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Autore: CleaCassandra    20/02/2008    2 recensioni
*Ci sono diverse cose di cui i miei genitori non sono a conoscenza.
Ad esempio, non sanno che quando avevo quattro, o forse erano cinque, anni ho picchiato il mio amichetto del parco giochi. In realtà non ricordo nemmeno che faccia avesse, o il suo nome…boh, forse Bruce, o Billy, Bob, non so…ricordo solo che c’era una B di mezzo.
Fu una scena quasi comica: ci pestammo, da bravi discoli, per il possesso di un’altalena, manco a dirlo la più bella, quella che non emetteva il minimo cigolìo, ma soprattutto l’unica del parchetto; e nessuno a dividerci. Eravamo solo io e lui, quella mattina.
Dopo i pianti e gli strepiti di circostanza, però, accadde che il bimbo farfugliò che non avremmo dovuto dire nulla della nostra scaramuccia ai rispettivi genitori. La promessa che ci scambiammo era così solenne che non me la sentii di venirle meno, e così mantenni la parola. A quanto pare anche lui, visto che nessuno venne a reclamare alla nostra porta che “quella furia di tua figlia ha mollato un cazzotto al mio bambino!”, o comunque qualcosa di simile. Diciamo che avevamo entrambi dei vantaggi da trarre: io non sarei dovuta andare a testa a bassa a chiedere scusa, e lui non sarebbe stato tacciato già così presto di essere una specie di checca. Ovviamente, queste cose, due bambini di quattro o cinque anni non le sfiorano nemmeno col pensiero.
Quanto ai lividi, che inevitabilmente mi ero procurata… “Sono caduta dallo scivolo”.
Caso archiviato.
Ma fosse solo questo, ciò di cui i miei sono all’oscuro.*
Leslie, le sue amiche e compagne di band, e un avvenimento totalmente surreale che sconvolgerà per sempre le loro vite.
attention please: non conosco gli Avenged Sevenfold (e come al solito aggiungo 'magari li conoscessi davvero' :°D), quindi quello che ho scritto non li rispecchia davvero, insomma sono un parto della mia mente alquanto malata, e non intendo offendere nessuno in alcun modo con le mie storie, ma sempre meglio specificare, non si sa mai u_ù
Genere: Comico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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wiiiiiii, grazie per le recensioni *O*

Chapter 02 - Let The Flames Begin

Le settimane sono passate così, come un fiume che scorre, nella routine. Sì, insomma, mattinate a lavoro, affogata dai bicchieri vuoti del caffè, l’umore piuttosto tranquillo, a giudicare dai dischi che ho messo, le prove un giorno sì e uno no, come sempre, ormai.
Il primo giorno avevamo fatto decisamente macello. Personalmente non ero abituata a suonare con qualcun altro, a differenza di Dharma, che anche quando abitavamo coi nostri genitori ha sempre suonato qua e là. Ronnie mi incoraggiava, al solito, però mi sentivo tesa, e anche la tacita presenza di Charlotte non mi aiutava davvero. Dio, quanto è silenziosa quella ragazza. Timida all’inverosimile. Mi faceva nascere spontaneo l’impulso di rompere il ghiaccio, usando però delle battute assolutamente scadenti.
Bella atmosfera, decisamente. Per fortuna che Dharma prese in mano la situazione e sbottò con un sonoro “E allora? Vogliamo starci a guardare nelle palle degli occhi per tutte e due le ore che abbiamo affittato questa topaia?”
Beh, che ci crediate o no, mi ha risvegliato, come se prima fossi in trance ipnotica.
“Io direi che per vedere se siamo in sintonia dovremmo suonare qualcosa che conosciamo tutte!” esclamai, di nuovo piena di entusiasmo.
“Potremmo fare un pezzo dei nostri…” azzardò Charlotte, con una vocina flebile. Sembrava essere scomparsa completamente dietro la batteria, e certo il suo fisico mingherlino la aiutava notevolmente a produrre questo effetto.
“Ah, no, io non faccio cover dei pezzi che suonano gli amici! Per principio” affermò Dharma, serissima.
“Vuol dire che non sai nemmeno suonarli, questi pezzi?”
“Ovvio, Les. Mi sembra di fare un plagio”
“Ma che logica del cazzo!” borbotto “Allora? Un gruppo che piaccia a tutte e quattro e di cui sappiamo suonare qualcosa?”
Iniziò Ronnie.
“Allora, a me piacciono gli Anthrax, gli Iron Maiden, gli Avenged Sevenfold…” elencò, contando sulle dita della mano.
“Ma che robaccia!” sbottò Dharma.
“Ma dai, i Maiden non sono male, presi a piccole dosi…” sghignazzai “certo è roba difficile” ammisi infine.
“E sentiamo...a te, Dharma, cosa piace?” la apostrofò Ronnie, sarcastica.
Cominciò a snocciolare nomi su nomi, tutta roba che ero ben lontana dal voler suonare. Per carità, i Jefferson Airplane, o Bright Eyes, mi piacciono, ma avrei voluto qualcosa di più energico.
Qualcosa di potente, particolare, anche innovativo, che si avvicinasse al sound ideale, quello che fa sì che la gente si ricordi di un gruppo.
“I Muse?” me ne uscii all’improvviso, accorgendomi che nello stesso istante anche la piccola Charlie aveva avuto la mia stessa idea.
Stranamente, fummo tutte d’accordo, e allora iniziammo a suonare New Born. Ok, iniziare iniziammo, ma nessuna iniziò a cantare. Ci inchiodammo, nel medesimo istante, come soldatini.
“Ehm…c’è un problema…” mormorò Charlie.
“CHI CANTA?” esclamammo in coro.
Ecco come fu effettuata la scelta.
Charlotte: "Ho poca voce, e comunque devo stare dietro alla batteria..." (in tutti i sensi.)
Dharma: "Ma vogliamo scherzare? Sono stonata come un campanaccio!"
Ronnie: "Devo fare gli assoli, non riesco anche a gridare nel microfono per tutta la durata di un pezzo. Al massimo posso fare i controcanti.”
Ecco cosa vuol dire nascere con una voce niente male. Ecco cosa vuol dire portarsi nel gruppo la propria migliore amica, che conosce ogni cosa di te, anche meglio di te.
Insomma, toccò a me quest’incombenza. Anche perché, quando giunse il mio momento, non riuscii a obiettare nulla.
“Dai che sei brava!” mi esortò Dharma.
Fanculo. Ma seriamente, fanculo. Io volevo suonare la chitarra, mica spaccare i timpani a quei poveri scemi che verranno a sentirci suonare.
Non potevo farci più niente però, perché quella cover di New Born venne bene anche grazie alla mia voce, e quindi fu ufficiale.
Io avrei cantato e suonato la chitarra.
Il nome del gruppo…beh, quello ancora non era venuto fuori.
Era bellissimo quando i gestori dei vari locali ci chiedevano il nome. Ci guardavamo tra noi, facce stolide e disarmate, e facevamo spallucce. Questo almeno le prime volte, quando ci accorgemmo che in quel modo non avremmo mai ottenuto di suonare, nemmeno nelle peggiori bettole.
Escogitai un piano d’emergenza, in attesa di tempi migliori. Fu un’intuizione felice e fulminante, perché eravamo ancora davanti a un gestore di una live house dalle parti del centro di Mahnattan, e mi ero francamente scocciata di alzare le spalle con fare imbarazzato.
“Il vostro nome quale sarebbe?”
Ci guardammo negli occhi, e capii che avrei dovuto dire qualcosa di intelligente per non ottenere lo stesso epilogo.
“Eh, sapessi, è un nome così stupido e senza senso che ci vergogniamo a dirlo…”
Ronnie mi guardò basita, Dharma era persa nel suo mondo fluttuante e Charlie taceva, ma aveva capito che era ora di cambiare copione, e implicitamente mi stava ringraziando.
“E sentiamo, io sono curioso di saperlo!” esclamò il tizio, sorridendo. Un ragazzo giovane, avrà avuto…hm…trent’anni? Ma forse anche meno. Molto carino, tra l’altro.
“Ah, bene…ci chiamiamo…parentesiquadrapuntinipuntinipuntinichiusaparentesiquadra!” sbottai, tutto d’un fiato.
Qualcosa di intelligente, eh? Oh, non importava. Stavo andando completamente a improvvisazione.
Il tizio sembrava stupito ma non si scompose più di tanto, insomma, forse stava andando tutto liscio.
E cazzarola, proprio in quel momento non si risvegliò Dharma dal suo letargo cerebrale?
“Ma che cazzo dici, Les!” esplose, di colpo.
Charlie, che aveva capito tutto, le mollò una gomitata e le fece cenno di tacere, una buona volta.
Brava, piccolina.
Grazie al mio clamoroso bluff però iniziammo a fare serate per New York, e presto iniziammo ad allargarci verso Trenton e il New Jersey. Certo, il nome era brutto, anche idiota, perché come fai a pronunciare […] senza incartarti prima, o sembrare un perfetto imbecille? Però provvisoriamente andava benissimo.
Il nome vero, quello con cui avremmo iniziato a farci conoscere a giro, e con cui avremmo inciso il nostro EP di lì a qualche settimana, sopraggiunse, come tutte le cose migliori, per puro caso.
Qualche giorno dopo vidi la porta del Countryhouse (perché questo nome? Beh, a Mike piace il brit-pop. Soprattutto i Blur.) aprirsi, e una figura familiare farsi avanti.
“Charlotte!”
“Ehi!” rispose, sorridendo e scuotendo la sua testolina bionda in segno di saluto.
“Posso…posso dare un’occhiata?”
“Me lo chiedi anche?”
“Beh, sì…” arrossì.
“Non c’è problema, fai pure!”
Quanto è timida.
Però, in quell’ambiente, sembrava perfettamente a suo agio, libera da quella patina di riserbo che la contraddistingue sempre, la differenzia da noi, tre casinare all’ennesima potenza. La sua tacita presenza è un elemento fondamentale per il nostro equilibrio. Siamo tre personalità forti, ma lei, col suo silenzio, la sua discrezione e il suo parlare solo quando ce n’è realmente bisogno, è più forte di tutte noi messe insieme, perché ci tiene cementate, ci aiuta a catalizzare la nostra energia in qualcosa di concreto e non dispersivo.
Ma vederla esaltata e sentirla lanciare gridolini di approvazione e adorazione per i dischi che prendeva in mano e scrutava con curiosità maniacale, mi fece capire che c’era un lato che non conoscevo, di quella piccola ragazza che suona la batteria nella mia band.
Lei ama quello che fa. Suona con devozione, perché è nata per fare quello, quasi come se, appena in fasce, le avessero messo le bacchette tra le manine. E quest’amore viscerale si vedeva anche da come spulciava i dischi.
“Waaaaah, i Queen, On Fire!” gorgheggiò, voltandosi verso di me, e sventolando un vinile tra le mani.
Mi persi quella virgola, e le risposi: “Queen On Fire? E chi sono?”
“No, il disco è dei Queen, s’intitola On Fire, è un live…” spiegò, paziente. Ma qualcosa, nella mia testolina bacata, stava già iniziando a muoversi. E le mie labbra si muovevano all’unisono coi miei neuroni, mormorando come un mantra quell’associazione di idee.
“Queen on fire…queen on fire…Charlie!”
Trasalì, e si voltò, anche perché prima di quel momento l'avevo sempre chiamata col nome intero, raggiungendomi al bancone. Lo sguardo dubbioso, in attesa di una risposta che non fosse bislacca come le mie solite.
“Potremmo chiamarci Queen On Fire, ti piace?”
Riflettè, poi annuì, sorridendo.
“Oggi alle prove lo proponiamo anche a Ronnie e Dharma” confermò, sorridendo con quella dolcezza che solo lei poteva avere, tra tutte le persone di mia conoscenza.
A Veronica piacque, a Dharma un po’ meno. Le sembrava troppo banale, ma convenne sul fatto fosse meglio di […], così acconsentì anche lei.
Avevamo anche un nome, perlomeno, un nome decente.
Le cose apparivano dannatamente facili, così tanto da non farci nemmeno destare una minima preoccupazione del futuro. Ce l’avremmo fatta, e basta.
Ma quell’imprevisto che è arrivato come un fulmine a ciel sereno ha cambiato completamente la mia prospettiva di vita, e mi ha fatto rivalutare alcuni concetti.
  
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