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Autore: CleaCassandra    19/02/2008    5 recensioni
*Ci sono diverse cose di cui i miei genitori non sono a conoscenza.
Ad esempio, non sanno che quando avevo quattro, o forse erano cinque, anni ho picchiato il mio amichetto del parco giochi. In realtà non ricordo nemmeno che faccia avesse, o il suo nome…boh, forse Bruce, o Billy, Bob, non so…ricordo solo che c’era una B di mezzo.
Fu una scena quasi comica: ci pestammo, da bravi discoli, per il possesso di un’altalena, manco a dirlo la più bella, quella che non emetteva il minimo cigolìo, ma soprattutto l’unica del parchetto; e nessuno a dividerci. Eravamo solo io e lui, quella mattina.
Dopo i pianti e gli strepiti di circostanza, però, accadde che il bimbo farfugliò che non avremmo dovuto dire nulla della nostra scaramuccia ai rispettivi genitori. La promessa che ci scambiammo era così solenne che non me la sentii di venirle meno, e così mantenni la parola. A quanto pare anche lui, visto che nessuno venne a reclamare alla nostra porta che “quella furia di tua figlia ha mollato un cazzotto al mio bambino!”, o comunque qualcosa di simile. Diciamo che avevamo entrambi dei vantaggi da trarre: io non sarei dovuta andare a testa a bassa a chiedere scusa, e lui non sarebbe stato tacciato già così presto di essere una specie di checca. Ovviamente, queste cose, due bambini di quattro o cinque anni non le sfiorano nemmeno col pensiero.
Quanto ai lividi, che inevitabilmente mi ero procurata… “Sono caduta dallo scivolo”.
Caso archiviato.
Ma fosse solo questo, ciò di cui i miei sono all’oscuro.*
Leslie, le sue amiche e compagne di band, e un avvenimento totalmente surreale che sconvolgerà per sempre le loro vite.
attention please: non conosco gli Avenged Sevenfold (e come al solito aggiungo 'magari li conoscessi davvero' :°D), quindi quello che ho scritto non li rispecchia davvero, insomma sono un parto della mia mente alquanto malata, e non intendo offendere nessuno in alcun modo con le mie storie, ma sempre meglio specificare, non si sa mai u_ù
Genere: Comico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Chapter 01 - The Patron Saint Of Liars And Fakes

Ci sono diverse cose di cui i miei genitori non sono a conoscenza.
Ad esempio, non sanno che quando avevo quattro, o forse erano cinque, anni ho picchiato il mio amichetto del parco giochi. In realtà non ricordo nemmeno che faccia avesse, o il suo nome…boh, forse Bruce, o Billy, Bob, non so…ricordo solo che c’era una B di mezzo.
Fu una scena quasi comica: ci pestammo, da bravi discoli, per il possesso di un’altalena, manco a dirlo la più bella, quella che non emetteva il minimo cigolìo, ma soprattutto l’unica del parchetto; e nessuno a dividerci. Eravamo solo io e lui, quella mattina.
Dopo i pianti e gli strepiti di circostanza, però, accadde che il bimbo farfugliò che non avremmo dovuto dire nulla della nostra scaramuccia ai rispettivi genitori. La promessa che ci scambiammo era così solenne che non me la sentii di venirle meno, e così mantenni la parola. A quanto pare anche lui, visto che nessuno venne a reclamare alla nostra porta che “quella furia di tua figlia ha mollato un cazzotto al mio bambino!”, o comunque qualcosa di simile. Diciamo che avevamo entrambi dei vantaggi da trarre: io non sarei dovuta andare a testa a bassa a chiedere scusa, e lui non sarebbe stato tacciato già così presto di essere una specie di checca. Ovviamente, queste cose, due bambini di quattro o cinque anni non le sfiorano nemmeno col pensiero.
Quanto ai lividi, che inevitabilmente mi ero procurata… “Sono caduta dallo scivolo”.
Caso archiviato.
Ma fosse solo questo, ciò di cui i miei sono all’oscuro.
Non sanno che fumo da quando avevo quindici anni, e che la prima sigaretta, una Lucky Strike, me lo ricordo come se fosse ieri, me la offrì proprio Dharma, nel bagno della scuola. Se lo sapessero, smetterebbero di idolatrarla. La adorano, letteralmente, come se mi avesse portato chissà quale salvezza, ai loro occhi. In realtà se c’è qualcuno che deve essere legittimato ad adorarla, beh, quel qualcuno sono io. Mi ha salvato da loro, non è cosa da poco.
Ma non voglio smontare le loro convinzioni, forse perché ho paura di un non del tutto improbabile effetto ‘domino’, che contribuisca a far crollare anche le mie, ed è per questo che tutte le assenze che facevamo, a giro per caffè, e poi in libreria, o nei negozi di dischi, o quelli di strumenti musicali, dove rimanevo fissa davanti alla parete delle chitarre, sono pressoché sconosciute agli abitanti di casa Root. Sì, sempre loro. I miei genitori.
Le chitarre potevo soltanto stare a guardarle. Non avevo soldi per prendermene una, e ai miei questo genere di cose non sono mai piaciute, per cui non avrebbero mai acconsentito a compramene una. Lo so perché chiedevo di continuo, più o meno velatamente.
“Mi piacerebbe imparare a suonare la chitarra…”
“Scordatelo.”
Col passare del tempo nemmeno lasciavano che la mia timida richiesta finisse di fluire dalla bocca. Mi fermavano al ‘mi piacerebbe’, ma che potevo farci. Sono sempre stati un po’ all’antica, e spartani nella condotta di vita, strana abitudine per dove abitavamo, e non sono mai stata quel genere di persona io, decisamente, per cui cercavo di arrangiarmi come potevo e , devo dire, è andata benissimo. Ormai sono anni che lavoro nel negozio di Mike, qui a Brooklyn, e questo, almeno, lo sanno. Non è che approvino, ma sul lavoro non si discute: lo so che avrebbero voluto che studiassi per diventare architetto, ma proprio non ci sono portata, e così, ovviamente, si prende quello che capita. Devo dire che il mio è un impiego altamente invidiabile, voglio dire, paga ottima, orario part-time, che diventa full quando Mike non sta bene, posso mettere la musica che voglio, e starmene circondata da dischi di ogni tipo, vinili, cd, dvd. È il paradiso.
Beh, sì, non l’avevo specificato, è un negozio di dischi, di quelli vecchio stile, un po’ bugigattolo stipato all’inverosimile di materiale e col retrobottega perennemente in disordine.
Adoro quel posto. Quando non girano molti clienti puoi anche fermarti a pensare, magari davanti a un frappuccino di Starbucks e con i Pink Floyd di sottofondo. E se sei incazzato, puoi sparare i Metallica, o i Pantera, gli Anthrax, o chiunque altro per loro, e Mike non dice niente, non batte ciglio, perché a lui la musica piace tutta, e non discuterà mai i tuoi gusti, anche se dentro di sé potrebbe pensare che siano privi di spessore, o dettati dalla moda del momento. Però te lo fa capire perché, tempo mezz’ora, e ti passa un album a caso, di quelli che preferisce, e sussurra: “Te lo scalo dalla paga. Ascoltatelo, merita.”
La prima volta è successo quando ho avuto l’azzardo di dire che gli Strokes non sono poi così male.
Mi ha detratto i Velvet Underground. I primi due. Quello della banana di Andy Warhol in copertina, e White Light / White Heat. E io mi fido di lui, così quando sono tornata a casa li ho messi, uno dopo l’altro, nello stereo, e gli Strokes mi sono sembrati una cagata, in confronto.
Devo molto, a Mike. Mi ha dato un lavoro, consentendomi così di non rubare più dischi a giro (c’è da dirlo? Vabbè, sì. Anche questa è una cosa che sfugge ai miei.), di andare a vivere da sola, o meglio, con Dharma, il suo gatto e il suo basso, e di comprarmi quella bella chitarra che mi folgorò anni prima, e che adesso mi vanto di saper suonare quanto basta per far parte di una band e non fare figure di merda durante i live.
Tutto questo grazie a lui, e a Ronnie.
Veronica. Sua sorella.
Lei sì che sa suonare, cavolo. E infatti ho approfittato, e mi sono fatta insegnare le nozioni fondamentali. Si stupì anche lei dei progressi e la determinazione che acquisivo col tempo, e mi spronava in tutti modi. Mi ha anche portato a comprare la chitarra. Una Epiphone Les Paul, di un lucido e brillante blu elettrico. Sono talmente innamorata della mia sei corde che ci dormirei anche, ma, dato il mio sonno turbolento, non è un’idea da contemplare, se non come una fantasia piuttosto divertente.
“Leslie, io dico che sei pronta” mi disse, quel giorno. In quel momento stavo provando una Fender, credo fosse una Telecaster.
“A fare che?” le chiesi, distogliendo la mia attenzione dallo strumento e fissandola piuttosto sbalestrata.
“A suonare in una band, che domande!”
“Beh, se non specifichi…non sono mica telepatica…e comunque con chi suonerei, che siamo solo io e Dharma? Manca tutto il resto.”
“Non è proprio esatto…”
“Ah…quindi?” continuavo a chiedere, con la faccia stolida.
“Avete anche un’altra chitarra” rispose, finalmente, indicandosi.
“E il tuo gruppo? Aspetta, eh….com’è che vi chiamate?”
“Heaven Is Good For Heroes…eh, Leslie, siamo in rotta.”
“Ah sì?” esclamai, sbigottita. Ronnie annuì, e nulla più.
“Dunque abbiamo bisogno solo di una voce e una batteria!”
“Abbiamo anche la batteria. Charlie ha detto che sarebbe un piacere, per lei, continuare a suonare con me.”
“Grandioso” farfugliai, sfiorando distrattamente le corde della Telecaster, o quello che era.
“Però voglio un nome migliore per la band, non offenderti, Ronnie, ma quel coso fa veramente pena!” affermai, e lei rise. Posai la Fender e mi concentrai su quella Epiphone. Una Gibson mi sembrava ancora troppo, per il mio livello. La provai, me ne innamorai, la portai a casa e accarezzai le sue corde tutta la notte, tanto che Dharma, ormai arresasi alla prospettiva di non chiudere occhio almeno fino a che non fossi andata a lavorare, prese il basso e si mise a suonare con me. Una bella jam session, a essere sinceri.
È passato un anno e mezzo, da quel giorno. Stiamo suonando un po’ a giro per la città, e anche nei dintorni, New Jersey e posti del genere, e staremmo anche cercando di incidere qualche pezzo, tra la valanga di quelli che abbiamo scritto, ma la quantità di soldi che abbiamo è quella che è, per cui ancora nulla di fatto.
E così, ho una band.
Ma, ovviamente, i miei ancora non lo sanno.
  
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