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Autore: Alchbel    16/08/2013    2 recensioni
La soddisfazione che stava provando in quel momento, il sentire il potere che scorreva nelle sue vene come fosse sangue, il sorrisetto superiore che restava stampato sul viso come marchio della sua essenza: Sebastian Smythe non era mai apparso tanto raggiante mentre camminava per i corridoi della Dalton con fare maestro nonostante stesse in quella scuola da meno tempo della maggior parte dei ragazzi che incontrava.
Thadastian - Klaine - Niff e chi più ne ha più ne metta :D
Partendo da "On my way" e provando ad inserire qualcosa di un po' diverso, una nuova long ^^
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Sebastian Smythe, Thad Harwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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~ Epilogo:  A new start ~

We do not choose love. It claims each man as it will.

(Spartacus.)

 

 

 

Gli sembrava di non essere più in grado di respirare e allo stesso tempo che la cosa non gli importasse affatto. Non aveva idea di quello che lo circondava né del proprio corpo: tutto quello che percepiva – e che contava – era il corpo inerte di Thad Harwood tra le sue braccia, il pallore malato che lo copriva, la ripugnante sensazione che fosse colpa sua.

Doveva fare qualcosa, risvegliarlo in qualche modo, ma non sapeva come, cosa gli fosse concesso e cosa no, fin dove potesse spingersi, mentre il panico lo prendeva al petto con forza sempre maggiore.

«Thad? THAD?!», lo chiamò scuotendolo senza successo per le spalle: il ragazzo rimaneva al suo posto, il pallore malato che pareva renderlo più chiaro ogni istante che passava, come se stesse sul punto di scomparire.

Sebastian si accorse di non essere in grado di tenere ferme le proprie mani e la cosa lo bloccò di nuovo: tremava tutto. Non stava succedendo davvero, non a lui. Stupido. Idiota masochista che non sapeva tenere a bada emozioni che neanche avrebbe voluto provare: ora ne avrebbe pagato le conseguenze. E non sarebbe stato il solo.

Non si sentì gridare, la voce parve arrivare da lontano, sfiorare appena le sue orecchie, così improbabile, così estranea che la mente non la prese neanche in considerazione. La prossima cosa che il suo corpo registrò fu il movimento di qualcuno davanti ai suoi occhi e una strana sensazione di freddezza: non stringeva più tra le braccia il corpo di Thad – qualcuno doveva averlo preso, portato via. Quell’assenza sembrò così definitiva da minacciare di farlo crollare, ma allo stesso tempo fu troppo brusca perché Sebastian non reagisse.

In un istante tornò in sé, ricompose i propri pezzi e si ordinò di reagire.

«Dove l’hanno portato?», chiese, senza sapere bene chi avrebbe risposto.

«Nick ha chiamato un’ambulanza, James l’ha portato di sotto».

La voce di Richard, accanto a lui, fu improvvisamente qualcosa di logico, atteso: aveva notato gli sguardi discreti ma vigili con cui in quei giorni lo aveva osservato, aveva intuito la sua preoccupazione e ne aveva inconsciamente preso nota, nonostante il superficiale fastidio che sentiva di dover provare per quell’ingerenza non richiesta. Trovarlo lì, in quel momento, era stato naturale.

«Voglio andare con lui».

Non si concesse tempo per riflettere, per prendere atto della propria scelta: ci avrebbe sicuramente ripensato e non voleva farlo.

Richard intanto aveva guardato Cameron che si era immediatamente mosso verso le chiavi della macchina. Anche Smythe riuscì a prestare attenzione a quel movimento ed annuì, alzandosi – era ancora riverso in modo scomposto sul pavimento – e sistemandosi la giacca. Non disse altro: non pensò neanche per un istante di fare il viaggio in ambulanza – qualcosa gli diceva che Nick e Jeff erano con Harwood e non riusciva ad immaginare una compagnia migliore per il ragazzo.

Salì in macchina cercando di non pensare a nulla, per quanto stralci del litigio di poco prima gli ronzavano in mente come mosche fastidiose.

“Non era un semplice consiglio! Eri tu, che ti interessavi!”

Era stato così palese, quindi? Anche quel semplice consiglio, che sarebbe potuto essere di chiunque, se pronunciato da lui nascondeva un particolare interessamento? Non era quello che voleva, dannazione! …O forse sì? Non c’era dubbio che quella di rivolgergli simili parole dopo tutto il silenzio che si era imposto era stata una mossa particolarmente stupida: una parte di lui era stato sempre certo che non avrebbe portato a nulla di buono, ma forse proprio per questo non si era fermato, per questo aveva agito pur sapendo che c’era l’altissimo rischio di mandare all’aria tutti i buoni propositi con cui si era bloccato fino a quel momento.

Voleva farlo. Era stanco. E sentiva la mancanza di Thad.

 

*

 

Burt Hummel leggeva il giornale con una certa leggerezza, come se si fosse abituato a quella nuova routine fatta di nottate passate a vegliare su suo figlio e mattine accompagnate da caffè scadente e quotidiano da sfogliare.

A Kurt, invece, quella situazione dava la nausea – il che, probabilmente, si sarebbe potuto considerate un progresso rispetto all’apatia dei giorni precedenti.

«Papà… ricordi quando ho imparato ad andare in bicicletta?».

L’uomo alzò lo sguardo dalle pagine inchiostrate, cercando di capire il significato di quella domanda.

«Certo. Ti sei impegnato a farlo per una decina di giorni, fino a che non sei stato in grado di andarci bene. Sei stato veloce!».

Kurt ebbe l’improvviso desiderio di mettere fine a quella conversazione: suo padre aveva mancato il punto della questione e a lui proprio non andava di spiegargli che cosa intendesse dire riportando alla memoria quel ricordo. Tuttavia desistette, senza tornare sui suoi passi e dando al padre una seconda possibilità. Aveva bisogno di parlarne.

«Quello è stato dopo…».

Burt stava davvero facendo fatica a seguire suo figlio. Dopo cosa? Il ragazzo, invece, sentiva lentamente le lacrime salire agli occhi: doveva per forza confessare lui ogni cosa? Non poteva avere le cose facili, per una volta nella sua vita?

«All’inizio… non volevo neanche provarci. Te lo ricordi?».

«Ma se eri così entusiasta della bici che ti avevo comprato!».

«Sì… ma poi sono caduto ed ho aspettato giorni prima di provare di nuovo a salirci sopra», gli ricordò, ora guardandolo fisso, senza preoccuparsi degli occhi chiaramente lucidi: doveva capire che cosa intendesse, doveva capire perché stavano parlando di uno stupido ricordo di tanti anni prima.

Solo in quel momento l’uomo afferrò davvero il concetto che si nascondeva in quelle parole, che sembravano scelte a caso. In un attimo, fu come se qualcuno gli avesse pulito le lenti degli occhiali o avesse dissolto la nebbia con una magia: vedeva chiaramente che cosa stava cercando di dirgli suo figlio e si chiedeva come aveva potuto essere tanto cieco.

“Ma eri così entusiasta di poter andare in bici, piccolo!”

“Ed ora non mi va più”. Gli occhi luccicavano, velati di lacrime.

“Non vuoi almeno dirmi perché?”. La voce del padre era amorevole, come sempre.

“Perché… ora so com’è cadere. E se non riuscissi più a farlo? Tipo, per sempre? Sarei certo di non poter andare mai più in bici…”

“Ma non ci andrai comunque, così…”.

“Sì, ma lo scelgo io. E se mi andasse di riprovare potrei farlo sempre…”

Burt sospirò, lasciando la sedia e appoggiandosi al bordo del letto.

«Preferisci non decidere affatto, piuttosto che scegliere e perdere. Non è da te…», gli fece notare.

«Ho troppo da perdere perché badi a questo ora», fece Kurt, stizzito «E se provassi con la fisioterapia e fallissi? Se non riuscissi più a camminare, a muovermi come una volta? Allora che cosa ne sarebbe di me?».

«”Meglio aver amato e perduto…”».

«Ma perderei ogni cosa, non capisci?! Tutti i miei sogni, Broadway ed il palcoscenico, tutto ciò per cui ho sempre lottato… Non avrei più nulla».

«Ci sarei io. E la tua famiglia. E Blaine…».

A quel nome lo stomaco di Kurt si strinse: Blaine. Lo aveva trattato così male da non essere più davvero sicuro di poterlo considerare ancora fra ciò che restava. Era stato egoista e meschino: solo ora si rendeva conto di quanto male gli avesse fatto respingendolo, tagliandolo fuori da tutto ciò che gli era successo, accusandolo di non essere stato in mensa con lui. Non intendeva dirlo, non lo avrebbe mai pensato! Una delle poche cose di cui era stato grato in quell’orrenda situazione era proprio il fatto che Blaine non fosse stato con lui… Se gli fosse successo qualcosa – ed era dannatamente probabile – lui non avrebbe potuto… Immaginare una vita senza Blaine non era neanche concepibile.

E Blaine ci era passato. Per dei giorni aveva creduto di averlo perso. E lui lo aveva respinto. Gli veniva da star così male che sarebbe voluto sparire.

«Preferisci restare nel dubbio?». Le parole del padre lo riportarono alla conversazione e ci mise un po’ per riconcentrarsi sull’argomento delle sue parole «Durerebbe comunque poco, lo sai… Se non eserciti i muscoli ora, ben presto non avrai più possibilità di farlo. Che tu voglia o meno».

Il ragazzo sapeva perfettamente che Burt aveva ragione. Il groppo alla gola, che si era formato poco alla volta, mentre le parole avevano lasciato le sue labbra e i pensieri invaso la sua mente, si sciolse improvvisamente. Sapeva che cosa fare, aveva solo paura di fallire.

Si rifugiò tra le braccia del padre, in quella stretta e quel calore tanto familiari che sembravano poterlo guarire da qualsiasi cosa e sperò di fare la scelta giusta.

 

*

 

La pressante sensazione di vivere un dejà vu disgustava Sebastian, mentre con i gomiti ben piantati sulle gambe, aspettava fuori dalla stanza di Thad. Che cosa, era difficile da dire. O quantomeno, lui non ne aveva idea.

I medici era andati via da un po’, rassicurando familiari ed amici che quello di Harwood era stato solo uno svenimento dovuto alla stanchezza e al fatto che aveva mangiato poco ultimamente. Aveva chiaramente sentito, nonostante la porta chiusa, i rimproveri preoccupati della madre, quando il ragazzo aveva ripreso conoscenza e il vocio confuso degli altri compagni.

Poi c’era stata una sua risata, cristallina, bellissima e si era concesso di perdersi in quel suono tanto rassicurante, senza curarsi minimamente della sua ragion d’essere – una battuta di Starling, un commento sbadato di Nilson. Poi più nulla. I suoni si erano fatti più bassi, più indistinti e lui aveva rinunciato ad ascoltare. Così era tornata la preoccupazione per tutto il resto. E la pressante esigenza di entrare lì, di vedere che stesse effettivamente bene.

Ma non si era mosso, non si era concesso un singolo gesto e l’autocontrollo stava sfogando i suoi sforzi nella pressione dei gomiti sulle cosce: se avesse continuato così, probabilmente sarebbero comparsi dei lividi.

 

«Credimi, vederti lì a terra è stato un colpo durissimo», stava intanto dicendo – per la seconda o terza volta – Jeff, senza sapere bene per quale motivo, forse solo per far sì che l’amico si rendesse davvero conto di quanto fosse stato sciocco trascurarsi fino a quel punto – qualunque fosse la ragione.

«Pensi l’abbia fatto a posta?», cercò di difendersi Thad, senza essere sicuro di riuscirci «Non mi aspettavo una cosa simile, stavo bene…».

Lo sguardo eloquente che la maggior parte dei ragazzi nella stanza gli lanciò lo fece pentire delle proprie parole. Era stato così evidente il suo malessere? Anche per quelli con cui non ne aveva parlato, quelli ai quali aveva fatto in modo di apparire come il ragazzo di sempre, la cosa sembrava essere fin troppo chiara, come se aspettassero solo che a rendersene conto fosse lui.

«Non avrai in ogni caso modo di riprovarci, tranquillo», lo rassicurò Nick, con uno sguardo stranamente freddo «Faremo a turno e ti terremo d’occhio fino a che non saremo sicuri che una simile cosa non possa più accadere».

Harwood non sapeva come far capire loro che non era stato qualcosa che aveva fatto di proposito, che non si era messo alla scrivania con uno dei piani malefici dei cattivi dei cartoni animati, progettando passo dopo passo la propria rovina. Era semplicemente successo: si era trascurato, non aveva avuto voglia di mangiare, dormire o preoccuparsi di altro.

Era stato dannatamente facile. Ed ora era anche dannatamente spaventoso. Ma sapeva come uscirne, aveva raggiunto il suo punto di rottura già prima di quello svenimento e di certo non aveva dimenticato che il discorso con Smythe era rimasto a metà.

«È rimasto alla Dalton?».

Sapeva che ormai non c’era bisogno di specificare il soggetto. Non si aspettava però che Trent, primo fra tutti, scuotesse la testa in segno di diniego.

«È qua fuori», gli fece eco Flint, mentre con la testa indicava la porta della camera.

Thad non riuscì a nascondere la sorpresa. Aveva scosso anche lui, quindi? Doveva essere stato qualcosa di particolarmente rovinoso – o particolarmente patetico, così tanto da richiedere una notifica della cosa di persona. Dopotutto, l’essere patetico era stata una delle ultime cose che Sebastian gli aveva detto.

Quasi lo avesse chiamato, Smythe si materializzò dietro la porta aperta con così tanta discrezione e lentezza che nessuno si accorse di lui fino a che non fu lui a parlare.

«Noi stavamo… avendo una discussione. Mi chiedevo se potessimo completarla adesso, così sono libero di andare».

Pronunciò ogni parola con calma controllata, cercando di non esitare e non lasciar trasparire il nervosismo che gli scuoteva le mani, ben nascoste dietro la schiena asciutta. Pregò che l’improvviso groppo alla gola andasse giù senza lasciar traccia del suo passaggio e che soprattutto fosse una cosa rapida – non aveva molte speranze che fosse anche indolore.

L’altro Warbler guardò i suoi compagni e i genitori, facendo loro un cenno d’assenso per rassicurarli e questi, più o meno lentamente, lasciarono la stanza. Thad sapeva che probabilmente avrebbe dovuto dare spiegazioni per quella situazione più tardi, ma ora la cosa non lo preoccupava. Improvvisamente il cuore gli martellava nel petto con una forza pazzesca. Aspettava il duro colpo che, sapeva, stava per arrivare e più i secondi passavano più l’attesa si tramutava in sofferenza.

«Mi dispiace».

Quelle parole stordirono Harwood più di quanto avrebbe mai potuto fare un insulto o qualcosa di cattivo. Perché sentirle pronunciare da Sebastian era davvero l’ultima cosa che si aspettava – ancora di più in quella situazione.

«Non avrei dovuto attaccarti in quel modo, conoscendo le tue condizioni», continuò Smythe, come se sapesse di dover quanto meno dare una precisazione a quella prima frase «La convalescenza, checché ne dica la gente, è la parte più delicata ed io… ho esagerato».

Stava semplicemente dicendo che era stato poco carino a prendersela con un malato. Ecco tutto. La mente di Thad catalogò velocemente le parole di Sebastian, giusto per non cadere in nuovi equivoci. Il cuore si rifiutò di seguire lo stesso processo e sussultò quando avvertì la figura di Smythe voltarsi di spalle e muovere un passo verso la porta.

«Quindi ora te ne vai e finisce tutto».

Le parole avevano lasciato le sue labbra senza pensarci su due volte, ma ebbero la forza di fermare Sebastian. Thad prese nuovo coraggio da quell’esitazione.

«Sono semplici scuse per avermi fatto agitare troppo, giusto? Nessun interesse, nessuna preoccupazione, nulla che possa essere anche solo vagamente definito come “avere a cuore una persona”. Te lo chiedo, nel caso poi mi “monti la testa” senza alcun motivo».

Smythe sussultò appena, senza riuscire a muovere un muscolo, ancora di spalle. Improvvisamente, avrebbe voluto sdraiarsi da qualche parte e semplicemente lasciar perdere: tutta quella storia era diventata così pesante, stancante da poter essere appena sopportata.

«Perché devi essere così?», sospirò. A Thad sembrò che qualcuno avesse posato sulle sue spalle un peso a giudicare dal modo in cui erano cascate, quasi schiacciate da una forza invisibile.

«Così come?».

«Così… te stesso».

«Immagino di non poter essere altrimenti, sai com’è».

«Potresti provarci!».

Sebastian aveva gridato, esasperato e si era voltato di nuovo verso il suo ex compagno di stanza, fulminandolo con uno sguardo a metà fra rabbia e dolore. Lui stava portando avanti tutto quello da così tanto, sforzandosi di essere qualcosa che – ora lo capiva perfettamente – non era più da molto tempo: perché Harwood non poteva fare uno sforzo e venirgli in contro? Perché invece doveva fare sempre in modo che le cose fossero ancora più difficili di quello che erano?

«Credimi, mi riesce a malapena essere me stesso, figurarsi qualcun altro…», stava rispondendo intanto Thad, ormai certo che gli sfuggisse almeno una parte di quella conversazione, come se ci fosse un secondo livello di lettura a cui non aveva accesso.

«Posso assicurarti che invece ci riesci perfettamente», ribatté ancora Smythe «Tu non sai stare al tuo posto. Non riesci a passare oltre, a lasciar perdere. Per quanto dannatamente ci provi, non riesco a farmi lasciare in pace da te».

Detta così, sembrava che Thad lo stesse stalkerando.

«…Io dovrei lasciarti in pace, quindi?», chiese incredulo il ragazzo.

«Esatto! Devi smetterla di starmi addosso, di preoccuparti, di notare qualsiasi cambiamento ancora prima che io stesso me ne renda conto. Perché lo fai? Perché ti importa tanto?».

Harwood riusciva chiaramente a vedere le difese di Sebastian sgretolarsi man mano che pronunciava quelle parole, come se ognuna di esse ne buttasse giù un pezzo, lentamente ma con mirabile precisione.

«Perché non dovrebbe importarmi? Siamo stati compagni di stanza, questo vuol dire-».

«Cosa, Thad? Che cosa vuol dire? Per quale motivo il semplice fatto che siamo compagni di stanza avrebbe dovuto coinvolgerti così tanto?».

«Perché è così che funziona!».

Stavano gridando di nuovo, come quella mattina in camera, ma stavolta Thad avrebbe raggiunto il suo scopo – qualunque fosse.

«Non per me! La gente ti guarda, ti giudica, non va oltre ciò che vede la prima volta e – bam! – si è fatta un opinione di te. Il resto lo basa su quella semplice constatazione, fine della storia. E a me sta bene. Mi hai sentito? Mi sta bene così! Invece no: tu devi scavare, devi prenderti il tuo tempo, sospendere il giudizio fino a che non trovi il punto debole e poi colpire, senza renderti conto del male che fai».

«Io ti sto facendo del male? IO? Sei tu che non fai altro che sputare cattiverie, quando l’unica cosa che cercavo di fare era starti accanto!».

«E perché dovresti?!».

«Perché ci tengo a te!».

Qualunque cosa Sebastian stesse per dire morì tra le labbra. Thad, di fronte a lui, aveva le lacrime agli occhi, quasi fossero il prezzo da pagare per quelle parole. Eppure lo guardava fisso, senza alcuna intenzione di rimangiarsi qualcosa, anzi quasi a sfidarlo ad andare oltre, come un battitore che ha appena fatto fuoricampo e corre alle basi guardando con sfida i giocatori avversari, consapevole che non potranno fare nulla.

«…era questo che intendevo», soffiò piano, quando riuscì a prendere di nuovo fiato «Non riesci a fare a meno di legarti alle persone. Dovresti smetterla». Non c’era un decimo della solita convinzione in quella frase.

«Perché dovrei? Solo per rendere la vita più facile a te? Ho imparato da tempo a non mettere da parte quello che provo solo per fare un favole agli altri; di certo non tornerò indietro per qualcuno che neanche ha idea di cosa significhi».

«Io so che legarsi rende vulnerabile. Che non si è più padrone delle proprie azioni, che non si dipende più solo da se stessi. E non mi va, non mi va affatto».

«Perché nel tuo grandissimo ego non c’è spazio per nessun altro, giusto?».

«Perché faccio già fatica a mantenermi in equilibrio così, non ho bisogno di qualcuno che mi butti definitivamente giù».

«…io ti terrei a galla».

Smythe chiuse gli occhi con violenza. Perché era la cosa migliore che potesse aspettarsi. E allo stesso tempo la peggiore. Perché confermava ogni sua paura con una bellezza assassina. Perché ora sapeva, era certo che non ci sarebbe stato un ritorno: si era spinto troppo oltre, aveva superato la boa di sicurezza e non gli rimaneva che nuotare in acque libere e sperare di non annegare troppo presto.

«Smettila». Fu un sussurro, eppure fin troppo forte nel silenzio della stanza.

Stavolta Thad non ebbe parole con cui fermare i passi di Sebastian. Lo lasciò andare senza forza, perché quelle parole erano state inaspettate anche per lui, perché non avrebbe mai voluto esporsi tanto, mettere in gioco davvero tutto quello che provava, mostrare ogni sua carta senza avere la certezza che l’altro non avrebbe imbrogliato per poi assestargli il colpo definitivo. E lui gli aveva detto di smetterla.

Sebastian poteva aver paura di farsi coinvolgere, ma di certo lui non era più sicuro dell’altro.

 

*

 

Blaine picchiettava le dita sul cruscotto con fare nervoso, senza seguire un ritmo preciso, ma cominciando a snervare il fratello che, all’altro lato dell’abitacolo, lo guardava fisso, sperando che magari si sarebbe accorto di lui e avrebbe fatto qualcosa.

«Che c’è?!», sbotto infatti dopo alcuni istanti il più piccolo.

«Nulla, Blainey, mi chiedevo solo quand’è che avevamo intenzione di scendere dalla macchina ed entrare in ospedale. No, perché credevo che lo scopo del nostro viaggio fosse quello di parlare con Kurt, non di controllare il parcheggio».

Il ragazzo sostenne lo sguardo del fratello per un po’, poi si arrese sospirando: sapeva perfettamente che Cooper aveva ragione, ma per quanto fosse deciso a parlare ancora con Kurt, l’idea di poter di nuovo litigare gli attanagliava lo stomaco: le loro voci alte, l’ultima volta, erano ancora un ricordo che lo stordiva – non era abituato, faceva male.

«Tu lo sai che se restiamo qua non risolveremo nulla, vero?», la voce di Cooper sembrava quello del grillo parlante per quanto l’abbinamento fosse dei più surreali.

Il ragazzo si limitò ad annuire, poi prese un bel respiro ed aprì la portiera, scendendo. L’idea che quello potesse essere il momento prima della definitiva rottura con Kurt gli toglieva il fiato, ma come aveva detto suo fratello, stare fermo senza fare nulla non sarebbe stato di alcun aiuto.

Salì le scale con passo lento, nella testa i diversi scenari con cui sarebbe potuta finire quella storia. Quando fu sul piano in cui c’era la stanza del suo ragazzo, si fermò del tutto, cercando di riordinare le idee nella sua testa: scacciò qualsiasi ipotesi, positiva o negativa che fosse e prese una nuova boccata d’aria prima di continuare a camminare.

Bussò alla porta con più fermezza di quella che credeva di avere e non fu sorpreso quando non sentì arrivare risposta dalla stanza: il modo apatico in cui si stava comportando negli ultimi giorni Kurt rischiava di diventare familiare e persino naturale – ormai non riusciva neanche più a stupirsi. Per questo entrò senza ulteriori indugi e… oh, quello che vide lo sorprese, assolutamente.

La stanza era completamente vuota. Si aspettava di trovare Kurt nel suo letto, magari con lo sguardo fisso nel vuoto oltre la finestra: quella situazione lo aveva completamente spiazzato.

«Kurt? Sei in bagno?», chiamò ancora, ma anche quella stanza era vuota.

Per qualche istante andò in panico: era successo qualcosa? Non si era sentito bene, magari? O avevano dovuto trasferirlo in un'altra stanza per una ragione a lui sconosciuta? Magari Burt aveva pensato che quel litigio li avesse separati in modo definitivo, che non stessero più insieme e che quindi non ci fosse bisogno di avvisarlo… poi notò la giacca di pelle scura appoggiata alla sedia e riuscì a prendere fiato. Se la giacca era lì… e c’era anche il resto della roba di Kurt e qualcosa del padre o di Finn, allora non doveva essere cambiato nulla. La stanza era ancora la sua, era ancora abitata, scomposta e piena di effetti personali.

«So dov’è».

Le parole di Cooper avevano qualcosa di entusiasta che il ragazzo non riuscì a spiegarsi: lo guardò stupito. Come faceva lui a saperlo?

«Ti ha scritto?», ipotizzò, ma vide il fratello scuotere la testa.

«Puro e semplice intuito Anderson, mio caro», gli sorride, afferrandogli l’avambraccio e trascinandolo in corridoio. Blaine si lasciò semplicemente portare senza capire nulla di quella storia, ma lo strano sorriso che ora Coop aveva sul volto in qualche modo lo stava contagiando dandogli un senso di leggerezza: improvvisamente il litigio, quelle grida, le parole che lui e Kurt si erano detti non gli mettevano più tanta ansia; improvvisamente, seppe che era stato solo qualcosa di passeggero, probabilmente una tappa obbligatoria, ma nulla di irreparabile.

Capì che cosa stesse passando nella testa del fratello solo quando lesse l’insegna della grande stanza in cui stavano per entrare. Gli ultimi corridoi, fortunatamente, erano sgombri: Blaine non era certo che potessero stare lì.

Il ragazzo lasciò vagare lo sguardo nell’ambiente nuovo, pieno di specchi ed attrezzi vari; un lato della sala era adibita con dei lettini e in tutto conteneva una quindicina di persone fra pazienti e fisioterapisti. Ci mise pochissimo ad individuare, su uno di quei lettini, la figura concentrata del suo ragazzo. E fu come se un grosso peso si togliesse dalla sua schiena e lo lasciasse libero di respirare.

«Bene così, ripetiamo l’esercizio ancora una volta».

La voce dell’uomo che lo stava aiutando a muovere la gamba raggiunse Blaine ed amplificò il senso di leggerezza che lo stava invadendo. Per qualche istante rimase lì, vagamente nascosto dalle altre persone e guardò il suo ragazzo: l’impegno che gli leggeva sul viso lo stava facendo sorridere senza che se ne rendesse conto.

C’era tutto quello che l’aveva fatto innamorare in quei lineamenti così decisi, nel sudore che scendeva ai lati del volto, nel fiato che si spezzava per lo sforzo: Kurt era sempre stato un combattente – l’aveva capito dalla prima volta che l’aveva visto, dalle lacrime che avevano bagnato le sue guance mentre parlava dei suoi problemi. Allora, come in quel momento, aveva mostrato che poteva piegarsi ma non si sarebbe spezzato, che se anche l’avessero buttato a terra lui si sarebbe rialzato. Sempre. Stavolta aveva solo avuto bisogno di un po’ di tempo in più.

Notò appena la mano di Finn sulla spalla del ragazzo, il sorriso raggiante che anche quello aveva sul viso nel constatare i progressi del fratello. Poi spostò lo sguardo sul padre, che stringeva Carole a sé con lacrime di gioia agli occhi: doveva essere incredulo tanto quanto lui per l’improvviso cambiamento di idea del figlio. Erano quelli che lo conoscevano meglio, eppure in quel momento erano i più sorpresi della cosa.

«Blaine!».

La voce del suo ragazzo lo riportò alla realtà. Lo vide, i suoi occhi luccicarono per un’istante, per la gioia improvvisa, poi si spensero per qualcosa che non seppe capire. La seconda volta che brillarono, fu per le lacrime.

Il ragazzo gli si avvicinò, improvvisamente sentì l’urgenza di averlo tra le braccia, di sentire l’odore della sua pelle, il calore del suo corpo. Di sentire che era ancora con lui. Come sempre.

Kurt si alzò di scatto, non appena vide l’altro avvicinarsi: aveva così tante cose da dirgli, così tante scuse da fargli, ma voleva sentirlo accanto a lui, voleva affondare ancora una volta il viso nell’incavo del suo collo e dimenticare tutto, come sempre quando erano insieme. Loro due, il resto del mondo fuori. Si accorse appena di aver spostato tutto il peso del suo corpo sulla gamba sinistra, che non era pronta a stare così in piedi e la testa gli girò senza preavviso, mentre il campo visivo cambiava pericolosamente, avvicinandosi al pavimento.

Le braccia forti – e stranamente tempestive – di Finn lo presero prima che si accasciasse completamente e lo tennero su. Kurt guardò suo fratello stupito: doveva averlo tenuto sotto controllo per tutto il tempo a giudicare dall’inusuale prontezza con cui era intervenuto. Per un istante gli mancò il fiato al pensiero di quante altre scuse dovesse ancora alla sua famiglia per la stupidità del suo comportamento e la preoccupazione che aveva suscitato. La lista era tremendamente lunga, ma il bel sorriso di Finn gli diede quantomeno una tregua dai sensi di colpa.

«Attento a non fare altri danni, fratellino», gli sussurrò con affetto, rimettendolo a sedere con facilità.

«Grazie…». Avrebbe voluto evitare di arrossire, ma fu naturale mentre lo guardava ancora negli occhi; poi si concentrò su Blaine che adesso era praticamente davanti a lui, ma non osava fare una mossa. Anche lui si concesse qualche istante per guardarlo: non avevano litigato neanche da ventiquattro ore, eppure gli sembrava di essere stato solo per giorni.

Quando si alzò di nuovo in piedi fu per affondare nel petto di Blaine, certo che lo avrebbe preso e tenuto stretto a sé. Respirare di nuovo il buon odore del suo gel per capelli e dell’ultimo profumo che gli aveva regalato fu un po’ come tornare a casa, sentirsi nel posto giusto al momento giusto.

«Mi dispiace tanto per tutto quello che ti ho detto, Blaine…», sussurrò, il groppo alla gola che tornava a farsi sentire. «Io-».

«Va tutto bene, Kurt…», lo anticipò quello, stringendolo ancora di più «L’importante è che ora tu sia qui, che ti sia deciso a riprendere in mano le cose, come fai sempre». Anche la voce di Blaine in qualche modo tremava: sentiva finalmente che le cose stavano prendendo la giusta direzione e una piccola parte di sé aveva paura che potessero deviare ancora.

«Mi sei mancato…», si lasciò scappare e quasi sperò che Kurt non lo avesse sentito perché sarebbe sembrato così patetico…

«Non ho intenzione di andare più da nessuna parte», sussurrò di rimando il ragazzo, le lacrime che ormai gli bagnavano il viso per quanto aveva fatto soffrire tutti.

«Ti amo …».

«Ti amo anch’io, Blaine. Scusami, scusami, scusami…».

Kurt alzò la testa dalla spalla del suo ragazzo solo per guardare, dietro di lui, la figura sorridente del maggiore degli Anderson. I loro sguardi stettero l’uno nell’altro per qualche istante e il più piccolo seppe che Cooper era l’unico a cui anziché dovere una scusa doveva un enorme grazie.

 

*

 

Il lieve venticello che ancora soffiava, fresco, lasciava le foglie libere di muoversi tra gli alberi, creando una rilassante melodia. Qualcuno l’avrebbe definita malinconica o anche triste, appropriata a quel luogo, ma Richard la trovava semplicemente abituale, quasi intima. C’era stato un tempo in cui ogni giorno, in un modo o nell’altro, senza neanche rendersene conto, si ritrovava in quel posto a qualsiasi ora, come se semplicemente le sue gambe decidessero che era arrivato il momento per una visita. Si ritrovata tra quel marmo bianco, davanti a quel nome, senza ricordare il percorso fatto o dove avesse programmato di andare. Il suono delle foglie tra gli alberi era la sola costante ad accompagnarlo, aveva imparato a conoscerlo così bene che ormai gli dava conforto come poche alter cose.

Si volse di nuovo a guardare la lapide che conosceva tanto bene. Lasciò che gli occhi vagassero tra le lettere scure come in cerca di qualcosa di diverso dall’ultima volta che vi era stato, mentre la luce del tramonto lasciava riverberi rossastri un po’ ovunque, avvisandolo che ormai era tempo di andare.

Cameron, come suo solito, lo aveva fedelmente accompagnato, ma era rimasto in disparte, qualche passo più in là, con la schiena appoggiata contro un grosso salice piangente, le foglie che interrompevano qua e là la vista dell’amico.

Si chiedeva se Richard stesse davvero bene come voleva fargli credere, se quello della notte precedente fosse stato solo un crollo o ci fosse altro, nascosto anche alla sua vista così ben allenata. Lo aveva spaventato vederlo così vulnerabile: non succedeva da tempo. E se tutto il trambusto delle  ultime settimane lo avesse destabilizzato più di quanto volesse dar a vedere? Sarebbe stato in grado lui di fargli forza, di aiutarlo?

Cameron sospirò: il suo compagno di stanza, il suo migliore amico era convinto che insieme sarebbero stati in grado di superare qualsiasi cosa, ma c’erano delle volte in cui lui ne dubitava: in fondo, ne sapeva tremendamente poco di quello che bisognava fare in situazioni del genere. Andava semplicemente a tentativi, cercando di tenerlo calmo, di rassicurarlo e fare in modo che tutto quello che aveva visto non gli pesasse troppo. Eppure, la persistente sensazione che non fosse mai abbastanza, che in realtà non facesse altro che cercare di riparare una diga con un tovagliolo, non lo abbandonava mai e di tanto in tanto tornava a morderlo con mira fin troppo esperta.

«Posso sentire gli ingranaggi del cervello faticare, anche da qui».

La voce di Richard lo fece sussultare, più vicina di quanto ricordasse. Mise a fuoco quello che aveva davanti e se lo ritrovò accanto, mentre studiava uno dei ramoscelli che il salice piangente portava praticamente ad altezza delle loro spalle. Sorrise, sperando di non dover dare spiegazioni, ma vide l’altro guardarlo con strano interesse: se ne sentì quasi infastidito. Era così che lo guardava lui ogni volta che lo vedeva in difficoltà?

«A cosa pensi?», gli chiese Richard, ormai del tutto disinteressato alle foglie.

«Io… solite cose», sviò quel, ben sapendo che l’arte della menzogna non gli apparteneva.

«Sei come i Vulcaniani», gli sorrise l’amico «Tremendamente pessimo a mentire».

Cameron sorrise al riferimento e fece qualche passo avanti. Come i Vulcaniani, in quel momento anche lui si trovava a disagio a parlare dei propri sentimenti.

«Come stai?», riuscì a chiedere quando gli ebbe voltato le spalle.

«Meglio», sospirò Richard, ancora col sorriso sulle labbra, anche se stavolta non poteva essere visto.

L’asiatico si girò di scatto, pronto a cogliere la bugia negli occhi dell’altro, ma non ve ne trovò traccia. Osservando i lineamenti dell’amico, Cameron non riuscì a trovare altro che un barlume di inaspettata calma, dietro alla solita esuberanza. Sembrava stare davvero bene.

«Stanotte ti ho spaventato». Era un semplice dato di fatto. Tra di loro calò il silenzio, uno dei pochi che solitamente li guardava, forse l’unico.

«La cosa bella, sai qual è?», chiese Cameron, d’un tratto, interrompendolo «Per quanti sforzi facciamo alla fine ci ritroviamo sempre allo stesso punto».

«Che punto?». Richard non riusciva a seguirlo.

«Il punto in cui tu ti incolpi della morte di Anne ed io di fare ben poco per aiutarti».

Richard lo guardo, consapevole adesso di quello che l’altro stava provando. Era vero: prima o poi finivano sempre a star male per colpe che non avevamo. Era quasi un obbligo nella loro amici stare male l’uno per l’altro.

Senza pensarci su, lo strinse a sé con tutta la forza che aveva, quasi volesse calmarlo solo con quell’abbraccio. Sentì Cameron sussultare appena, prima di rilassarti tra le sue braccia e nascondere la fronte nell’incavo del suo collo. Rimasero così per un po’, fino a che i battiti accelerati dei loro cuori non si regolarizzarono l’uno con l’altro.

«Lo sai che siamo due stupidi?», disse Richard con un filo di voce.

L’altro annuì contro il suo collo. Era tremendamente stupidi, ma a quanto pareva non riuscivano a farne a meno, neanche una volta.

«Sai una cosa, però? Io sto bene. Sto davvero bene oggi».

Stavolta Cameron non ebbe bisogno di guardarlo negli occhi per capire che non stava mentendo: la sua voce tratteneva una pacatezza che solitamente tra i due era lui a possedere e che lo rassicurò come invece solitamente succedeva a Richard.

«Posso sapere il perché?»; probabilmente avrebbe dovuto lasciarlo andare, ma stava troppo bene tra le sue braccia per interrompere quel contatto. E poi sapeva che a Richard non sarebbe dispiaciuto.

«Perché ho visto gli occhi di Sebastian, stamattina e brillavano».

L’asiatico annuì appena, aspettando la spiegazione di quella frase.

«Quando Thad si è sentito male… credevo sarebbe stato troppo per lui, che si sarebbe di nuovo bloccato come dopo l’esplosione, dato quello che è successo stanotte. Ero pronto a prevenire qualsiasi tipo di crisi, ad esserci… e invece si è rialzato, ha racimolato le sue forze e l’ha seguito. I suoi occhi non hanno mostrato alcun segno di debolezza: erano fermi, decisi e brillavano di una scintilla che non ho mai visto. Come se avesse capito qualcosa».

Richard ne parlava come se fosse una bellissima esperienza, col fiato che mancava appena per l’eccitazione e la felicità. Non era del tutto certo che l’amico avrebbe capito che cosa significasse per lui aver visto quel cambiamento in Smythe: era stato tutto. Improvvisamente, gli aveva mostrato un finale alternativo, uno in cui il lasciarsi andare non avrebbe avuto la meglio, dove l’attaccamento alla serenità sarebbe stato più forte. Vederlo, gli aveva ridato la speranza – neanche si era reso conto di averne persa così tanto in quei giorni.

«Dovrò ricordarmi di ringraziarlo, quando lo incrocio», disse alla fine Cameron, lasciando andare l’amico: ora poteva vedere chiaramente il cambiamento sul suo volto. Una minima parte di lui si scoprì gelosa del fatto che tale svolta fosse stata determinata da qualcuno di abbastanza lontano come Sebastian, ma ricacciò indietro il sentimento: se era il prezzo da pagare per vedere Richard così vivo, allora lo avrebbe accettato ben volentieri.

«Torniamo alla Dalton», gli sorrise, circondandogli la schiena con le braccia e tirandolo a sé.

 

*

 

Il freddo gli punse inaspettatamente il viso quando uscì nel giardinetto interno della Dalton con in dosso solo la camicia della divisa. Sebastian fece qualche passo incerto, prima di individuare l’obiettivo della sua ricerca, ma quando l’ebbe visto si fermò del tutto. Era dannatamente insicuro e odiava sentirsi in quel modo. Odiava tutta la situazione e sarebbe voluto scappare via, cambiare Stato pur di non doverlo affrontare. Ma era lì, perché in fondo non sarebbe potuto essere in nessun altro posto al mondo.

Fece qualche passo avanti, ancora incerto, ma non più così spaventato. Sentiva che il momento della negazione era finito, che in qualche modo Thad era riuscito a smuoverlo abbastanza da non poter più tornare indietro. Non sapeva davvero come sarebbe venuto a patto con quello che provava, ma era certo che non avrebbe potuto continuare con quella situazione di stallo.

«Non capisco davvero che cosa tu ci trovi di interessante nello startene da solo, in giardino, di notte», sussurrò, quando fu arrivato di spalle all’amico – se poteva permettersi di pensare a loro in quei termini.

«È rilassante», rispose Harwood, senza scomporsi né voltarsi.

«È spaventoso», lo corresse Smythe con un’espressione di disgusto sul volto.

«Paura del buio?», si lasciò scappare con una risatina l’altro.

«Ma per chi mi hai preso?», corse subito ai ripari il Warbler «Dico solo che è abbastanza inquietante starsene qui, da soli, al buio. Devi avere decisamente qualcosa che non va, Harwood».

«Su questo, almeno, siamo d’accordo», annuì Thad, spostandosi di qualche passo verso una delle panchine, ma senza sedersi, indeciso su se continuare a dare le spalle all’altro o guardarlo negli occhi. Stava probabilmente dando l’impressione che non ci fosse nulla che non andasse, ma la verità era che una parte di lui era spaventata dalla novità che gli si presentava: Sebastian che lo cercava, che in qualche modo apriva una conversazione con lui, una seria a giudicare dal tono, era una cosa rarissima. Gli ricordava la conversazione di quella mattina e il punto fino a cui si era spinto – fin quasi a dirgli in qualche modo scomposto che cosa provava per lui – lo aveva spaventato.

«C’è qualcosa che non va, quindi?», stava chiedendo intanto Sebastian, con tono ancora più serio.

«Mi sfugge la logica per cui non ti abbia ancora lasciato perdere».

Le parole erano saltate fuori da sole, senza che il ragazzo neanche ci pensasse. Per qualche istante, Thad trattenne il fiato: doveva pentirsene? Aveva sbagliato? A Smythe sembrò che qualcuno lo avesse appena colpito con un destro dritto nello stomaco. Voleva davvero lasciar perdere proprio in quel momento? Proprio quando lui, invece, si era deciso a fare un passo avanti?

«Te l’ho detto: non sei in grado di lasciar perdere»; la voce lo sostenne magistralmente, senza tremare, sbavando appena sulle ultime sillabe.

«Dovrei?». Harwood non avrebbe saputo dire se quella domanda fosse rivolta più a se stesso o all’altro, ma sentì la necessità di guardare Sebastian negli occhi mentre la pronunciava, fosse anche solo per carpirne la reazione.

«…Non lo so, Thad»; questi scosse la testa, senza sapere davvero che cosa dire o fare. Sentiva una parte di lui gridare che no, dannazione, non avrebbe dovuto lasciar perdere. Eppure c’era ancora troppa confusione nella sua testa, troppa indecisione.

«Ma sì, non è nulla di cui preoccuparsi. Mi passerà», sussurrò il ragazzo, scoraggiato ed improvvisamente stanco: quella era stata una giornata tremenda, gli sembrava passato un mese da quando era cominciata e non aveva la forza di discutere con Smythe, soprattutto perché aveva l’impressione che sarebbe stato un discorso a senso unico. Per questo si incamminò lentamente, quasi per inerzia, verso il portone dell’Istituto.

«…Non riesco più a dormire bene, da quando non sei più in stanza con me».

Sebastian aveva parlato quasi mosso dalla disperazione, come se sapesse che quella sarebbe stata una delle poche cose che avrebbero fermato il cammino dell’altro. Si impose di non pensare a quanto patetico sarebbe risultato, a quanto poco da lui fosse quella frase: non voleva che Thad se ne andasse.

E Thad, infatti, si fermò, voltandosi indietro solo con la testa, guardandolo con la coda dell’occhio.

«Se non sbaglio sei stato tu a voler cambiare camera», gli rinfacciò senza provare alcun rimorso.

«Hai ragione. Ma non vuol dire che sia stato facile».

«Evidentemente lo è stato abbastanza da permetterti di farlo».

«Smettila di essere così!»

«Così come? Menefreghista, schietto, cattivo? Ho avuto modo di imparare, sai?». Thad non aveva idea del perché si stesse comportando così, ma non riusciva a smettere o a dispiacersi per le parole che continuavano a venir fuori dalla sua bocca.

«Questo non sei tu», continuò Sebastian.

«No, ti sbagli di grosso: questo sono proprio io. Un io stanco di questa situazione, che decide di darci un taglio, di mettere tutte le carte in tavole e per una volta far prevalere il proprio bene su quello di chi gli sta intorno». Non stava gridando, ma le parole avevano comunque una forza micidiale.

«Ma perché ti ostini a non capire?!», Sebastian, invece, aveva alzato la voce, quasi non potesse farne a meno.

«Capire cosa?!».

«Che ho paura! Che tutto…questo è dannatamente incasinato e confuso ed io non so che cosa fare!».

«Definisci “questo”». Thad si impose di non pensare che ci stava di nuovo ricascando, che stava di nuovo cercando di capire, mettendo da parte se stesso e il suo pur giustificato rancore: sapeva perfettamente che, trattandosi di Sebastian, sarebbero stati solo moniti vani.

«Questo. Me e te. Quello che… provo».

Le parole parevano pesare come macigni mentre venivano fuori. Thad si voltò completamente verso di lui, facendo qualche passo in avanti: ora Sebastian gli sembrava così vulnerabile che pur volendo non sarebbe potuto andare via. Per un istante gli ricordò la sera in cui era andato a cercarlo, in quello stesso giardino, quando avevano saputo del tentato suicidio di Karofsky. Allora era stato lui a cercarlo e Smythe lo aveva scacciato in malo modo; stavolta la situazione era quasi invertita.

«Tu… non ti rendi conto di quello che…», aveva ripreso a parlare l’altro «Io sono così, Thad. Mi piace avere tutto sotto controllo, essere quel mezzo gradino più in alto rispetto agli altri».

«Per guardare il mondo dall’alto in basso e compiacerti della tua superiorità»; non era riuscito a trattenere quella battuta, per quanto avrebbe potuto davvero risparmiarsela.

«Sta’ zitto, Harwood. Lasciami parlare!».

Thad trattenne il fiato e Sebastian abbassò lo sguardo. Il primo sentì improvvisamente il cuore battere all’impazzata, come se solo in quel preciso istante si fosse reso conto di quanto importante potessero essere le parole dell’altro: non era abituato a prenderlo sul serio, perché la maggior parte delle volte era lo stesso Sebastian a rendersi così odioso da allontanare tutti, lui compreso.

«Ho bisogno di sentire che ho il pieno controllo su quanto mi è intorno. Sono bravo, sono cresciuto con la concezione che è possibile avere tutto e sì, sono dannatamente arrogante. Capirai bene che tutto questo non coincide affatto con l’insicurezza e la confusione. Ma tu hai il potere di… quando parlo con te, io davvero non so cosa fare o dire. Mi… destabilizzi. E la sola idea che qualcun altro possa condizionarmi a tal punto…».

Rialzò gli occhi e incontrò quelli di Thad. Non c’era più alcuna traccia di rabbia o sarcasmo: erano seri, giusto una punta di sorpresa li sporcava. Smythe si chiese quando avrebbero smesso di fargli quello strano effetto, come se avesse potuto perdersi in essi, come se nascondessero così tante cose che lui non si era mai preso il disturbo di capire, cose di cui non gli era mai importato e che ora rimpiangeva di aver lasciato andare.

Harwood non sapeva che cosa dire, che cosa pensare. Una parte di lui cercava di trovare la logica in quella situazione che mai si sarebbe aspettato di vivere; un’altra parte, semplicemente, avrebbe voluto piangere. Per tutto, per il fatto che ora si rendeva davvero conto che non avrebbe accettato altro da Sebastian, che aveva creduto di poter affrontare qualunque tipo di risposta, ma che invece non sarebbe mai stato in grado di scendere a compromessi con un rifiuto. Restava semplicemente fermo, anche lui perso negli occhi chiari dell’altro.

«Di’ qualcosa…», lo esortò quello: si aspettasse una risposta, quantomeno una reazione. Aveva fatto la sua parte, no? Insomma, era stato chiaro. Giusto? Thad se ne stava semplicemente lì, impalato, e a lui quella cosa sembrava impossibile da sopportare, come se d’un tratto non potesse tollerale più la distanza che lui stesso aveva messo fra loro.

Per questo l’annullò del tutto, stringendolo a sé come non aveva mai fatto prima: Thad profumava di qualcosa che non riusciva ancora bene ad identificare ma che gli piaceva. Non si era mai accorto che avesse un così buon odore. Perché non si era mai avvicinato così a lui, mai. Sentì lentamente le braccia dell’altro sfiorargli la schiena, prima con incertezza, poi sempre con maggiore convinzione, finché anche Thad non lo stava stringendo a sé, quasi con urgenza.

«Tienimi a galla…», sussurrò allora, contro la sua spalla, per poi abbandonarsi nell’incavo del suo collo, come senza forze.

Ma durò poco, pochissimo, perché Thad lo aveva preso per le spalle ed allontanato da sé quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi. Poi, semplicemente, lo aveva baciato. Non sapeva perché, non l’aveva programmato: gli era semplicemente sembrata la cosa giusta da fare e quando sentì le labbra di Sebastian rispondere al movimento delle sue, capì che era stata la mossa esatta. Non aveva idea di come si sentisse: la terra sembrava essere fuggita da sotto i suoi piedi, mentre la mano dell’altro si posava con forza sulla sua nuca, per tirarlo ancora più a sé, le labbra ormai dischiuse e le lingue che imparavano a conoscersi, studiandosi per la prima volta, regalando brividi ad entrambi che parevano dire “ne è valsa la pena, aspettare”. Ed era vero: se c’era una cosa su cui i due avrebbero potuto concordare in quel momento era che qualunque male si fossero fatti ne era valsa la pena. Perché quel bacio era perfetto, era loro…

Quando si separarono fu troppo presto. Probabilmente sarebbe stato sempre troppo presto. Thad appoggiò la testa contro la spalla di Sebastian, quasi avesse davvero bisogno di aggrapparsi a qualcosa per non cadere a terra e a giudicare dal modo in la mano di Smythe si era stretta alla sua giacca, doveva essere così anche per lui.

Restarono così, l’uno tra le braccia dell’altro, ad ascoltare i loro respiri che si rincorrevano fino a trovarsi ed unirsi andando a tempo. Sarebbero potuti rimanere in quella situazione per sempre, non importava che cosa sarebbe successo intorno a loro.

Improvvisamente, Sebastian non si era mai sentito più sicuro di quello che provava. Aveva la sensazione che sarebbe potuto esserlo solo con Thad accanto.

 

 

***

Cinque mesi dopo.

 

Il sole caldo di quella mattina minacciava di far evaporare qualunque cosa i suoi raggi toccassero con effetto istantaneo. Jeff pensò che la divisa della Dalton era tremendamente inappropriata alla temperatura di quella giornata, ma avevano deciso che sarebbero andati in uniforme perché era la cosa giusta da fare.

Nick, accanto a lui, sembrava stranamente nervoso: probabilmente era il posto a turbarlo: rievocava momenti che avrebbe volentieri evitato di ricordare. Gli prese una mano e la strinse tra le sue per farlo rilassare: col pollice disegnava ghirigori senza senso sul dorso perché sapeva lo avrebbe distratto da qualsiasi brutto pensiero lo stesse innervosendo.

Proprio in quel momento scorse la testa di Thad farsi strada tra la gente e raggiungerli con un sorriso raggiante per poi sedersi accanto a loro. Non disse nulla, a corto di parole in una simile occasione e guardò la struttura davanti a sé con una certa serietà. Se lo avesse rilassato, come succedeva a Nick, Jeff avrebbe preso anche la sua di mano.

«Sei venuto da solo?», gli chiese per intrattenerlo.

Thad ci mise qualche istante a recepire la domanda, poi scosse la testa.

«Sebastian sta cercando parcheggio, io non ero certo che foste arrivati e volevo mantenere dei posti», spiegò, ma una parte di lui sembrava ancora lontana e il biondo decise di non insistere in una conversazione che sarebbe ben presto caduta in monosillabi e silenzi.

«Sta bene?», gli sussurrò Nick all’orecchio, guardando di sottecchi il ragazzo.

«Non lo so… non credo. Insomma, se noi siamo abbastanza scossi dalla cosa, lui non starà certo meglio».

Duvall annuì appena, poggiando la testa sulla spalla del suo ragazzo. Avevano deciso di voler essere tutti presenti in quell’occasione anche se consapevoli che non sarebbe stato come una giornata al luna park. Ora però si chiedeva se magari Thad avrebbe potuto risparmiarsela. Mentre fissava ciò che lo circondava, le immagini si sovrapponevano a quelle di alcuni mesi prima, dandogli uno strano senso di dejà vu incompleto, come in quei giochi in cui bisognava trovare le differenze fra due immagini apparentemente simili.

Trovare le differenze, in questo caso, era dannatamente facile. Ora tutto era più calmo, fermo: Nick ricordava il rumore assordante delle sirene, il vociare convulso e forte delle persone e il tono più secco e deciso dei vigili del fuoco. C’era stato un caos di gente che si muoveva in ogni direzione e fumo che impediva la vista e faceva lacrimare gli occhi. Ma soprattutto, non in quel quadro mancava Jeff. Non era stato con lui e questo lo aveva fatto quasi impazzire.

Chiuse gli occhi, prendendo una boccata d’aria e stringendo più forte la mano dell’altro che gli sorrise ancora una volta.

«Tu non hai idea di quante macchine siano parcheggiate qui intorno!», si stava lamentando intanto Smythe, appena arrivato, mentre prendeva posto accanto ad Harwood.

Questi annuì appena, fissandolo per qualche istante, poi tornò a guardare di fronte a sé. Aveva creduto che il fatto che non ricordasse nulla di com’era stato quel posto negli scorsi mesi lo avrebbe aiutato a non essere così a disagio, ma era come se sentisse quello che era successo in quel posto, come se l’immaginazione avesse sopperito alla lacuna visiva, portandolo all’interno di quel caos che in realtà non aveva sperimentato. Perché era incosciente. Sotto un cumulo di macerie, troppo vicino al punto dell’esplosione. Ferito.

Thad si sentì improvvisamente mancare l’aria, mentre vaghi sprazzi di quando si era svegliato, bloccato tra i detriti della mensa del McKinley, gli tornavano inopportunamente alla mente.

«Stai bene?».

La voce gentile di Sebastian lo strappò a quello che si sarebbe ben presto trasformato in un attacco di panico e lui gli si strinse contro, in cerca di calma. Non credeva sarebbe stato tanto difficile.

«Va tutto bene, Thad. Va tutto bene», gli sussurrò quello, fino a che non sentì l’altro rilassarsi; poi gli lasciò un lieve bacio sulle labbra e tra i capelli. «Sono qua con te», lo rassicurò e Thad annuì appena. Doveva ancora abituarsi al modo assurdo in cui solo Sebastian riusciva a calmarlo in certi momenti: ringraziò il cielo di averlo lì con lui.

Lentamente, il resto dei posti allestiti nel cortine della scuola si riempirono: studenti del McKinley, amici e parenti presero posto e anche i restanti ragazzi della Dalton si affiancarono a quelli già arrivati. Richard si sedette accanto a Cameron, come suo solito, proprio alle spalle di Jeff. Con la coda dell’occhio trovò immediatamente Smythe, ma il contatto non durò che pochi istanti.

«Lo tieni ancora sotto controllo?», scherzò Cameron, dandogli un colpetto sulla spalla.

«No, non davvero», rispose quello «Sebastian sta bene. Soprattutto da quando sta con Thad».

«Suppongo dovesse finire così dall’inizio», disse con fare filosofico il primo, al che Richard scoppiò in una fragorosa risata, qualcosa che Cameron non si aspettava davvero e che lo lasciò positivamente sorpreso: Smythe non era stato il solo a cambiare.

 

Burt parcheggiò la macchina più lontano dalla scuola di quando avrebbe voluto e maledisse il tempo che suo figlio aveva perso a prepararsi. Ora avrebbero dovuto fare più strada del previsto, nelle loro condizioni, e la cosa non gli faceva di certo fare i salti di gioia.

«Papà, non sarà che qualche metro in più, smettila!», si lamentò Kurt, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore.

«Non ho detto nulla», si difese quello, sorpreso come sempre dal modo in cui il ragazzo leggeva i suoi pensieri.

«Certo, non hai detto nulla, ma posso sentire il tuo cervello fumare dalla rabbia e dalle supposizioni fin da qui. Sarà una bella passeggiata.

Blaine, accanto al ragazzo, sorrise al suo buonumore e si apprestò a scendere dalla macchina: c’erano stati dei giorni in cui non aveva sperato di vederlo così felice, anche una volta cominciata la riabilitazione. Delle volte, semplicemente, Kurt perdeva la fiducia in quello che stava facendo, per la stanchezza o la spossatezza, e si lasciava scivolare giù. Lui era lì, tutte le volte, per fargli forza, con Finn e i suoi genitori; di tanto in tanto c’era anche Cooper, ma lui più che altro osservava, e anche così Kurt sembrava giovarne, perché il giorno dopo era pronto a riprendere da dove aveva lasciato.

Ora erano almeno tre settimane che aveva lasciato l’ospedale e stava continuando a fare pratica da sé, a casa. I muscoli erano tornati a funzionare, come previsto, ma avevano bisogno di continuo allenamento per rafforzarsi e tornare alla vecchia tonicità. Non che al ragazzo dispiacesse fare esercizi: era sempre stato abbastanza fissato con la forma fisica ed allenarsi lo rilassava, ora che poteva muoversi come una volta. Ma Burt era un’altra storia: era diventato quasi paranoico, con la paura fissa che il figlio strafacesse e si stirasse un muscolo o peggio.

Kurt mise per bene i piedi a terra per poi scendere dalla macchina: alzarsi in piedi e camminare gli faceva ancor uno strano effetto, come di un traguardo appena raggiunto. Ne assaporava ogni momento, muovendosi quasi con lentezza. Blaine gli era sempre al fianco, anche se gli serviva una mano sempre più di rado, mentre Finn solitamente era alle sue spalle, da bravo fratello. Fece qualche passo con cautela, poi si mosse con sempre maggiore scioltezza, prendendo il giusto ritmo.

«Kurt!», si sentì chiamare e voltandosi scorse Rachel, Tina e Mercedes a pochi passi da loro. Le attese per poi lasciarsi abbracciare e coccolare da tutte, soprattutto da ‘Cedes, che se lo mise sottobraccio, lasciando Blaine senza cavaliere. Quello sorrise e raggiunse Tina, facendole compagnia con un sorriso, mentre Rachel si accoccolava accanto a Finn.

Quando raggiunsero il cortile della scuola, il preside Figgins aveva già preso parola e c’era silenzio. I ragazzi presero posto salutando rapidamente quei pochi che incrociarono. Kurt notò Thad, accanto a Sebastian, le loro mani intrecciate e uno dei pochi ricordi di quel giorno gli tornò alla mente. Thad era stato l’ultimo con cui aveva parlato, in mensa, prima dell’esplosione. Gli aveva detto qualcosa riguardo al fatto che non riusciva ad avere a che fare con Sebastian, che era improvvisamente cambiato e lo stava evitando. Allora non aveva saputo che cosa dire, ma guardandoli adesso, si rese conto che in qualche modo la soluzione era stata dannatamente facile.

«…Ed è per questo che oggi sono lieto di annunciarvi la riapertura del McKinley! I lavori sono stati svolti nel più veloce dei tempi per rientrare nell’anniversario dei cinque mesi da quel brutto giorno ed ora abbiamo fatto un altro passo verso la conquista della quotidianità che ci siamo visti strappare così brutalmente!».

Il preside concluse il suo discorso fra gli applausi generali ed alcuni fischi entusiasti.

Kurt si strinse a Blaine, felice come poche altre volte era stato; più avanti, anche Sebastian aveva avvicinato Thad a sé, circondando le sue spalle con un braccio, mentre Nick stringeva forte la mano di Jeff e Cameron applaudiva più per la nuova risata di Richard che per le parole dell’uomo.

Alcuni avrebbero potuto considerare quello come un ulteriore passo verso la quotidianità di sempre. Altri preferivano pensare ad esso come al primo di una nuova normalità.

 

 

Fine.

 

 

 

 

 

 

 

 

______________________

 

Umh… non so bene che cosa dire. E’ finita e non me ne capacito ancora del tutto. Sono rimasta calma per tutto il tempo della stesura di questo epilogo, ma non scherzo quando vi dico che la parola più difficile da scrivere è stata quel “fine”. Fa ogni volta uno strano effetto, credo che non mi ci abituerò mai.

Questo epilogo è stato chilometrico e me ne scuso, ma non me la sono sentita di dividerlo in nessun punto: nella mia testa doveva essere postato come uno solo (e doveva essere anche molto più breve, ma vabbe’).

Ad ogni modo… è finita. Spero nel modo migliore, nel modo che più vi soddisfa. Da parte mia, posso dire che nonostante il tempo infinito che ho impiegato a scriverla, ho preso seriamente a cuore questa long. È stata diversa dal solito per varie ragioni: è stata la prima che sia partita da una di quelle idee totalmente folli che solitamente scarto a priori, è stata la prima sulla Dalton e la prima in cui abbia gestito contemporaneamente più personaggi e più coppie. Quindi spero davvero di aver fatto un lavoro quantomeno decente.

Devo un grazie a tutti quelli che hanno letto questa storia, dandomi fiducia capitolo dopo capitolo, e soprattutto a quelli che si sono fermati un istante, lasciando una recensione, aiutandomi a migliorare. Un grazie a parte lo meritano Vals, Robs e Luna che hanno fugato i miei dubbi, letto in anteprima, mi hanno incoraggiata e sono state fonte di ispirazione. Senza di voi questa storia forse neanche ci sarebbe stata.

Detto questo… probabilmente sono arrivata alla fine anche di queste note. Quindi vado, sperando di tornare presto con qualche nuova follia (ma anche no).

A presto.

 

Alch

   
 
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