~ Suicidio
Esme Ann Platt, in Evenson,
era in piedi su una frastagliata scogliera, e fissava il mare sottostante.
Voleva finirla.
Finire quella vita che era si trasformata un incubo da quando si era sposata. Il
matrimonio le aveva procurato solo terrore, violenza,
abusi, fuga, suo figlio morto.
La vita non le avrebbe riservato niente di buono, mai più.
La vita l’aveva distrutta.
Viveva, ma non era viva.
Aveva il cuore spezzato, non
aveva più lacrime da versare, non aveva modo di calmare il suo dolore.
Tanto valeva morire.
Esme si gettò dallo scoglio:
il vento le sferzava la faccia mentre la gravità la
trascinava verso il basso, verso la morte.
Il suo corpo sbatté
violentemente più volte contro gli scogli duri e spigolosi; quando cadde in
mare, nel perdere le forze ringraziò l’acqua gelida e salmastra che alleviava e
attutiva il dolore delle escoriazioni, delle lacerazioni e dei traumi che la
caduta le aveva inferto.
Il sangue si mescolava con il
mare, la vita si stava mescolando con la morte, il corpo si sarebbe
mescolato con il fondale sabbioso. Il mare, ormai, si stava chiudendo su
di lei come un’enorme bara dipinta di blu.
All’improvviso un corpo la
riportò in superficie.
Non vide chi l’aveva
riportata, contro la sua volontà, alla vita. Sentì, per quanto glielo consentissero le sue stentate forze e l’acqua che le aveva
invaso il corpo, parlare a lungo, come se chi la teneva in braccio stesse
decidendo cosa fare della sua misera vita. Passò un po’ di tempo prima che due
spessi spilloni appuntiti le perforassero il collo.
Pervasa da un violento e ardente
dolore fuori dal comune, Esme perse i sensi e non
sentì più niente.