Quella
mattina, quando mi svegliai, Shannon non era lì
con me.
Il letto era vuoto ed i suoi
vestiti erano spariti. La debole luce mattutina filtrava attraverso le
sottili
tende blu e la stanza del motel era in penombra. Di lui erano rimaste
soltanto,
sul cassettone vicino alla porta, le rose rosse che mi aveva regalato
la sera
prima, un po’ appassite, ma che sembravano emanare ancora il
loro profumo
delicato. Toccai il cuscino dove aveva dormito, lì accanto a
me: era ancora
caldo. Se n’era andato da poco, dunque. E non mi aveva
svegliata. Accidenti.
Era un po’ di tempo che
ci
frequentavamo, ma quella era la prima volta che facevamo
l’amore. Dopo una
romantica cena a lume di candela, avevamo deciso che era giunto il
momento,
dopo tanto tempo e miriadi di baci appassionati. Avevamo scelto un
motel
fuori città, piccolo e poco frequentato, ed era accaduto
tutto perfettamente
come doveva accadere. Ma, a quanto pareva, non tutto aveva funzionato a
meraviglia. Qualcosa non era andato bene e lui mi aveva lasciata
lì. Da sola.
Nonostante questo, io non
volevo andarmene di lì. Ero amareggiata e molto, ma non
volevo, anzi non potevo
andarmene così da quella stanza. Non era giusto, e non ne
avevo voglia, che
fosse già finita, non in quel modo brutale. Avevo immaginato
di svegliarmi tra
le sue braccia ed invece…
Decisi di farmi una doccia e
di aspettare ancora un po’ per godere della piccola
intimità di quel luogo e
dei dolci ricordi che ancora aleggiavano nell’aria, dei
sospiri, delle parole.
Casa mia mi sarebbe sembrata ancora più fredda e vuota.
Andai
in bagno, mi infilai sotto la doccia e lasciai che l’acqua
calda scorresse su
di me, portando via il profumo di Shannon e le tracce delle sue carezze.
Quando
uscii mi avvolsi in un asciugamano bianco e cominciai a pettinare i
miei lunghi
capelli davanti allo specchio del bagno, combattendo con
l’umidità che tentava
di cancellare la mia immagine.
Ad
un tratto sentii bussare: sospirai di sollievo. Sapevo già
chi era, ma potevo
tranquillamente recitare la mia parte.
“Chi
è?” dissi, avvicinandomi alla porta.
“Shannon.”
Aprii
la porta e lui entrò.
Indossava
la sua divisa nera ed era bellissimo. I suoi occhi di un colore
indefinito, forse verdi, forse marrori, si posarono su
di me facendomi scorrere un brivido sulla schiena. La barba appena
accennata
era castana, come i suoi capelli, corti e irti. Il suo sorriso era
unico, dolcissimo.
“Scusami.
C’è stata un’emergenza. Sono dovuto
andare via.” Disse, chiudendosi la porta
alle spalle.
Sorrisi
anch’io, sollevata: “Non importa.
L’importante è che tu sia tornato.” Non
era
andato via perché non mi voleva bene. E questo mi bastava.
“Sì,
ma con la paura di non trovarti più.”
Non
risposi, ma mi limitai ad aprire le braccia. Lui avanzò
verso di me e mi mise
le mani sui fianchi, stringendomi a sé, contro il suo corpo
muscoloso. Poi
appoggiò le labbra sulle mie e mi baciò.
Avrei voluto che si
togliesse la divisa come era avvenuto la sera prima e che mi portasse
ancora
sul letto, ma lui si staccò da me e, guardandomi in viso,
disse: “Come nelle
migliori tradizioni, ho due notizie, una buona e una cattiva. Quale
vuoi
sentire per prima?” Sembrava preoccupato, i suoi occhi si
erano fatti torvi, le
sopracciglia aggrottate.
“Quella
cattiva”, gli risposi “
perché così quella
buona mi sembrerà ancora più buona.”
Lui sollevò una mano per
spostarmi una ciocca di capelli bagnati dal viso, sorridendo
debolmente:
“Pensavo avresti scelto quella buona per prima,
così quella cattiva ti sarebbe
sembrata meno cattiva.”
“Dai, dimmi cosa
c’è.”
“Devo andare via per sei
mesi. Forse non potremmo sentirci perché dove vado le
comunicazioni sono
precarie per non dire inesistenti. Inoltre devo partire immediatamente,
nel
giro di mezzora o anche meno.”
Abbassai gli occhi,
sconfitta, e sospirai. Certo, non ci voleva, ma dopotutto non era la
fine del
mondo, era il suo lavoro che lo portava spesso lontano da me, purtroppo.
“E la notizia
buona?” gli
dissi, speranzosa.
“Quando torno voglio
sposarti. Mi concedono un riposo di tre mesi durante il quale vengo da
te e ci
sposiamo. Tu sei importante per me e non voglio perderti.”
Improvvisamente
un’ombra gli passò sul bel viso.
“Ovviamente se vuoi. Tu vuoi sposarmi?”
“Ma certo,
Shannon!” Gli
risposi convinta. “Sicuramente, non potrei desiderare di
avere un marito
migliore.”
Lo baciai sulle labbra
nuovamente, accarezzandogli il viso, mentre lui mi stringeva forte. Poi
abbandonai la testa sulla sua spalla e restammo abbracciati
così per un po’, in
mezzo alla stanza.
“Purtroppo, ora devo
andare.” mi disse, appoggiando la sua fronte alla mia,
“Devo preparare delle
cose prima dell’imbarco.”
Ci staccammo con rammarico,
tenendoci per le mani per un momento.
“OK. Vai. A presto, amore
mio.”
“No. Vai tu.”
“Va bene. Ciao,
Shan.”
Afferrai l’asciugamano e me lo sfilai di dosso. Mentre lo
gettavo per terra e
vedevo lo sguardo stupito di Shannon, dissi
“Sganciare!”
Non vidi mai
l’asciugamano
arrivare a terra. La stanza d’albergo svanì e
così il mio uomo. Mi ritrovai
nella mia camera da letto, nel mio letto, con i sensori della
realtà virtuale
attaccati al mio corpo e collegati al computer.
Li staccai e mi girai verso
la console. Il video lampeggiava. Lo toccai e mi ritrovai faccia a
faccia con
Shannon.
“Ciao, amore
mio.” Mi disse
sorridendo, agitando il dito indice, come a farmi una ramanzina.
“Sei stata
birichina, bello scherzo… sparire
così…”, si mise a ridere di gusto.
Gli restituii un sorriso
malizioso: “Me l’ha detto lei, Capitano, di
andarmene ed io le ho prontamente
obbedito.”
“Sei tremenda.”
“Mi raccomando, stai
attento. Dove sei diretto?”
“Asteroidi tra Marte e
Giove. Dobbiamo passarne in rassegna un po’ per vedere se
sono adatti
all’utilizzo estrattivo. Insomma, una passeggiata,
più lunga che pericolosa.”
Storsi il naso, poco
convinta: “Non sei capace di mentire: forse dovevi dire
più pericolosa che
lunga.”
Sorrise, sentendosi scoperto,
e tentò di cambiare argomento: “Tu che
farai?”
“Tra quattro mesi ho
finito
questo lavoro sulla Luna e ritorno finalmente sulla Terra. Dove ti
aspetterò
con impazienza.”
Vidi Shannon girarsi di
scatto verso la porta della sua camera mentre la sirena avvertiva
dell’imminente partenza dell’astronave.
“Devo andare.”
Disse, quasi
alzandosi dalla sedia. “In plancia hanno bisogno di
me.”
“A presto.”
“Arrivederci,
cara.”
“Ti amo, Shan.”
“Anch’io ti
…”
La comunicazione si
interruppe ma in cuor mio speravo che anche lui mi avesse detto
“Ti amo”.
Restai per un attimo a
fissare il monitor ormai nero. Poi sospirai e spensi il computer. Era
stato
tutto molto bello ma…
Nonostante tutto, un certo
senso di amarezza abitava dentro di me: in realtà, io
Shannon non lo avevo mai
toccato né baciato, anzi non lo avevo proprio mai
incontrato. Lo avevo
conosciuto, come ormai avveniva normalmente anche per gli altri esseri
umani
sparsi per il sistema solare, per via telematica, navigando per la
Rete.
Non sapevo se quello che avevo
sentito fossero le sue mani, le sue labbra o solo onde
elettromagnetiche che
attraversavano alla velocità della luce la distanza che ci
separava, i miliardi
di chilometri di spazio vuoto tra Marte e la Luna.
Non sapevo nemmeno che viso
avesse. Magari quello che credevo di avere visto non era il vero
Shannon. Ma
qual era il vero Shannon? Poteva anche essere che l’uomo che
amavo non esistesse
affatto, fosse solo un sogno, un
virus dentro il mio computer, un insieme di bit che giravano vagabondi
per il cosmo.
Rischiavo la paranoia. Non
dovevo pensarci. Dovevo credere che fosse stato tutto vero, che non
fosse un
imbroglio. Dovevo fare come facevano tutti gli altri. Certamente i
programmi
per la realtà virtuale erano controllati e ricontrollati,
blindati, sicuri,
erano stati fatti apposta per consentire alle coppie lontane per tanto
tempo di
stare insieme almeno virtualmente, erano praticamente perfetti, ma…
Ma non avrei avuto pace
finchè non lo avessi visto in carne ed ossa e non attraverso
un computer. E
avrei dovuto aspettare sei lunghissimi mesi.
Oppressa da questo pensiero,
con fatica mi alzai per andare a vestirmi, per andare ad infilarmi la
mia, di
divisa. Era tempo di andare a lavorare in laboratorio. Feci mestamente
colazione ed uscii dalla mia stanza che ormai veramente mi
sembrava quasi lugubre, una delle tante presenti nella base lunare, un
loculo da cui fuggire il più velocemente possibile,
senza girarsi indietro.
Camminando per il corridoio
guardai dalle finestre, distratta, la grigia e butterata superficie
lunare sotto
di me. Completamente spoglia, era ancora rischiarata dalle luci al neon
della
base, dato che il sole non era ancora sorto.
Ma improvvisamente e senza sapere
perché, puntai
lo sguardo verso il cielo nero e, con sorpresa, mi bloccai e mi
appoggiai alla finestra per guardare meglio. E allora capii che dovevo,
dovevo
credere.
Shannon esisteva. E mi
amava, veramente.
Perché, come un rubino
rosso sangue appoggiato sul velluto, vedevo Marte brillare alto nel
cielo nero trapuntato di
stelle. Ed era bellissimo.