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Autore: Dayatla    17/08/2013    1 recensioni
"Andrea ha i lineamenti deformati da un pianto che gli toglie il fiato, che gli impedisce di vedere. Tutto per lui è una macchia rossa e grigia in movimento. Il piccolo demonio schiocca le dita ed il fuoco lento si ritira, restano il fumo e le macerie d’una casa smembrata. Il ragazzo si fa largo nell’orrore di fuliggine, avanza con fare affannato, fruga tra i resti, scava come un ossesso. Il bambino continua a seguirlo, lo studia come un ratto da laboratorio, lo guarda disperarsi."
“Soffia vento, soffia...” a cosa si riferiva? Cosa voleva dire? Quella frase gli aveva fatto scoppiare la testa, aveva smosso qualcosa... Come una parola magica, una parola d’ordine. Andrea non capiva, non poteva capirlo, così come non avrebbe potuto capire quegli scritti, perché come quell’infido mostro aveva detto nessuno l’aveva istruito al riguardo. Continuava a cercare, ad accatastare, a graffiare quel punto sulla sua testa, che sentiva pulsare sotto le dita e gli sembrava di sentirne il rumore, come se il sangue si muovesse spasmodico dentro di lui riecheggiando in un delay interminabile nelle sue orecchie."
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ventitré e quarantacinque, vicoli semi deserti, in alto un cielo macchiato da nuvole dense.
Dietro si nasconde una luna crescente che le colora e le scalda.
Un gatto attraversa di fretta la strada simmetrica e fredda costeggiata da palazzi popolari,tutti della stessa altezza, intervallati da piccoli cortili. Poche auto parcheggiate.
Il ponte del primo Maggio ha svuotato le strade. Luci spente nelle case, tranne una.
Ultimo palazzo a destra, appena prima del campo incolto e della fermata del bus. Una luce fioca, come di candela.
Andrea dorme nel suo letto continuando a rigirarsi, il suo respiro affannato è la colonna sonora della notte,insieme al rumore delle coperte mosse senza pace.
Una serie di smorfie si susseguono sul viso sudato del ragazzo, i denti afferrano il labbro inferiore, poi di scatto volta la testa scomparendo nel cuscino, dando le spalle al soffitto.
Una sensazione di vulnerabilità lo assale, si volta di nuovo, la testa ben poggiata al centro del cuscino, le spalle aderenti al letto, il lenzuolo all’altezza del mento. Gli occhi verdi spalancati e lucidi fissano il soffitto.
La mano destra esce dal rifugio sicuro del letto, alla ricerca del bicchiere poggiato sul comodino.
La presa tutt’altro che salda fa si che l’acqua cada sul tappeto. Si alza, seduto sul letto a grandi sorsate svuota il bicchiere.
Ogni notte la stessa scena, pochi minuti di sonno agitato, lo stesso sogno angosciante, i movimenti spasmodici, le smorfie, il sudore e il risveglio. Gli occhi al soffitto. La ricerca dell’acqua. Così da giorni quella luce fioca, tenuta accesa per esorcizzare la paura.
In parte aveva funzionato: riusciva ad addormentarsi, ma quel sogno non lo abbandonava.
Le aveva contate, le volte in cui il bambino dei tuoni e dei lampi lo aveva raggiunto. Erano quindici.
La strada buia, governata dall’alto da un cielo livido, i palazzi grigi da una parte e dall’altra e in fondo il campo incolto, la fermata del bus
. Da lì, dal fondo, una sagoma si fa avanti attraverso le sterpaglie con movimenti lenti: Il bambino dei tuoni e dei lampi.
Quando arriva al centro della strada, solo allora, riesce a vederlo in modo distinto, come se il buio attorno a lui si diradasse.
Una pioggia di fulmini incendia il campo, divide il cemento, sfigura i palazzi. La notte diventa rossa e il fumo riempie l’aria.
Gli occhi del bambino, del colore del mercurio, si riempiono di lacrime.
E’ solo al centro del disastro, distende la mano guardando davanti a sé. - Salvami…
- Andrea non può far nulla. E’ lo statico spettatore d’una piccola apocalisse, ogni notte.
Appena sveglio va verso la finestra, controlla con minuzia la conformazione del paesaggio, trovandolo ogni volta immutato.
Eppure non riesce a farne a meno: una parte del sogno si materializza nella realtà della sua mente, si sovrappone ai suoi pensieri come una minaccia, reale e tangibile. Questa è la quindicesima notte passata a guardare la pioggia di fulmini e la città distrutta dalle fiamme.
Con un segno deciso annerisce un altro giorno sul calendario, lasciando poi il pennarello cadere di punta, sul tappeto, senza rumore.
Torna al sicuro nel suo letto, ma ancora non si sdraia. Non si fida, è troppo presto. Schiena contro il muro, attende che l’ansia passi, che il cuore deceleri, che la realtà alterata nella sua mente torni quella di sempre.
Pensieri normali.
Gli viene in mente il sorriso di Denise, il suo modo di muovere le mani quando è molto presa da ciò che sta raccontando.
Gli viene in mente quel momento strano di silenzio e di imbarazzo, qualche sera prima, quando salutandosi aveva avuto l’impressione che qualcosa stesse per succedere, ma poi niente.
Un bacio sulla guancia e se n’era tornato a casa dando calci ai sassi. Quella sensazione di sconfitta ed imbarazzo, di nuovo.
Odiava quella sensazione. Arrossendo con un calcio allontana le coperte.
- Salvami... Liberami... -
Cazzo... Sto impazzendo... Quella voce, flebile e sofferente l’aveva seguito dal mondo dei sogni come una maledizione, perseguitandolo da sveglio. Viene dall’altra stanza. Quella stanza del cazzo. Dovrebbero dargli fuoco.
Passò i minuti come in uno stato di trance, mangiandosi le unghie, fino a sentire dolore alle mani e sapore di sangue sulla lingua.
Nevrotico che non sei altro, ti sei distrutto le dita, guarda che schifo… Ogni volta si riprometteva di non farlo ed ogni volta ci ricadeva, come
un ubriaco che nello sconforto non sa prendere le distanze dalla bottiglia. Un debole. Un emotivo.
Nasconde quei polpastrelli di cui si vergogna sotto il tessuto del pigiama, cercando di rimanere sveglio, attento, senza sentire più nulla, se non le foglie degli alberi mosse dal vento che soffia insistente di fuori.
Vorrebbe controllare la stanza, quella da cui proveniva l’imploro del ragazzino, ma lì non può entrare, non ancora, non finché i suoi sono in casa.
Domani... domani se ne andranno. Quando il sonno lo raggiunge non gli oppone resistenza, e scivola privo di forze nel disordine del suo letto. Il giorno con la sua insistenza penetra attraverso la persiana, rischiara la stanza.
A terra, sul tappeto chiaro, una macchia nera. Accanto, il pennarello senza tappo. Le coperte in un drappeggio senza eleganza scendono giù dal letto toccando il pavimento. Rumore di stoviglie, cucchiaini poggiati nelle tazze.
Uno, due e tre poi le tazze posizionate sul tavolo per la colazione. Andrea si rigira nel letto, la testa sotto il cuscino per attutire il grido in arrivo: - La colazione è pronta! - Ma lo sapeva già, dal rumore dei cucchiaini poggiati nelle tazze...
Sbatte una, due e tre volte le palpebre, lascia che il giorno pian piano s’impossessi di lui, lentamente.
Passa la mano destra sul viso, insistendo, portando su le sopracciglia.
Con un movimento del braccio fa cadere a terra il cuscino, tirandosi su.
Va verso la finestra, sbircia attraverso la persiana: tutto come sempre, raccoglie il pennarello e lo getta nel cestino accanto al letto.
Al di là della porta, un archetto e poi la cucina, piena di luce, di legno chiaro, con le piastrelle luccicanti, come se nessuno le avesse mai toccate, come quelle dalla pubblicità dello sgrassatore. - Passami un altro po’ di latte, per favore. - La donna bionda in vestaglia blu, sorridendo radiosa, versa dell’altro latte nella tazza del marito. - Ti sei sporcato i baffi… - Così dicendo gli passa il tovagliolo sulla bocca. L’uomo le sorride. - Sara, hai già preparato tutto? - - Si tutto, come al solito. - Sara diventa seria in un istante, dà le spalle al marito, si allontana per guardare fuori, poggia le mani sul davanzale interno della finestra.
Scruta il cielo, le case, il prato, alla ricerca d’una rassicurazione che le calmi i pensieri.
Si volta, tornando a guardare il marito, i suoi occhi gli scavano dentro, cercando qualcosa.
- Non sono sicura che sia la cosa migliore, Andrea è ancora troppo giovane...- - Ma ha già diciassette anni… - - Ha “
solo” diciassette anni! - - Il prossimo anno ne avrà diciotto, per quanto ne sappiamo potrebbe legalmente fuggire in Antartide... -
-Che fugga pure in Antartide, purché non resti qui dentro, da solo, o comunque senza di me. -
- Quella stanza è chiusa, puoi stare tranquilla. Il massimo che può fare è portarsi a casa un’amichetta. -
- Va bene, va bene… Facciamo come dici tu, fidiamoci… Voglio vedere in che bel posto ci porterà tutta questa fiducia. -
Dietro l’arco Andrea ha sentito tutto. Una specie di sorriso gli si è disegnato sulla bocca, la sua mano non ha smesso un istante di giocare con la chiave che tiene in tasca, la stringe come l’oggetto magico in grado d’aprire un portale alieno, o la cassaforte d’una banca.
Ha uno strano nervosismo addosso: quelli che sta cercando di smascherare sono i suoi genitori.
Nonostante ciò non può fidarsi di loro, non gliene hanno mai dato occasione.

Non è colpa mia, continuano a trattarmi come un ragazzino, pretendono soltanto che stia dove dicono loro, che chieda ciò che posso chiedere... Non mi basta, non se devo vivere con loro. A passi sicuri attraversa l’archetto entrando in cucina, si siede davanti alla sua tazza. La riempie. Latte e caffè, li osserva mischiarsi, aggiunge lo zucchero, poi mescola a lungo perdendosi con lo sguardo seguendo il cucchiaino. Beve a piccoli sorsi, in silenzio. Pensa a Denise, di nuovo.
Vorrebbe uscire immediatamente, andare da lei, suonare il campanello, entrare in casa e parlarle, dirle della chiave.
Se lo facesse la troverebbe ancora addormentata e lei si arrabbierebbe, lui lo sa, la conosce come le sue tasche.
Eppure l’altra sera davanti al cancello non era riuscito a capirla.
Voleva baciarla, solo questo era riuscito a capire, ma non quello che avrebbe voluto lei, né il motivo di ciò che lui stesso desiderava. Per questo era rimasto immobile. Per questo ci pensava di continuo e non riusciva a smettere.

Nella sua testa un groviglio di ossessioni creava un percorso sconnesso in cui le idee andavano e venivano da giorni, incentrate su tre punti fondamentali: Denise, il bambino dei tuoni e il bunker segreto del padre.
Sapeva non essere un vero bunker, era soltanto una stanza senza finestre, dietro una porta chiusa a chiave.
Tuttavia a lui e Denise era piaciuto quel nome e gli era sembrato abbastanza inquietante da essere attribuito a quel posto.
Il latte e caffè era stato bevuto a piccoli sorsi fino all’ultima goccia, ma Andrea era rimasto lì, immobile a fissare i granelli di zucchero rimasti integri sul fondo della tazza. In corridoio i genitori sistemano i bagagli davanti alla porta, con minuzia, ricontrollando più volte ogni cosa. Sara, terminati i preparativi per la partenza, sembra per un attimo persa.
Affoga nei suoi pensieri, sentendosi come al centro d’un lago scuro che la risucchia.
Riemerge dalle sue riflessioni, ognuna di queste dirette alla sicurezza del figlio.
Sistema i suoi capelli biondi in una treccia, osservando la sua immagine riflessa nello specchio dell’ingresso.
E’ ancora bella, nonostante il tempo passi. Ha gli occhi grandi che sembrano innocenti come quelli dei bambini, lineamenti delicati e labbra morbide, e sulla sua pelle chiara sembra sia volata della polvere di cacao per formare piccolissime lentiggini.
Il rumore della porta che si chiude e la chiave girata più volte nella serratura. Il bunker è stato chiuso con la solita accortezza.
Ora la donna sa che è proprio arrivato il momento di andare. Entra in cucina, il figlio è ancora lì, seduto davanti alla tazza vuota.
Lei, sorridendo, gli versa dell’altro latte, poi lo abbraccia forte come se non dovesse rivederlo mai più. Sara ha un profumo dolce, di talco. Andrea si sente avvolto e oppresso da quell’odore, dall’amore di quella donna che continua a mentirgli. Il calore di quell’abbraccio e il profumo di sua madre gli restano addosso, per lunghissimi minuti, anche dopo che lei e suo padre se ne sono andati, anche dopo aver sentito il rumore della macchina in partenza portarli altrove. Attende in modo sterile che il tempo passi, senza far nulla o quasi… cose senza importanza.
Una doccia interminabile, da cui esce soltanto quando le dita gli sembrano delle ripugnanti fave lesse.
Aspetta così, tra una cosa e l’altra, che sia una certa ora, per non svegliarla suonando il campanello.
Aprendo il portone per uscire dal palazzo un vento tutt’altro che primaverile insinua la sua presenza nella tromba delle scale con un sibilo, lo stesso si abbatte in strada contro gli alberi, curvandoli e facendone gemere i tronchi chini.
Quel vento gli attraversava la mente, riempiendola del proprio rumore smuovendo i suoi pensieri come foglie, facendoli volteggiare, cambiandone di volta in volta la struttura piramidale, il grado d’importanza.
Dieci minuti di cammino, fissandosi i piedi intenti a compiere passi tutti della medesima distanza.
Fino a poco tempo prima li avrebbe contati, dal suo pianerottolo fino a quello di Denise.
Era riuscito a farne a meno, anche se ogni tanto gli capitava di nuovo.
Ad esempio la sera in cui stava per succedere qualcosa, preso dall’ansia aveva dovuto contare i suoi passi, da un bidone della spazzatura al successivo e poi da un tombino all’altro. Adesso si sentiva abbastanza sicuro da evitarlo, dirigendosi fotocopiando ogni passo fino a casa di lei. Così riusciva ad arrivare da un punto all’altro senza accorgersene, senza far caso al fatto che qualche passante potesse osservarlo pensando qualcosa di ridicolo sul suo modo di camminare o sul suo abbigliamento.
Come un automa arriva davanti al suo cancello, vecchio e difettoso da anni, perennemente accostato, lo spalanca e uno stridio ne segue il movimento, poi di nuovo si socchiude alle spalle del ragazzo. Andrea suona il campanello, due tocchi veloci, poi con le dita picchia sulla porta. Indice, medio, anulare e mignolo, come se avesse digitato un codice segreto la porta si spalanca. Buon dì! - - ”Buon dì” un corno... è quasi ora di cena! - - Beh io mi sono svegliata da poco... è festa no? - - Sì, è festa. - Una coda striata, simile a quella di un procione fa bella mostra di se sbucando da sotto il mobile dell’ingresso, poi con eleganti movimenti Romiao si avvicina ai due ragazzi, curvando la schiena e strusciandosi dalla testa alla coda sulle gambe d’entrambi camminando rigorosamente sulla punta delle zampette bianche, distribuendo fusa. - La bestia vorrebbe mangiare di nuovo…
Crede che sia rincoglionita, che non mi ricordi che ha mangiato esattamente trenta minuti fa. - -Sai D., il tuo gatto ti somiglia... Non ho mai visto una persona mangiare tanto quanto te.
- Romiao intanto a piccoli balzi è arrivato davanti alla porta della cucina continuando a far fusa, ma le sue speranze d’avere una doppia razione di croccantini si affievoliscono, così piroettando si volta e torna a dormire sotto lo stesso mobile. Denise se ne sta sdraiata sul divano bianco latte, i suoi capelli corti e scuri si adagiano spettinati sul viso.
Gli occhi dal taglio orientale, tornano al televisore dove un gioco è stato lasciato in pausa.
Sullo schermo un pupazzetto di pezza in cima ad una rupe. -Giochi ancora con questa cazzata?- -Andrè che palle che sei... I gdr sono troppo impegnativi... Non posso impegnarmi pure mentre gioco.- -Figuriamoci.- -Se vuoi ti metto Final fantasy. Denise si alza dal divano dirigendosi verso di lui, seduto sulla poltrona azzurra. Prende la testa del ragazzo tra le mani, tirandolo verso di se, Andrea sbarra gli occhi, gli sembra d’annegare in quel momento di silenzo, D. avvicina le sue labbra a quelle dell’amico, sorridendo appena, poi alza piano la testa e premendole sul naso del ragazzo facendole schioccare.
Lo allontana fissandolo negli occhi -Beh che sarebbe quella faccia? Ce la facciamo una partita?-
Andrea sospira e ride quasi sollevato, un altro momento in qui qualcosa stava per succedere... forse... ma non ne è sicuro.
Chissà cosa pensava lei, magari lei stava soltanto... scherzando. Da un po’ non la capiva più. Odiava tutto ciò, l’ambiguità dei gesti... il poter attribuire un valore diverso ad una stessa azione. Forse aveva capito che lui l’altra sera avrebbe voluto baciarla e adesso si prendeva gioco di lui con quei giochetti, ma no, non sarebbe stato da lei, ma infondo se non riusciva a capirla ora, magari non l’aveva mai capita davvero. Forse lo provocava, aspettandosi una qualche reazione. -Ma che hai fatto alle mani... ti sei mangiato un’altra volta le unghie?- -Si ma non lo faccio più, giuro.- Il ragazzo s’infila la mano destra nella tasca ed estrae la chiave come il prodigio appena uscito dal cilindro.

-Indovina cos’è questa!- Lei lo fissa un attimo, gli occhi attenti passano dalla chiave agli occhi di Andrea e poi ancora e di nuovo.
-No... non può essere.- -Avanti dillo D!- -La chiave del Bunker...no non può essere- -E invece si!- La ragazza torna a sedersi, porta una mano davanti alle labbra sottili, un po’ rettili, come le sue estremità e resta in silenzio per qualche istante. -Dio Andrè... Come cazzo l’hai avuta!?- -Che finezza ragazza mia...ogni volta mi sorprendi.- -Piantala dai e dimmi come hai fatto.- -Ne ho fatto una copia qualche giorno fa in previsione della grande partenza di oggi.- -Cacchio è vero, partivano oggi!Quindi ci entrerai stasera?- -Pensavo l’avremmo fatto assieme... Alla fine era un “progetto” di gruppo.- -Si, ma stasera non posso, mia madre non c’è e devo badare a mia nonna...l’ultima volta che l’ho lasciata sola ha allagato casa.- -Si mi ricordo.- Andrea aveva raccontato a Denise del suo sogno, ma non trovava il coraggio di dirle dell’ultima notte, quando il bambino dei tuoni l’aveva implorato da sveglio, sussurrando dal bunker.
Non riusciva a parlarne, come se la cosa potesse diventare più grave e reale nel momento in cui gli fosse uscita di bocca, al tempo stesso ne era terrorizzato e non voleva mostrarglielo.
Anche in questo le cose stavano cambiando: non riusciva più a vederla come un rifugio, avrebbe voluto che i loro ruoli si invertissero ed essere per una volta il più forte. La storia inquietante del sussurro proveniente dal bunker rimaneva in un angolo, mentre ripercorrevano ogni supposizione elaborata in passato in merito al caso. Secondo Denise, il Sig. Croce, il padre di Andrea visti i suoi approfonditi studi sull’oriente era sicuramente immischiato in qualcosa di grosso , magari collaborava con la polizia a qualche caso in cui tutte le sue nozioni apparentemente inutili trovavano un loro perchè, il che avrebbe spiegato anche il motivo per cui la signora Croce giustificava il marito in quel modo. Forse qualcosa di vero nella storia dei documenti riservati c’era davvero, magari Sara non era la succube bugiarda che copriva il marito ad ogni costo,mentendo spudoratamente a suo figlio. La storia dell’altare tuttavia nella storia della ragazza non trovava una collocazione, rimaneva sospeso come privo di peso. In realtà Denise non gli aveva mai dato importanza, non quella che gli dava Andrea, nonostante lui gliene avesse parlato più volte con enfasi, soffermandosi a lungo nella descrizione dell’oggetto e delle dinamiche che l’avevano portato alla conoscenza di questo. La teoria di Andrea , totalmente diversa da quella di D., voleva il padre coinvolto in qualche macabra pratica occulta. Andrea non smetteva di crederlo, dall’età di otto anni.
Era notte e vivevano ancora nella vecchia casa, quella col pavimento scricchiolante e le finestre con un solo vetro che vibrava col vento. Quella notte lo svegliarono i rumori, affacciandosi in corridoio, di soppiatto vide i genitori attraversare la casa trasportando con difficoltà quello che sembrava un vecchio altare polveroso. I due parlavano tra loro bisbigliando e guardandosi attorno furtivi come ladri.
C’era una stanza in quella casa in cui Andrea di tanto in tanto andava a giocare, quando la madre non era intenta a stirare o il padre non stava leggendo qualcosa, insomma era una stanza jolly, dove si poteva giocare, stirare o leggere e quant’altro la fantasia suggerisse. Quella notte la porta della stanza jolly si aprì, i due coniugi vi spinsero dentro l’altare e la richiusero.
Andrea non poté più entrarvi per giocare. La giustificazione negli anni restava la stessa: Nella stanza sono conservati documenti importanti che non possono rischiare d’essere persi o rubati.
Le coincidenze che confluivano nella vicenda, tuttavia facevano in modo che la blanda giustificazione non stesse in piedi. In primo luogo la stanza era stata chiusa nell’istante esatto in cui quel vecchio mobile pieno di polvere era stato nascosto al suo interno, il periodo in cui accadde poi andava a coincidere stranamente con la morte del nonno materno.
Andrea ipotizzò così che l’inquietante mobilio giungesse proprio dalla casa del vecchio defunto, dove tuttavia non l’aveva mai visto, perciò concluse che anche allora quell’affare doveva essere tenuto sotto chiave, quasi sicuramente in cantina.
Cosa se ne faceva suo nonno, un avvocato, di quel vecchio altare? Essendo un altare orientale, cosa che dedusse negli anni, ripensando agli ideogrammi che era riuscito a intravedere nella penombra della vecchia casa, il mobile aveva una certa attinenza con quelli che erano gli studi del padre, ma di certo nulla a che vedere col nonno. Ipotizzò per qualche tempo che fosse un reperto, per così dire, da collezione, ma scartò l’ipotesi in quanto il vecchio non aveva mai collezionato nulla, ne aveva mai mostrato interesse per altri manufatti o oggettistica in genere. Così prese piede la convinzione ultima, dall’unione di una sequela di informazioni intrecciate negli anni.
Il nonno materno, il padre e la madre erano devoti a qualche culto misterioso, di cui non capiva bene le dinamiche.
Facevano parte di una setta. Per questo l’altare era sempre rimasto nascosto, per questo i suoi genitori all’epoca ebbero tanta fretta di farlo sparire dalla cantina del nonno, prima che la casa passasse ad altri. Denise da sempre lo prendeva in giro, per la visione tetra che aveva della sua famiglia. Al tempo stesso però era rimasta da subito affascinata dai racconti di Andrea, che credeva però fossero più legati alla fantasia del ragazzo che a qualcosa di tangibile.
Era certo per entrambi, che il mistero del bunker li teneva uniti, più di ogni cosa e le discussioni in merito a questo non vertevano mai sulla veridicità dei racconti di lui, quanto sulle possibilità, che i suoi racconti ed i continui aggiornamenti sul caso andavano ad aprire nella fantasia di entrambi. Così, come tutte le volte, si trovavano davanti ad un tracciato irregolare di ipotesi miste, mentre fuori il cielo che all’arrivo del ragazzo era d’un arancio vivo, si era fatto scuro. Il vento abbassava sempre più la voce, fino quasi a scomparire. -Beh D., si è fatto tardi...- -Sembra proprio di si. Ci vediamo domani?- -Certo.- La ragazza passa una mano tra i capelli infastidita da una ciocca che le copre la fronte, sorride all’amico, poi lo accompagna alla porta.

  
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