» CAPITOLO 02
in
lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva
lanciare.
Il
primo ad armarsi fu Fraser e subito dopo si udì il grido di una bambina. Lyosha temette per la sorella ma vide che Ariel stava
ancora correndo, ma non verso la Cornucopia: aveva adocchiato un piccolo
zainetto che sbucava appena dall’acqua sporca, pensò che fosse davvero brava:
non si era gettata in mezzo ai combattimenti e ringraziò mentalmente il cielo
per il buonsenso di cui era stata dotata e aveva seguito il consiglio che Lloyd
ripeteva ogni giorno da quando era diventata Mentore, e la cosa comica era che Cecelia non la fermava – a quanto pareva, era un suggerimento
molto efficace. Senza che se ne accorgesse lui si stava già affrettando per
raggiungerla.
Poteva
quasi ritenersi soddisfatto, Lyosha: si sarebbe
riunito a sua sorella ed insieme avrebbero cercato un posto dove nascondersi,
elaborare una qualche tattica scadente per tentare di sopravvivere e lasciare
che gli Hunger Games
facessero il suo corso, l’avrebbe protetta dagli aggressori come poteva e lei
sarebbe diventata la Vincitrice, tornando a casa. Ma prima di raggiungere la
piccola Ariel si ritrovò davanti la ragazza del Distretto 7 (la riconobbe dal
numero stampato sul colletto della giacca e dai capelli ramati che erano stati
lodati durante la sua intervista), doveva avere la sua età – ma non fece in
tempo a capirlo che l’avversaria gli sferrò un pugno dritto sulla guancia,
facendolo barcollare e poi cadere nell’acqua, quando aprì gli occhi notò che la
giovane donna aveva estratto dalla cinghia dei pantaloni un coltello lungo e
sottile, fece per calarlo su di lui ma Lyosha ruzzolò
di fianco, allora lei riprovò a colpirlo tagliandogli la giacca e ferendogli il
braccio, Lyosha ingoiò un paio di volte l’acqua
melmosa che scese come veleno nella sua gola.
Ci siamo, si disse, alla
prossima muoio. E nel momento in cui si immaginò il coltello piantato nel
petto una pietra colpì la ragazza sulla spalla facendola cadere di fianco a
lui. Prontamente Lyosha afferrò il pugnale, la bloccò
con la faccia nell’acqua mentre questa si dimenava furiosamente, si mise a
cavalcioni su di lei e appoggiò un ginocchio sulla spalla ferita di lei
appoggiandoci tutto il peso del suo corpo e con un movimento fluido e istintivo
le piantò la lama nella schiena, sfilandole poi dal braccio una sacca che aveva
raccolto alla Cornucopia.
Alzò
lo sguardo, realizzando che a lanciare la pietra era stata Ariel, ora immobile
a pochi metri da lui, spaventata. Lyosha la guardò
con preoccupazione e prima che potesse constatare quante altre persone erano
morte nel giro di quei istanti e quante stessero ancora combattendo, si alzò,
afferrò la sorella per il braccio e scappò tra gli alberi.
In
lontananza si udì un altro urlo.
◊ ◊ ◊
Sembravano
essere passate già ore, ma qualcosa dentro di lui diceva che erano trascorsi
solo pochi minuti. Camminava con il fiatone dopo una corsa estenuante in un
terreno fatto di cespugli, radici e terra bagnata, tenendo la sorella stretta
per il polso. Aveva fatto come gli era stato detto da Lloyd: aveva corso, corso per sua sorella.
«Sono
stanca…» mormorò flebilmente. Allora si sedettero su
una grossa radice che spuntava fuori dal terreno dietro un arbusto molto folto.
Sapeva che era un pessimo nascondiglio e quindi pregava che gli altri fossero
così impegnati ad ammazzarsi tra loro da non aver fatto attenzione alla
direzione presa dai due.
Lyosha ripercorse velocemente quei primi momenti degli Hunger Games: una bambina era
morta e lui aveva già ucciso una persona, i sensi di colpa lo invasero, presto
cancellati da tre semplici parole: istinto
di sopravvivenza. Ripensò al corpo inerme della ragazza del Distretto 7 e
al sangue che sgorgava dalla sua ferita sporcando l’acqua di rosso – scosse la testa, scacciando quei
pensieri: ci avrebbe pensato durante la notte, mentre quelle immagini lo avrebbero
tormentato sottoforma di incubi, o almeno così pensava.
Capì
che non era il doversi uccidere che li rendeva simili alle bestie, quando
l’istinto che prendeva controllo delle
azioni e facevano far loro cose di cui non si sarebbero mai creduti
capace, come uccidere; pensò alla sorella e al lancio del sasso, e questo gli
bastò per avere conferma della sua teoria.
Si girò a guardare Ariel: aveva una tuta uguale
alla sua ma che si differenziava solo per il taglio femminile. I capelli erano
raccolti in uno chignon strettissimo con un elastico nero e in mezzo
all’adrenalina parecchi ciuffi si erano liberati dall’acconciatura e le
ricadevano scomposti attorno al viso, alcuni erano attaccati alle tempie e ai
zigomi per il sudore e le guance arrossate dal caldo e dalla fatica.
Era davvero successo, allora: erano dentro gli Hunger Games. Niente brutto sogno
come aveva sperato, niente scherzo, nulla di tutto questo. La fuori c’erano
almeno altri venti ragazzi pronti a scatenare tutto il loro “istinto di
sopravvivenza” – esattamente come i due e non importava distretto, sesso o età
della vittima. Sospirò pesantemente passandosi una mano tra i capelli e allora
si ricordò di essere stato ferito al braccio, avrebbe voluto biascicare qualche
imprecazione ma si limitò a digrignare i denti mentre si faceva sempre più
consapevole del dolore. Si tolse la giacca con movimenti goffi, potendo usare
un arto solo e notò uno squarcio scarlatto sul bicipite.
Ariel lo guardava nella speranza di essere
rassicurata o comunque di vedere nel fratello una guida, ma quando notò la
ferita capì che doveva fare qualcosa, iniziò quindi a frugare negli zaini che
avevano raccolto, incominciando dal proprio: era piccolo e conteneva un
coltello, un accendino (che ci avrebbe fatto, con un accendino?, dato fuoco ai
capelli di un qualche tributo?... ma se era dentro lo zaino, doveva servire a
qualcosa!) e un piccolo cilindro che all’interno conservava un tubetto con
delle pastiglie verdi e una boccetta spray piena di liquido ambrato e nessuna
indicazione su come usarlo.
Lanciò uno sguardo rapido al fratello il quale
aveva già rubato il coltello uscito dallo zaino di Ariel e con quello si
tagliava alla bell’e meglio della stoffa dalla manica della giacca della tuta.
Rapida, afferrò la borsa che aveva rubato alla ragazza e dentro vi trovò una
coperta, una scatolina con della mela tagliata a fette e delle pasticche
sottilissime e di diametro maggiore rispetto alle altre, erano impilate come
delle monete e tenute assieme da un filo: uno splendido pacco regalo per chi
sta andando in contro alla morte.
«Che faccio?» chiese, guardando ciò che avevano
sparso sull’erba, i suoi occhi volavano veloci da una parte all’altra del suo
campo visivo soffermandosi rapidamente su ognuno degli oggetti, come per capire
cosa potesse servire a cosa. Non sapeva quale pasticca o se la boccetta
servisse per la ferita del fratello che, tral’altro,
sembrava dolergli molto. Non riusciva a ragionare e tantomeno a rievocare i
ricordi dei pseudo-corsi di sopravvivenza che aveva
fatto in quelle due settimane di preparazione, «Thanh…
che faccio?» richiese alzando la voce, non ottenendo ancora risposta,
«DANNAZIONE LYOSHA CHE DEVO FARE!» disse poi a voce alta, troppo alta per non
ottenere reazione dal fratello che, in tutta risposta, si buttò su di lei con
la mano del braccio buono sulle labbra e un’urgente richiesta di silenzio negli
occhi.
Silenzio, la cosa che Lyosha
richiedeva e che riusciva a fare meglio.
Le mise in mano il coltello con la lama posta in
orizzontale, cercò a tastoni l’accendino in mezzo all’erba e, dopo aver provato
più volte a farlo scattare, notò con piacere la fiammella che ballava. Con
cautela andò a mettere il fuoco sotto la lama, aspettando pazientemente che si
scaldasse.
Ariel capì. Glielo avevano insegnato a Capitol City, come curarsi una ferita nel modo più efficace
possibile, serviva solo ferro e fuoco e si dava il caso che loro avessero
entrambi, si chiese se l’accendino servisse proprio a quello. Fasciarsi una
ferita non le sembrava una buona idea, qualcosa – guardando quel posto – le
diceva che ci sarebbero stati svariati modi per procurarsi una qualche
infezione, e quindi cicatrizzare il taglio era la cosa migliore che potesse
fare.
Al pensare alla lama rovente sul braccio del
fratello, la mano di Ariel tremò e gli occhi si gonfiarono di lacrime: avevano
appena iniziato e lui già doveva soffrire per la sopravvivere, e lei lo sapeva
che lo stava facendo per la sua sorellina.
Si chiese quanti di quei tagli si sarebbe chiuso ancora per proteggerla, perché
era così che si erano messi d’accordo: lui sarebbe vissuto per proteggerla, e lei
sarebbe tornata a casa, vittoriosa e sorridente.
«Bruciando il tessuto viene prodotto calore il
quale produce la coagulazione delle proteine dei tessuti organici circostanti
la ferita» recitò lei, ricordando le parole degli allenamenti senza sapere
realmente il loro significato. Era sempre stata brava a ricordare... era brava
a fare un sacco di cose in effetti, eppure tutte sembravano futili davanti alla
crudeltà di quei giochi.
Lyosha
alzò lo sguardo e sforzò un sorriso, che sembrò più una smorfia di dolore mal
celata.
Aspettarono in silenzio che la lama fosse
abbastanza calda, con le orecchie ben tese per sentire l’arrivo di qualcuno, il
sangue continuava a sgorgare dalla ferita mischiandosi con il sudore e
sporcando con lunghi rivoli il braccio magro ed esile di Lyosha,
inappropriato per combattere, provocandogli un fastidio enorme perché lui
odiava essere sporco – ma si rese presto conto che la sporcizia sarebbe stata
inevitabile, lì dentro.
«Ci siamo» mormorò pianissimo Ariel, come se avesse
paura che qualcuno li stesse guardando oltre il cespuglio. Lyosha
annuì piano e riposò l’accendino sull’erba, si allungò a prendere la giacca e
tamponò la ferita in modo da riuscire a distinguere il taglio dal sangue,
consapevole che l’avrebbe buttata molto presto, con un gesto della mano si fece
passare il coltello rovente.
La più piccola si tappò le orecchie e strinse le
palpebre girandosi dall’altra parte, nonostante sapesse che Lyosha
non avrebbe neanche grugnito, solo storpiato i suoi lineamenti ancora da bambino
senza proferire neanche un rumore.
E poi le fece, premette il ferro rovente contro il
braccio mentre il calore si espandeva come fitte di dolore tra i muscoli,
dentro i nervi. Strinse i denti attento a non mordersi la lingua e chiuse gli
occhi, sentendo le lacrime scendere presto sulle goti per il dolore.
Si diede dell’idiota, perché stava davvero
piangendo per quella che poteva considerare una sottigliezza.
Quando allontanò la lama dal braccio e riaprì le
palpebre lentamente, lasciò che il coltello cadesse a terra e afferrò il lembo
di giacca nella mano buona, chiamò Ariel toccandole la spalla e le fece segno
di legare il tessuto attorno alla ferita, una precauzione abbastanza inutile,
ma era qualcosa che gli dettava la coscienza e Lyosha
non si sentiva in grado di obbiettare.
Si chinarono sugli oggetti per rimetterli nei due
zaini, la ferita gli pulsava ancora sotto il bendaggio improvvisato ma Lyosha confidava nel tempo che leniva ogni cosa, anche il
dolore. Ripiegò alla bell’e meglio la coperta e in quel momento qualcosa gli si
bloccò in gola, come se si fosse completamente chiusa.
Si mise una mano sulla bocca e una sullo stomaco,
iniziando a tossire violentemente, piegò il capo di lato e rigettò succhi
gastrici e acqua. Faticava a respirare e il corpo iniziò a tremare, quasi preso
dagli spasmi, il freddo gli colò sulla pelle come una doccia ghiacciata.
Ariel lanciò un urlo e si tuffò sul fratello,
facendogli alzare il viso e pulendogli con le mani le labbra dal vomito,
incurante della spiacevole sensazione. Lyosha alzò le
mani e fece pochi movimenti per dire solo tre parole alla sorella: l’acqua era avvelenata.
◊
◊ ◊
Sul treno, Lloyd era seduta davanti a loro in una
di quelle costose poltrone in pelle, Cecelia era
andata un attimo ai servizi, informando i due tributi che si sarebbe presentata
poi. La Mentore incrociò le dita delle mani e chinandosi in avanti appoggiò i
gomiti sulle ginocchia, li osservava con discreta curiosità e uno scintillio
negli occhi, fece schioccare la lingua contro il palato e si alzò a prendere un
bicchiere di cristallo, riempiendolo con una strana bibita azzurrina dai
riflessi lilla, «d’accordo, questo è il piano:» rimase ferma in piedi mentre
ingurgitava il contenuto del suo bicchiere, «dovete capire i segreti
dell’Arena, ci sono sempre dei segreti nell’Arena. E per quanto sia allettante
l’idea di armarsi e tagliare le gole degli altri tributi, le cose veramente
utili sono negli zaini, solitamente ti danno abbastanza cose per sopravvivere
almeno il primo giorno. Cecelia vi dirà le stesse
cose in modo più carino».
Un sorriso felino comparse sul volto di Lloyd, Lyosha si chiese sinceramente come avesse fatto a vincere,
e soprattutto a quale edizione avesse vinto, considerando che non dimostrava
più di trenta, trentacinque anni, «andiamo a mangiare? Muoio di fame».
In silenzio, si alzarono tutti e si diressero verso
il vagone allestito per l’occasione, a guidare vi era la donna che
rappresentava il loro tributo – che non aveva detto una parola, sul treno, non
sembrava una persona molto spensierata – dai lunghi capelli arcobaleno e
acconciati il mille treccine a loro volte raccolte in una coda di cavallo fatta… a sfere? Lyosha non sapeva
spiegare. A seguire Lloyd in un silenzio religioso, si limitava a far dondolare
il resto del liquido dentro il bicchiere con movimenti del polso, Ariel andava
subito dopo la Mentore con un braccio teso all’indietro, ed infine Lyosha che le avvolgeva il piccolo palmo con le sue lunghe
dita ossute.
Erano le dita che le avevano cucito l’abito che
indossava alla Mietitura, pensò, le dita del suo fratellone.
«Dobbiamo
imparare a non perdere tempo a piangere sulle nostre ferite,
come un bambino
appena caduto, ma abituarci a scacciare il dolore
curandoci le ferite
ed emendando i nostri errori il prima possibile.»
[PLATONE; “Repubblica”]
NOTE
D’AUTRICE ◊ «viviamo e
respiriamo parole»
Ebbene,
si va avanti.
Ho
pensato molte volte a come mandare avanti questo capitolo, che in tutti i casi
sarebbe stato drammatico, certamente, ma c’era da aspettarselo da una come me.
E
chi mi conosce, lo sa.
Non
mi sento di aggiungere altro su questo capitolo, perché sostanzialmente parla
da solo, e non vedo cosa dovrei spiegarvi ancora. Oh sì, è chiaro che non sono
una cima in medicina e quello che scrivo non ha fondamenta solide, sono solo
frutto di qualche ricerca su internet o, nel peggiore dei casi di “sentito
dire”, tuttavia non arriverò a dirvi che il cielo è viola e fatto di
porcospini, a meno che non si trattino di aghi inseguitori. Ma questa è
un’altra storia.
Vorrei
proporvi ancora una volta una canzone, stavolta prettamente strumentale, ve la linko qui di seguito: Circadian
Eyes ~ Finding Silence.
Mi
scuso per eventuali errori di grammatica e/o digitazione, a volte, dopo la
terza volta che si rilegge lo stesso scritto anche a distanza di tempo, non si
riesce a vedere l’errore. E questo posso confermarvelo con fondamenta solide x°
Spero
che questo capitolo vi sia piaciuto come il precedente, quindi ♡
Alla
prossima!
radioactive,
EDITs; ricordate che un commento, anche dopo tanto, fa
sempre piacere!
03/11 – cambio grafica e revisionato il testo non
betato, aggiunta presenza di Cecelia
nella scena iniziale e finale, modificato corposamente l’ultimo paragrafo e
cambiato stile di scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più
Distretto uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).