva riafferrarla e rifarla sua? Se lo chiese mentalmente più e più volte, mentre ciò che bramava afferrare, se avesse avuto degli occhi, la guardava un po' scettico e un po' speranzoso.
Era onestamente stufa di essere cenere. Voleva tornare luminosa come lo era stata tempo fa. E, semplicemente, la sua occasione era lì. Prelibata e deliziosa come il miglior piatto di verdure che sua madre era bravissima a cucinare.
Si sentiva incompleta a pensare che qualcosa di esterno e malvagio l'aveva privata di una parte di sè. La parte più fulgida e splendente, la parte che la rendeva normale, la parte che la rendeva...se stessa. Completamente, senza mezzi termini o compromessi.
Finalmente, dopo lunghi tentennamenti, lo afferrò con entrambe le braccia.
Le sue mani non presero nulla, trafissero l'aria luminosa senza afferrare altro a parte le foglie dei rami davanti a lei.
Si sentì delusa.
Voleva il suo colore, il suo brillare, la sua luminosità. Poter pettinare qualcosa che non fosse cinereo, potersi specchiare nell'acqua e vedere qualcosa di diverso da un cumulo di ossa sporgenti e quell'orribile sfumatura grigia ovunque.
Anche all'interno dei suoi occhi.
Inspirò e si intromise in quel vento colorato. Si lasciò avvolgere, senza aprire gli occhi.
Sentì il vento ululare più forte, e le foglie iniziare a vorticare attorno a lei senza sosta, ma non la disturbava. Nulla la turbava.
Poi, un minuto o un'ora dopo, finì tutto.
Era stesa per terra, e guardava la sua mano appoggiata al suolo, inerme.
Era un battito quello che aveva sentito? Il suo cuore serviva ancora a qualcosa?
Non seppe dirsi da quanto tempo non piangesse dopo aver constatato che sul suo braccio, su tutto il suo corpo... non vi era traccia di grigio.
Non fece in tempo a sorridere.
Non fece in tempo neanche ad asciugarsi una delle mille lacrime di gioia che le solcavano le gote.
Avrebbe voluto fare queste e mille altre cose.
Ma non fece in tempo.
Una fitta di dolore si impossessò di tutte le sue membra impedendole anche il più elementare dei movimenti, dei pensieri, delle espressioni.
Rimase quindi sdraiata, contorcendosi.
Fra un sussulto e l'altro riuscì a chiedere ad alta voce, verso un ignoto interlocutore, se questa era la sua fine. Se stava davvero morendo. Proprio quando aveva ritrovato il suo colore, disperatamente cercato per anni.
- Che cosa stai facendo? -
Una voce profonda la colpì d'improvviso come quel dolore accecante e inspiegabile.
Riuscì a voltare il capo, tra le lacrime, mentre il resto del corpo rimaneva scosso dai singhiozzi e dai tremori.
Un ragazzo la stava osservando con le sopracciglia aggrottate, incuriosito, non spaventato. Pareva stesse guardando uno spettacolo il cui senso gli sfuggiva.
Si rese conto di non riuscire a parlare. La lingua era attaccata al palato.
- Stai bene? - Ora la voce era preoccupata. E perché? Ancora sapeva distinguere la preoccupazione da tutto il resto? Ancora era in grado di ricordare i sentimenti?
Rivolse nuovamente lo sguardo in direzione del giovane, disperata. Piangeva, piangeva, ma non riusciva a spiccar parola. Era un dolore immenso che non sapeva spiegarsi.
Lui continuava a guardarla, inclinando il capo verso destra. Quel gesto... le ricordava qualcosa.
- Sai... - Disse lui lentamente - assomigli tanto alla mia sorellina scomparsa tanto, tanto tempo fa. -
Provò a dire qualcosa, di nuovo. Ma stavolta, pur riuscendo ad emettere qualche suono, i risultati furono pessimi. Se le orecchie non la ingannavano aveva appena gorgogliato, probabilmente sputando della schiuma dalla bocca.
Il ragazzo fece un passo indietro, più preoccupato che intimorito dal brutto spettacolo. Poi trasse un profondo respiro, le corse incontro e la sollevò in braccio.
"Stai male, vero? Non preoccuparti, ora ti porto dal dottore del mio villaggio. È bravissimo e ha sempre curato tutti. Starai meglio. E poi mi spiegherai perché assomigli a Sabrina".
Mezzamorta forse non se ne rese conto, ma alle lacrime di dolore e paura si mischiarono quelle di sollievo e ringraziamento verso lo sconosciuto che la stava aiutando.
Ah. Mentalmente si disse ferma che, se non fosse morta, avrebbe assolutamente ricordata il suo nome.
Lei si tirò un po', su, e si voltò indietro a guardare ciò che era rimasto di quell'angolo di colore.
Strabuzzò gli occhi.
L'albero era diventato stranamente triste... Ora che ci faceva caso... Quale albero? Non si vedeva praticamente nulla. Solo un po' di nebbia grigia, ma di albero alcuna traccia, nossignore. Forse se l'era immaginato.
- Stai meglio, mi pare. -
Annuì seccamente. - Il sole si è arreso. -
Dio, era da anni che non parlava. La sua voce era quasi grottesca, ma al contempo perfettamente comprensibile. Se avrebbe dovuto associarla a qualcosa l'avrebbe associato al muschio.
Il giovane rise. - Sembri davvero tanto alla mia sorellina. Ma lei era più piccola di te... E poi, a ben guardarti, lei era più pallida. - Concluse incolore.
Il ragazzo, che durante il tragitto disse di chiamarsi Aristolfo, la portò velocemente verso il suo villaggio. La Mezzamorta stava ancora molto male, a detta del dottore, ma non sembrava in pericolo di vita. Le diede qualche erba medicinale che, a suo dire, avrebbe attutito il dolore e le consigliò molto riposo per i giorni successivi.
Lui la salutò con uno strano sguardo nostalgico mentre se ne andava. Lei non fece neanche lo sforzo di rispondere, martoriata come si sentiva era tremendamente faticoso anche solo muovere il collo nella sua direzione.
Si trovò, da tempo immemorabile, a dormire in un letto. La cosa le scatenò strani sentimenti sepolti chissà dove e le impedì di dormire decentemente. La sua notte fu piagata da incubi informi e voci mai sentite prima, alcune piene di apocalittici consigli alla fuga e altre che gocciolavano stupore e ribrezzo. Il tutto rigorosamente senza il minimo senso logico. E non che lei ne cercasse uno, semplicemente vedeva con gli occhi della mente una faccia sconosciuta dietro l'altra, digeriva ciò che le dicevano e scrollava le spalle, impietosita.
Al mattino si era svegliata di soprassalto, ansimando. Tutti quei visi le erano stranamente noti, ma nessuno di essi aveva dei segni particolari che le ricordassero qualcosa o qualcuno. Erano come una cappa grigia. Qualcosa senza il minimo senso.
Sbatté le palpebre, assonnata.
Da anni, ormai, non aveva più sonno.
Si guardò attorno.
Il cuore le balzò immediatamente in gola. Conosceva quel posto.
Bare, bare ovunque. Era circondata da casse da morto, ovunque girasse lo sguardo vi erano croci e ancora bare. Persino appoggiate sul muro, e sul soffitto.
Gridò.
Quei volti non erano sogni. Quel ragazzo non era un estraneo.
Mathias. Suo fratello.
Una risata la fece rabbrividire. - Non sei dei nostri solo perché sei tornata normale. Ora finalmente puoi morire come tutti. Ti ho trovata e non scapperai ancora. Perché ovunque metterai piede ci sarà una cassa ad accoglierti, e non sarai mai più libera. -
Ansimò ancora, e ancora.
-... E ti mancherà la cenere, sorellina. Oh, se ti mancherà. Morirai per davvero, e forse sarà allora che ci darai pace. A noi, ma anche a te stessa. -
Ansimò più forte.
- Il tuo nome non è Sabrina, sorella. - Rise convulsamente. Lei lo guardò. Nemmeno lui pareva avere colore.
Pronunciò il suo nome lentamente, poi se ne andò lasciandola sola.
Si lasciò andare, sbarrando gli occhi e cadendo all'indietro nella bara gelida.
Iniziava per esse, ma non era Sabrina, né Sara, né Serena.
Uno, due, tre, quattro, cinque, mille coltelli le si conficcarono nel corpo.
Esalò l'ultimo respiro.
Era Speranza.
  
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