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Autore: AntheaMalec    17/08/2013    6 recensioni
John rise, incredulo.
“La polizia non consulta giovani dilettanti.”
Qualcosa nell’atteggiamento di Sherlock cambiò radicalmente mentre i suoi occhi vagavano su di lui.
“Davvero? Potrei dire che stavi studiando una facoltà che ti piaceva molto, medicina. Lo si capisce dal modo in cui analizzi le persone, occhio clinico e dal portachiavi con il serpente attorcigliato al bastone. Ma hai lasciato la facoltà. Ti svegli troppo presto per le lezioni o per i turni da tirocinio, a volte ci incontriamo sulle scale. Lavori per sopravvivere, vivi da solo. Vent’anni e già questo problema? Il perché è ovvio, la famiglia. Probabilmente non ci vai d’accordo, non hai ricevuto nessuna visita in questi giorni. Ma c’è dell’altro.” Sherlock si abbassò sulle ginocchia, continuando a fissarlo. “Il coltello. Lo avresti usato, non avresti esitato nonostante la tua anima da dottore. Tu sei dipendente da adrenalina, non è così? La luce nei tuoi occhi, il modo in cui non riesci a dormire la notte, come reagisci agli stimoli, i sintomi ci sono tutti. La tua vita ti soddisfa molto poco, a quanto pare. Ecco quello che ti serviva.”
[AU Young]
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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His Breath of Life

 

 

 

 

 

Aleggiava uno strano silenzio nel suo appartamento, quella notte. Certo, era presente il ticchettio insistente dell’orologio nel corridoio, il rumore rilassante delle macchine che passavano sull’asfalto bagnato, il ronzio fastidioso del suo frigorifero proveniente dalla cucina, ma il silenzio a cui si riferiva stava avendo spazio nella sua mente. La privazione di pensieri stimolanti, di azione, adrenalina e spirito d’avventura lo rendevano insensibile al mondo. Per questo, quando si svegliava nel cuore della notte, ciò che riusciva a creare dentro e intorno a sé era solo silenzio, stancante e snervante silenzio.
Scalciò le coperte, annoiato da tutto quel tepore e quella solitudine che potevano essere associate a un vecchio signore senza più voglia di aprire gli occhi al mattino e non a un giovane appena sbarcato dall’angosciante mare dell’adolescenza. Si alzò in piedi, strofinandosi il viso stanco con una mano e apprezzando i brividi di freddo dovuti alla scarsa temperatura.
Silenzio.
Esso lo seguì come un’ombra fino al soggiorno, dove John accese la televisione, posata su una vecchia cassapanca, cercando di svagarsi con deplorevoli risultati. Trovò un documentario sulla riproduzione delle cicale, un film romantico datato anni ’70 e il telegiornale notturno.  Quasi sperò, vedendo la battaglia che imperversava in Afghanistan, che qualcuno stesse reclutando giovani promesse. Avrebbe fatto faville, sul campo di battaglia, se lo sentiva fin nelle viscere. Lui era nato per sentire il vento sferzargli il volto, le gambe dolere per la stanchezza e la testa piena di euforia. Era quello che gli serviva, la sua medicina quel silenzio che aveva sempre oppresso la sua vita.
Chiuse gli occhi per un istante, lasciando che la rabbia per quel bilocale, il suo misero lavoro al bar, la sorella in crisi emotiva e per la sua intera vita da pacato giovanotto senza roseo futuro lo investisse come un’onda anomala. Quella sensazione lo riempì tutto per un infinito istante, facendogli pompare il cuore più forte e tendere i muscoli; riaprì gli occhi e ritornò alla normalità.
Una luce improvvisa inondò la stanza, interrompendo la sua forzata attenzione su uno spot pubblicitario.
Scattò in piedi ancora prima di pensare, osservando dalla finestra un’elegante BMW nera parcheggiare davanti al cancello scrostato del condominio. Tolse un po’ di condensa con la mano, guardando meglio ciò che stava avvenendo fuori.
Era strano che qualcuno si fermasse a quell’ora della notte, soprattutto in quella zona periferica della città, a quasi un’ora dal centro.
I fari dell’automobile si spensero e calò di nuovo l’oscurità, interrotta solamente, in alternanza, dal lampione guasto al centro della via. Riuscì a scorgere la figura di un uomo, con il volto nascosto dai capelli, dirigersi frettolosamente fino al cancello, scavalcarlo con un balzo e proseguire nel piccolo cortile dei condomini, prima che il buio lo inghiottisse.
John sussultò mentre la macchina scompariva a fari spenti nella notte. Provò un’emozione mai sentita prima attorcigliargli lo stomaco e mandargli una scarica al cervello. Colui che aveva visto, molto probabilmente, era un ladro. Indossò frettolosamente dei pantaloni slavati e un maglione largo, afferrando un coltello dal tavolo della cucina prima di aprire silenziosamente la porta d’ingresso.
Chiunque avesse avuto voglia di giocare con lui, o con uno degli anziani condomini che dormivano placidamente nei loro letti, avrebbe trovato una brutta sorpresa ad attenderlo: John Watson stava avendo un lungo periodo di giornate no, senza alcuno sfogo per rilassarsi.
Posò i piedi sul pianerottolo quando sentì lo sconosciuto salire le scale velocemente. John aprì la bocca in cerca di aria, mettendosi in una buona posizione di difesa; la sua testa era in subbuglio e il cuore batteva così forte da poterlo ascoltare nelle orecchie.
Rumore.
Gli era già successo di incontrare dei delinquenti, quando era piccolo e nessuno sapeva proteggerlo. Aveva giurato a se stesso, da quella notte, che sarebbe stato forte per sempre.
La luce artificiale si accese di colpo, facendogli socchiudere gli occhi. Cosa diavolo…?, pensò, nel momento in cui riuscì nuovamente ad usare la vista. Notò un giovane ragazzo con un lungo cappotto scuro e un borsone da viaggio di fronte a lui, con un sopracciglio alzato.
Oh. Rimase per pochi istanti in quella posizione, fissandolo, prima di decretare che si fosse già messo abbastanza in ridicolo con quel giovane. Raddrizzò le spalle, schiarendosi la voce. “Piacere, John Watson, immagino tu sia venuto per il 221B.” Il ragazzo si limitò ad annuire, osservando il coltello nella sua mano.
“Lo avresti usato?” Pronunciò poi, con voce profonda. John batté le palpebre un paio di volte, perplesso.
“Forse, credevo fossi un criminale.”
“Supposizione stupida, infatti. Se fossi stato un criminale non ti saresti nemmeno accorto della mia presenza.” John spostò il peso da un piede all’altro, guardando l’altro prendere un mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto.
“Io abito al 221A. Non ci sono molti giovani, qui.” Disse, appoggiando una spalla allo stipite, incrociando le braccia.
“Meglio, non ho un buon rapporto.”
“Con i ragazzi?”
“Con le persone.” Sentenziò, abbassando la maniglia e aprendo la porta d’ingresso.
“Posso darti una mano con i bagagli, se vuoi.”
“Non ho bagagli.” John sospirò, capendo quanto quella conversazione nel cuore della notte, con un coltello in mano e uno sconosciuto sul pianerottolo, fosse assurda.
“Se hai bisogno di qualunque cosa, puoi bussare alla mia porta.” Borbottò, entrando nel suo appartamento, affianco a quello del nuovo arrivato.
“Davvero?” Chiese l’altro, dopo un attimo di silenzio, prima che John chiudesse il portone. Voltò il viso verso di lui.
“Certo.” Disse, aggrottando le sopracciglia.
“Bene, okay.” Mosse le mani contro l’uscio, prima di parlare nuovamente. “Il mio nome è Sherlock Holmes.”
“Buonanotte, Sherlock.” John si sentiva sulle spine davanti a quegli occhi inquisitori, così chiuse la porta alle sue spalle, sospirando.
Sperava solo che non avrebbe cominciato a tenere alta la radio fino a notte tarda o a combinare guai. Aveva già fin troppi problemi a cui badare.

 

 
Per una settimana John osservò in silenzio il nuovo arrivato, quando non aveva i turni o non andava ad aiutare sua madre. Lo stava studiando perché c’era qualcosa di diverso in lui, qualcosa che lo faceva ricadere tra i suoi pensieri, qualunque argomento stesse valutando.
Era bizzarro, ecco tutto. Lo trovava una mattina con un cesto di strani insetti e quella dopo con una provetta fumante. Non parlava mai, però. Accennava un gesto con la testa e spariva nel suo appartamento come un’ombra.
Il lunedì successivo al suo arrivo, John decise di provare a fare un primo, incerto passo verso quel ragazzo, dopo le lamentele a causa del chiasso della signora al piano di sotto. Scese a prendere la posta con tutta calma, ringraziando che almeno il lunedì avesse la giornata libera per riposarsi. Azzardò uno sguardo alla posta del nuovo coinquilino e la vide piena di biglietti elegantemente ripiegati. Li prese delicatamente ed andò a bussare alla sua porta.
Per alcuni istanti si sentì solo il rumore di un trapano e un ronzare fastidioso prima che Sherlock aprisse uno spiraglio, facendo sbucare solo metà volto. “Ciao!” Salutò, schiarendosi la voce. Sherlock sembrò appena stupito, prima di ritornare impassibile.
“No.” John aprì la bocca, confuso.
“No?”
“No, non smetterò di far baccano solo perché la signora Turner vuole riposare. Sto lavorando.”
“Oh, no, sono venuto per la posta.” John gli tese le lettere con un sorriso cordiale. Sherlock le osservò come se fossero sotto ad un microscopio.
“Non ho bisogno di aiuto.”
“Sto solo cercando di essere un vicino cortese!” Ribatté stizzito dall’atteggiamento irremovibile dell’altro.
“Non sono un tipo con cui le persone sono cortesi.” John lo guardò per la prima volta negli occhi e riuscì a leggerci una profonda solitudine, specchio della sua, dietro mura di cemento.
“Io non sono le persone.”
Sherlock sembrò apprezzare la risposta che gli fece affiorare un lieve sorriso.
“Neanche io.” Aprì di più la porta e sparì in cucina, spegnendo quel rumore incessante di sottofondo, prima di buttare tutta la posta nel fuoco.
“Potevano essere importanti.” Asserì, facendosi largo tra le pile di fogli sul pavimento, guardandosi intorno.
L’appartamento sembrava aver subito una rivoluzione. C’era un teschio sopra al camino, buchi nel muro – era forse quello il rumore che aveva sentito la notte precedente, quando ancora non riusciva a chiudere occhio? –, macchie di caffè sul tavolo, strani odori nell’aria e un violino su una scatola, vicino a quelle che sembravano ossa. John pensava di trovarsi in una realtà parallela.
“Sono sicuro che non lo fossero” John sorrise, sedendosi su una sedia e guardando l’altro girovagare per casa.
“Quindi tu lavori a casa? Una specie di impiegato?” Domandò, già sicuro della risposta. Sherlock si fermò davanti a lui, con un’antologia tra le mani.
“E’ questo che credi?” Ribatté con il solito tono a cui John si stava man mano abituando. Sapeva cosa Sherlock cercava di fare: sondare il terreno, vedere se anche lui sarebbe finito nell’angolo dei non-scelti.
“Dimmelo tu, sembri abbastanza sicuro di ciò che fai.”
Sherlock si sistemò la camicia elegante, fissandolo negli occhi e sondandogli l’anima.
“Sono un consulente. Un consulente investigativo.”
John si passò le mani sudate sui jeans, non abbassando lo sguardo nemmeno per un secondo.
“Cosa significa?”
“Significa che quando la polizia non sa come risolvere un caso, ovvero sempre, allora consulta me.”
John rise, incredulo.
“La polizia non consulta giovani dilettanti.”
Qualcosa nell’atteggiamento di Sherlock cambiò radicalmente mentre i suoi occhi vagavano su di lui.
“Davvero? Potrei dire che stavi studiando una facoltà che ti piaceva molto, medicina. Lo si capisce dal modo in cui analizzi le persone, occhio clinico e dal portachiavi con il serpente attorcigliato al bastone. Ma hai lasciato la facoltà. Ti svegli troppo presto per le lezioni o per i turni da tirocinio, a volte ci incontriamo sulle scale. Lavori per sopravvivere, vivi da solo. Vent’anni e già questo problema? Il perché è ovvio, la famiglia. Probabilmente non ci vai d’accordo, non hai ricevuto nessuna visita in questi giorni. Ma c’è dell’altro.” Sherlock si abbassò sulle ginocchia, continuando a fissarlo. “Il coltello. Lo avresti usato, non avresti esitato nonostante la tua anima da dottore. Tu sei dipendente da adrenalina, non è così? La luce nei tuoi occhi, il modo in cui non riesci a dormire la notte, come reagisci agli stimoli, i sintomi ci sono tutti. La tua vita ti soddisfa molto poco, a quanto pare. Ecco quello che ti serviva.”
John non si ricordava come si pronunciava parola.
Il silenzio era calato tra di loro, un silenzio che aveva un sapore diverso da quello a cui era si era sempre abituato. Aveva il sapore dell’attesa.
John sentiva il suo cervello agitarsi e correre frenetico mentre una nuova energia sembrava crescergli nel petto.
“E’ stato…fantastico!”
Sherlock spalancò gli occhi, per la prima volta piacevolmente e sinceramente sorpreso di fronte a lui.
“Pensi questo?”
“Certo che si! E’ stato incredibile, sei davvero intelligente.”
Sherlock si rimise in posizione eretta, stirando le labbra in un sorriso. “Sei il primo che lo dice.”
“Perché la gente è stupida, giusto?” John rise e Sherlock annuì, passandosi la mano tra i capelli.
“Vieni, ti mostro cosa faccio nel tempo libero.”
John scoprì che seguirlo era la cosa più semplice che avesse mai fatto.
 

 
Era in un prato infinito e si sentiva cosi leggero mentre correva a perdifiato nella brughiera che, anche con il respiro spezzato, rideva a crepapelle. Stava seguendo Sherlock, sempre una decina di passi avanti a lui, che urlava il suo nome e lo apostrofava come un cretino che non sentiva il campanello.
Campanello?
John aprì gli occhi, infastidito dal rumore onnipresente del campanello di casa. Perché da un mese e mezzo a quella parte tutti i suoi lunedì iniziavano in quel modo? John sospirò angosciato quando vide l’orologio.
“John? John, alzati, maledizione! Lo sapevo che avrei dovuto scegliere un cane come scaccianoia, molto più utile!”
John incenerì col pensiero la porta e colui che stava dietro di essa per quell’epiteto che si portava dietro da quando avevano iniziato a passare un po’ del loro tempo insieme. Si infilò i pantaloni della tuta e una maglia, andando ad aprire la porta.
“John, finalmente!”
Per tutta risposta inarcò le sopracciglia.
“Sono le cinque del mattino di uno dei miei due giorni di riposo. Sherlock Holmes, spero tu abbia una motivazione valida.”
“John, ho finito il latte e metà della mia cucina stava andando a fuoco a causa dello stupido acido di ieri sera!”
John chiuse gli occhi e cercò di non implodere per la frustrazione.
“Non dormire in piedi, dai, ho anche un lavoro da fare insieme questo pomeriggio.”
“Con il tuo scaccianoia?” John era sicuro della sua irremovibilità quel giorno: nessuno l’avrebbe smosso da casa sua.
“Con il mio assistente.” Sparò a freddo, bloccando John per un istante.
“Deve essere costato tanto progredire nel girone dell’Inferno che noi ordinarie persone chiamiamo gentilezza.”
“Non sai quanto.” Brontolò, incrociando le braccia al petto come un bambino e guardandolo con i suoi migliori occhi da cucciolo.
“Entra e mangia qualcosa, prima. Non voglio portarti a casa in braccio a causa di uno svenimento.” Cedette, facendolo entrare in casa e grattandosi la nuca, sconfitto.
“Va bene, dottore.”
Sempre la solita storia, pensò con un sorriso felice sul volto, un sorriso che aveva poche settimane ma a cui si stava abituando in fretta.
 

 
Non aveva programmato il giorno in cui qualcosa di strano scattò in John, anzi. Era un comune giorno come tanti. Aveva dormito quattro ore, aveva un livido nero sotto l’occhio, a causa del killer seriale di due sere prima, e aveva appena finito il suo turno pomeridiano al bar.
Era tornato a casa con un mal di schiena atroce mentre l’aroma delizioso che proveniva dall’appartamento della signora Hudson gli intorpidiva i sensi. Passò davanti al 221B e si fermò, indeciso tra la voglia di un bel bagno caldo o qualche nuova pazzia del suo migliore amico.
Aprì la porta con il duplicato delle chiavi che si era fatto fare dopo che Sherlock stava morendo nel  soggiorno a causa di una nube tossica da lui stesso creata.
Ormai passava tutto il suo tempo libero con lui e non avrebbe voluto spenderlo con nessun altro. Lui era unico nel suo genere e anche se molto spesso cercava di comportarsi come un irritante robot senza scrupoli, da poco tempo avevano trovato piacevole, o almeno John la pensava così, passare le serate sul divano logoro a guardare TV spazzatura o discutere su files di casi da risolvere, fino a quando John si addormentava in un angolo e si svegliava la mattina dopo con un plaid sulle spalle. Semplicemente, adorava la vita che si stavano creando insieme.
Non era sicuro che Sherlock provasse per lui quella profonda amicizia che lui aveva da subito sentito per quel ragazzo solitario che aveva deciso di incominciare la propria vita lontano dalla famiglia, proprio come lui.
Si diresse verso la cucina dove Sherlock era solito fare i suoi esperimenti, ma di lui nessuna traccia.
“Sherlock?” John prese il suo cellulare dalla tasca ma nessuna notifica lampeggiava sul suo schermo. Dove diavolo si era cacciato?
Quando ormai la preoccupazione stava prendendo il sopravvento in lui, John lo trovò.
Sherlock era steso su un fianco, sul suo letto matrimoniale. I riccioli appena bagnati e il petto nudo lo facevano somigliare a uno di quegli angeli raffigurati nelle chiese. Le labbra piene erano appena socchiuse e la sua espressione era serena e pacifica. Sherlock stava dormendo come un bimbo.
John si accorse dopo qualche minuto di star sorridendo intenerito a quella scena, desiderando di condividere con lui quel momento.
Si tolse lentamente le scarpe, avvicinandosi al letto e tirando su le coperte nel poco non occupato dal lungo corpo dell’amico. Si stese e restò a contemplare le ciglia scure che gli accarezzavano le guance pallide, il capello ribelle che gli sfiorava la fronte e l’arco di cupido che armonizzava la sua bocca e tutti i suoi lineamenti. Accarezzò con un polpastrello la punta del suo naso prima di abbracciarlo delicatamente e respirare tra i suoi ricci.
Quando Sherlock si adattò al suo corpo e si accoccolò contro di lui, John seppe distintamente che, qualunque persona gli avrebbe chiesto con chi non avrebbe saputo vivere, la risposta sarebbe stata la stessa, per il resto della sua vita.
Sherlock.

 

 
Uno scampanellio frettoloso ruppe il silenzio isterico di John, gli occhi fissi su Sherlock seduto a testa in giù sul divano del 221B.
“Finalmente, è arrivata la pizza.” Borbottò, alzandosi dalla poltrona.
“Noioso.”
“Sher-“
“Noioso.”
“Potresti alm-“
“Noioso!”
John inspirò forte, afferrandosi le tempie e cercando di non impazzire mentre andava ad aprire la porta. Prese le scatole e lasciò la mancia, prima di ritornare in soggiorno, dove Sherlock aveva ripreso una posizione normale.
“Hai scelto il film per stasera?”
“Psycho.” Rispose, afferrando le pizze. “Non hai preso da bere, John!”
Per tutta risposta, John incenerì con lo sguardo Sherlock che sorrideva beato.
Marciò fino alla cucina, ignorando il richiamo invitante dei coltelli, e prese due bottiglie di birra, cercando con l’altra mano il cavatappi dentro al cassetto. Appena trovato, John aprì con forza il tappo.
Chiuse gli occhi, contando fino a dieci mentre sentiva la birra bagnare sempre di più il suo maglione nuovo.
“Sherlock!” Strepitò, posando con un gesto secco la bottiglia, ormai vuota per metà, sul ripiano del cucinotto.
“Si?” Rispose con voce falsamente angelica.
“Hai per caso sbattuto le birre, Sherlock? Perché una mi è appena esplosa in mano!” Tornò in salotto e vide Sherlock con le sopracciglia aggrottate. “Non ricordo, devo averlo rimosso. Comunque prendi quella, se per te è un problema di grande rilevanza, quell’orribile maglione.” John sbuffò dal naso, prendendo una camicia di Sherlock che era stata abbandonata sulla sedia.
“Non abbiamo la stessa taglia, potrei romperla.”
Sherlock scrollò le spalle.
“Puoi tenerla, se ti va, così perdoni le birre.” Perdonare lui, voleva dire, e John lo capì bene.
Andò in cucina a mettersi la camicia, guardandosi nel riflesso della finestra. Gli stava bene, forse un po’ stretta in vita ma indubbiamente bellissima. Annusò un piacevole odore contro al tessuto sottile e lo associò immediatamente all’aroma naturale di Sherlock.
Sorrise un po’ di più e tornò in soggiorno, sedendosi sul divano, dove Sherlock aveva già fatto iniziare il film da una manciata di minuti. Prese la sua cena e si sistemò meglio contro i cuscini, sentendo una strana sensazione addosso. Girò il capo e vide gli occhi di Sherlock puntati su di lui.
“Che c’è?” Chiese, avvicinandosi un po’ di più a lui.
“Niente, sto bene.” Sherlock ritornò a guardare la televisione, con un lieve rossore sulle gote. “Quella camicia ti sta…è okay. Su di te. Ecco.” John sorrise fino a sentir male ai muscoli facciali, con un calore incendiario nel corpo.
Lo abbracciò da dietro per tutto il resto della serata, ascoltando rapito i suoi commenti sul film.
Il giorno dopo, la camicia color prugna aveva il posto d’onore nell’armadio di John.

 

 
“Sherlock!” Sussurrò, continuando a correre per le strade buie di Londra, cercando di acciuffare un venditore illegale di armi che vendeva anche droghe di molteplici tipi. “Sherlock, aspettami!” John non si sentiva più le gambe e i polmoni gli stavano andando a fuoco. “Sherlock, non ce la faccio più!” Gridò, allora, vedendo che l’altro continuava ad andare avanti senza di lui. A quel punto Sherlock si arrestò e lo spinse in un vicolo laterale, continuando ad osservare la strada.
“Sei impazzito, John? Poteva rintracciare la nostra posizione con i tuoi piagnistei!” John lo trucidò con lo sguardo, colpendolo al braccio.
“La tua considerazione per la mia salute è commovente.”
“Si, si, grazie.” Mormorò Sherlock, non prestandogli attenzione. John lo fissò per qualche minuto e, notando il suo continuo atteggiamento strafottente, fece dietrofront e cercò di uscire dal cunicolo. Poco prima di uscire dal loro nascondiglio, Sherlock lo afferrò per la manica del giubbotto. “Dove stai andando?” Mormorò infastidito.
“Da qualche altra parte.”
“Non fare il bambino.”
“Credo dovrei essere io a dirlo a te.”
Sherlock serrò i denti. “Perché fai cosi?”
John non si aspettava una domanda del genere in quel momento. Da giorni fantasticava su come sarebbe stato abbattere quei muri che li dividevano e rivelargli che lui era…
“Dovremmo controllare l’uomo e chiamare la polizia.”
“Mi sto occupando di te, ora. Posso fare entrambe le cose.” John serrò la mascella e osservò gli occhi chiari di Sherlock che brillavano come zaffiri nella notte.
Bellissimo.
Una sola parte del viso era illuminata dal chiarore della luna mentre l’altra era inghiottita dalle tenebre, come il suo intero essere.
John alzò piano la mano, andando a sfiorargli lo zigomo. Sherlock sembrava avere la fragilità di un bambino.
“Cosa…cosa stai facendo?”

Ti sto amando, pensò, prima di alzarsi sulle punte e premere le labbra contro le sue. Sembrava di marmo, ma non gli importava perché se quella fosse stata l’unica e l’ultima volta che lo avrebbe baciato, almeno voleva godersela.
Portò una mano tra i suoi ricci, accarezzandogli la nuca e l’altra sulla sua spalla mentre provava a muovere le labbra contro le sue, lentamente.
Perfetto.
Era una morte dolce, come una mosca che affogava nel miele.
Sherlock provò a far scivolare le mani sui suoi fianchi, succhiando il suo labbro superiore. John sospirò, soddisfatto, toccandogli il labbro inferiore con la punta della lingua.
Il rumore chiassoso ed estremamente vicino di una pattuglia li fece staccare, a malincuore. Sherlock si sistemò la giacca, uscendo dal viottolo nel più completo silenzio.
Era sotto shock?, si chiese John, cercando di guardarlo di sottecchi mentre Lestrade parlava con loro e poi lungo tutto il tragitto per tornare a casa. Aveva fatto bene a fare quello che aveva fatto? Era stato azzardato? Aveva rovinato il loro rapporto? Non voleva più tornare nel silenzio.
Arrivati al loro condominio, John aveva già preparato tutto un discorso di scuse e di mal fraintendimenti, ma tutto ciò che riuscì ad uscirgli di bocca fu il suo nome in risposta al gelido buonanotte da parte di Sherlock. Non avrebbe permesso ad uno stupido errore di rovinare le coccole sul divano, con sulle gambe i cartoni del ristorante cinese affianco, le risate dopo aver messo in galera un criminale, il momento in cui si svegliava con le urla di Sherlock nelle orecchie e la colazione insieme al mattino. Ogni secondo con lui era prezioso e avrebbe volentieri accantonato il suo amore pur di stare vicino al meraviglioso uomo che era.
La mattina successiva, John era convinto di ciò che avrebbe dovuto fare, così si vestì e andò al 221B.
La porta era appena socchiusa e tutto ciò che apparteneva a Sherlock sembrava essere sparito nel giro di una notte.
Quando la consapevolezza della realtà incominciò a farsi strada in lui, John sentì la voglia di vomitare il suo intero essere.
Di Sherlock, del suo Sherlock, non c’era più traccia.
Girò tutte le camere più e più volte, chiamando il suo numero e quello di suo fratello, ma la segreteria fu l’unica voce che riuscì ad ascoltare.
Silenzio, ancora.
Le gambe cedettero per un istante e si aggrappò al muro per non cadere, ritornando nel suo appartamento. Perché? Aveva creduto di poter risolvere ogni cosa insieme e invece ciò che gli restava era solo aria.
John tornò nella sua camera da letto e notò un pezzo di carta sul comodino, grande quanto un biglietto da visita.

 Addio, John. SH 

Il suo cuore rallentò fino a rompersi in mille pezzi. L’aveva amato troppo e lui non l’aveva amato abbastanza.
Una sola lacrima rigò il suo volto, ma bruciò come mille lame di fuoco.
Andato.
Per sempre.

 

 
Due mesi dopo

 
“Va bene, Mary, solo per questa sera. Sì, ti passo a prendere io, a dopo.” John chiuse la telefonata, entrando nel condominio, salutando la signora Hudson sul balcone.  Quella sera avrebbe avuto il suo primo appuntamento dopo lui e Mary era riuscito a convincerlo solo per stanchezza.
Non che non fosse attraente, anzi, capelli biondi, occhi scuri, magra e abbastanza alta, con un seno pieno e la parlata facile. L’aveva conosciuta al bar e dall’ora non aveva smesso un momento di provare a fargli spuntare un sorriso.
Il problema era lui, nonostante fossero passati giorni interminabili dal suo addio. Solo pensare al suo nome gli faceva rabbia. Aveva calpestato il suo cuore e l’aveva lasciato esiccare, facendolo morire in solitudine fin quando aveva avuto la forza di rindossare la maschera che per anni gli aveva fatto compagnia.
Ora faceva finta di nulla perché l’alternativa era peggiore.
Salì stancamente le scale, passandosi una mano sul volto stanco, con il silenzio che aleggiava intorno a lui. Aprì la porta di casa e gettò la borsa a tracolla sul pavimento, fiondandosi in camera.
Avrebbe dovuto trovare una scusa per non uscire con Mary? Non sapeva più cos’era giusto o sbagliato.
Spalancò le ante dell’armadio, cercando della biancheria pulita, e il suo sguardo incrociò la sua camicia, ripiegata accuratamente sui suoi maglioni.
Per la millesima volta la stessa domanda aleggiò nella sua testa: perché?

Lui non era un ragazzo che si dimenticava facilmente, tutto il contrario, non lo si dimenticava mai.
John tolse la mano che, senza pensare, era finita sulla camicia e si diresse in bagno proprio mentre qualcuno suonava alla porta. John aggrottò le sopracciglia, guardando l’orologio. Strano, nessuno gli faceva visita e aveva espressamente chiesto a Mary di aspettarlo a casa.
“Chi è?” Urlò dal soggiorno, ma non arrivò nessuna risposta. Il cuore di John cominciò a galoppare impazzito. “Chi è?” Un nuovo squillo di campanello.
John andò ad aprire la porta e il respiro gli si bloccò in gola.
Non di nuovo.
“Ehi…”
Il suo cuore si era come bloccato – o prima era fermo e ora aveva ripreso a battere*. Non riusciva a muovere un muscolo di fronte alla faccia da cucciolo bastonato di Sherlock Holmes.
“John…” Lo fermò con un gesto della mano, gli occhi pieni di rancore.
“Perchè sei tornato?” Mormorò con un filo di voce mentre Sherlock si aggiustava il colletto del cappotto.
“Lo sai perché. Sono qui.”
John strinse forte la mandibola, sentendo tutti i sentimenti e le parole non dette salire su, su e ancora più su, come un fiume in piena. Stavolta sarebbe stato il suo turno di parlare. “John, posso comprendere che tu sia turbato dal mio ritorno, ma non sai-“
“Oh no, Sherlock, no.” Sherlock chiuse la bocca, incontrando il suo sguardo. “All’inizio ero turbato. All’inizio avevo paura ed ero pietrificato, continuavo a pensare che non avrei potuto vivere senza te al mio fianco, ma poi ho passato così tante notti rimuginando su quanto ti eri comportato male con me che sono diventato più forte, ho imparato ad andare avanti. Ora sei tornato da chissà dove! Ti sei semplicemente presentato alla mia porta con quello sguardo triste sul viso. Avrei dovuto cambiare la stupida serratura del cancello, avrei dovuto cambiare appartamento se avessi saputo anche solo per un secondo che saresti tornato a darmi fastidio.” Non si rendeva conto di quello che diceva, voleva solo fargli male, voleva che finalmente togliesse quella maschera e gli mostrasse chi era veramente. “Beh, puoi andare adesso, va’ via, esci da qui e vai a farti un giro perché non sei più il benvenuto. Non eri tu quello che ha cercato di ferirmi con un addio? Pensavi che sarei crollato? Pensavi che mi sarei buttato a terra e sarei morto? No, non io!**Non per te, Sherlock.” Riprese fiato, continuando a guardare il suo volto imperturbabile mentre i suoi occhi esplodevano in mille pezzi. Ora poteva capire.
Sherlock prese il suo borsone da terra, senza guardarlo. “Avrei anche creduto a ciò che hai detto, John.” Proruppe a un tratto, prima di entrare. “Ma scommetto che nel tuo armadio la mia camicia è ancora in cima a tutto il resto.” Chiuse la porta con fracasso prima che John crollasse sul pavimento, contro la porta chiusa del suo appartamento, senza forze.
Non sarebbe sopravvissuto all’amore se in guerra c’era Sherlock Holmes.

 

 
Per i primi quattro giorni John si rifiutò di uscire di casa, fingendo l’influenza a lavoro, pur di non incontrare Sherlock, anche per sbaglio. Erano tornati i soliti rumori provenienti dal 221B, se possibile ancora più forti di prima, cosa che aveva creato dei dubbi in John – che cercasse di attirare la sua attenzione, insieme a quella di tutto il vicinato?.
Evitava anche i messaggi di Mary, che ormai era finita in fondo alla sua classifica di persone da vedere.
Aveva provato a buttare quella dannata camicia nel cestino e con lei tutti i suoi sentimenti, ma era finito con il dormirci accanto come un bambino, tutte le notti. Gli mancava e non gli aveva nemmeno dato modo di spiegarsi.
Il quinto giorno, John era andato da Tesco per forza di cose e gli era sembrato di rivedere gli stessi riccioli scuri sulla testa del cassiere e la stessa pelle nivea nel ragazzo davanti a lui. Aveva preso anche una confezione di latte in più, per precauzione.
Il sesto giorno, aveva sperato che Sherlock riprovasse a parlargli e John gli avrebbe detto che no, era irremovibile, e poi l’avrebbe baciato così tanto da consumargli le labbra.
Il settimo giorno, si ritrovò a suonare il campanello del 221B, con in mano il giornale di quel giorno. Sherlock venne ad aprire con solo i pantaloni addosso – probabilmente nel suo infinito dizionario non esisteva la parola decenza.
John gli tirò il giornale in faccia. “Sei un idiota.”
“Mi hanno apostrofato con termini peggiori.” Rispose, scrollando le spalle, studiando il linguaggio del suo corpo.
“Voglio sapere perché te ne sei andato, Sherlock, ti do cinque minuti.” Sherlock restò in silenzio, guardandolo, cosa che fece irritare John. “Allora?”
“Non riesco a dirlo.” Sussurrò così piano che fece fatica a sentirlo.
Oh, il suo Sherlock. Così forte per non mostrarsi così fragile.
Voleva davvero rimanere arrabbiato con lui finché non avesse imparato la lezione, ma quello sguardo, quelle labbra appena aperte che urlavano silenziosamente per l’incertezza, tutto di lui gli chiedeva di accoglierlo sotto la sua ala. Lo amava tanto, lo amava troppo per rifiutare.
Gli afferrò i capelli e gli spinse dolcemente la testa contro la sua spalla, abbracciandolo forte.
“Ci sono io con te, devi accettarlo.” Sussurrò, accarezzandogli la tempia con le labbra. Sherlock tentennò appena prima di nascondere la testa contro il suo collo. “Ti sei spaventato, non è così? Nessuno ha mai provato questo per te e tu non hai mai ricambiato nessuno. Ma questa volta è successo.” Sherlock sospirò, muovendosi all’indietro fin dentro casa, continuando a stringerlo.
“E’ stato più forte di me.”
“Non ti perdono di essertene andato via da me dopo il nostro bacio.” Disse sicuro, osservando emozionato tutte le sfumature delle sue iridi, cibandosi di lui. “Ma puoi provare ogni giorno, stando con me fino a quando le tue mani rugose non riusciranno più a premere il grilletto.”  Sherlock sorrise, accarezzandogli il polso.
“Non accadrà tanto presto. Ci vorranno ancora molte altre teste nel frigo, casi da risolvere, indizi da decifrare, esperimenti da fare, violini suonati nel cuore della notte e cene di Natale insieme a Mycroft.”
“Dio, quest’ultima è la peggiore!” Esclamò, fintamente inorridito, ridendo mentre Sherlock avvicinava il proprio volto al suo, osservandolo negli occhi.
Sapeva che si stava adattando alla situazione e restò completamente fermo, con il respiro che accelerava sempre più. Sherlock fece scontrare il naso contro al suo prima di baciargli un angolo della bocca. John sorrise, circondandogli la schiena con le braccia.
“Non ho intenzione di essere quella persona che si accorge del valore di ciò che ha solo quando lo perde, quindi non azzardarti a farlo di nuovo.” Sussurrò, prima di baciarlo con passione, finendo contro il muro.
“Io resto.”
John gli baciò il collo, la mandibola e la guancia, in una calda scia che si interruppe con il suonare del telefono di Sherlock.
“E’ Lestrade, non è vero?” Sospirò, facendo un paio di passi indietro.
“Già, un caso da otto, pare. Vieni?”
John prese il cappotto e gli sfiorò il dorso della mano con le dita. Non si sarebbe mai lamentato della sua vita perché era ciò che aveva sognato da sempre.
Sherlock era il vento che gli sferzava il volto, gli faceva dolere le gambe e gli riempiva la testa di bellezza. Sherlock era la sua medicina, il suo campo di battaglia.
Il suo primo, lungo, intenso, respiro di vita.

 

 

 

NOTE:

*Max Pezzali – L’universo tranne noi

** Gloria Gaynor – I will survive

 

Questa fic la dedico a tutti i miei fedeli lettori che leggono e lasciano un pensiero ad ogni storia che viene postata qui su Efp. Vi ringrazio tanto, siete tutti una piccola parte del mio cuore.

Buon fine agosto e alla prossima!

   
 
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