Fanfic su attori > Alex Pettyfer
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Autore: Aissela_    17/08/2013    1 recensioni
Jonathan Rider è un comune diciannovenne di Seattle che ama stare in compagnia degli amici e uscire con le belle ragazze il sabato sera. Ma appena i suoi genitori rimangono coinvolti in un incidente mortale, la vita di Jonathan cambia radicalmente. Viene affidato ad uno degli orfanotrofi più duri del Paese, non avendo più nessun parente ancora in vita. Jonathan si trova costretto a fuggire dalla città, a lasciare i suoi amici e a cambiare nome pur di non finire in orfanotrofio. Inizia così un viaggio verso Miami, una delle più grandi città dell'America, piena di misteri e verità con cui Jonathan dovrà fare i conti. E' proprio qui che scoprirà di non essere un ragazzo qualunque, e che alcune persone farebbero di tutto per arrivare a lui.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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10. Una notte in gattabuia

Di preciso non so quanto restai seduto su quella panchina a fissare il vuoto. Però dopo un bel po' mi resi conto che stava facendo buio. Ormai il bar doveva essere chiuso e Sarah sotto le coperte a dormire, a casa sua. Quanto avevo voglia di vederla... Ad un certo punto sentii qualcuno camminare verso di me, verso la panchina su cui ero seduto. Ma non mi girai, non mi importava nulla se qualcuno voleva picchiarmi o direttamente uccidermi. Continuavo a fissare davanti a me con gli occhi socchiusi. Poi sentii qualcuno che diceva: "John Smith? Sei tu?" Era la voce di una donna, adulta. Si mise davanti a me e io dovetti per forza alzare gli occhi su di lei. Aveva un'uniforme e un capello blu e teneva in mano una pistola. Puntata su di me. Era una poliziotta. "Sei tu John Smith? Rispondimi." mi chiese in tono tranquillo. Adesso io guardavo le mie scarpe, mentre pensavo a cosa ripondere. Poi finalmente dissi: "Che succede?" con un tono troppo rassegnato. La poliziotta abbassò la pistola dopo essersi resa conto che non avrei alzato un dito su di lei. Mi si avvicinò lentamente e mi disse: "I genitori di Dylan Ventury hanno sporto denuncia verso John Smith, per averlo ferito in modo grave. Sei stato tu, non è vero?" Io alzai gli occhi su di lei pensando ai casini che sarebbero successi quella notte. "Si. Sono stato io." dissi rassegnato. Tanto non sarei andato da nessuna parte dicendo una cazzata. Poi lei mi prese per il braccio e mi portò verso una macchina della polizia parcheggiata all'entrata del parco, dove ci aspettava un signore seduto al volante.

Dopo neanche 15 minuti di macchina arrivammo alla "Centrale di polizia di Miami". Quando scesi dalla macchina, la poliziotta mi mise delle strettissime manette ai polsi, dietro la schiena. Poi, una volta entrati, mi fecero mettere seduto in una stanza tutta bianca e azzurra, su una fila di sedie. Davanti a me c'era un bancone e dietro di esso una signora che parlava al telefono. Era come una specie di sala d'attesa, solo che davanti alla porta della stanza c'era un poliziotto che mi fissava. Dopo parecchi minuti sentii la porta che si apriva e due signori vestiti di blu mi presero per le braccia e mi fecero entrare in un'altra stanza, più scura della precedente. C'era solo un grande tavolo al centro, con due sedie poste alle estremità. Il resto della stanza era vuoto. Mi misero seduto su una delle sedie e poco dopo arrivò un signore anziano, con dei baffi grigi e abbastanza in carne, che si mise seduto sulla sedia davanti a me. "Ciao John, lo so che sono le 2 del mattino, ma abbiamo ricevuto una denuncia da parte di genitori molto arrabbiati. Conosci un certo Dylan, per caso?" mi chiese gentilmente, ma nel tono aveva un po' di sarcasmo. "Si." risposi io. Non avevo voglia di farmi prendere per il culo da questi quattro imbecilli, perciò decisi di rispondere svogliatamente. "Bene. Sei stato tu a picchiarlo, ieri mattina, nel bar davanti al parco?" mi domandò l'uomo, più seriamente. "Si." risposi io, di nuovo. Il signore si alzò lentamente e cominciò a girarmi intorno, continuando a fare domande. "Okay, John. E per quale motivo lo hai fatto? Ti ha dato fastidio?" mi chiese lui. "Ha dato fastidio ad una ragazza." ribattei io, guardando fisso davanti a me, nel vuoto. Sarah. Avrà detto lei ai genitori di Dylan quale era il mio nome? Sarà stata lei a denunciarmi? "E questi lividi, chi te li ha fatti?" mi domandò indicando la faccia. "Dylan. Ieri notte." risposi. Il poliziotto mi guardò confuso. "Quindi anche lui ti ha picchiato? Per una ragazza?" mi ridomandò. Vide che non collaboravo, perciò scoppiò. "Cazzo, John, sono le due del mattino, vuol deciderti o no a dirmi quello che è successo ieri sera?" disse urlandomi in faccia. A quel punto spiegai tutto. Spiegai che un giorno entrando nel bar davanti al parco vidi due ragazzi che litigavano. Erano loro, Sarah e Dylan. Io consolai Sarah, l'aiutai a superare la rottura, ma Dylan, la sera stessa, mi picchiò nel parco, minacciandomi di morte. Il giorno dopo di nuovo mi picchiò, solo che io reagii. Ero stufo delle sue minacce, per questo cominciai a picchiarlo, più forte, più violentemente. Alla fine del mio racconto, il poliziotto mi guardò e disse: "Hai mandato quel ragazzo in ospedale, John. Gli hai rotto il naso e due costole. E' pieno di lividi sulla faccia e ha un occhio gonfio." mi disse scoraggiato. Io rimasi a guardarlo finchè non capii la gravità della situazione. Cosa mi avrebbero fatto adesso? Sarei finito in prigione? Cazzo, Mia e Vince mi avrebbero ucciso di sicuro. "Adesso, John, dovremmo portarti in cella, finchè qualcuno dei tuoi parenti non verrà a prenderti. Possiamo chiamare qualcuno?" mi chiese lui. "Io non ho parenti, vivo con due amici." risposi io, pentendomene subito. "Cosa? E i tuoi parenti dove sono? I tuoi genitori?" mi chiese lui incuriosito. Dopo parecchi minuti a fissare il pavimento, decido di rispondere. "Sono morti. Vince e Mia mi hanno ospitato in casa loro." Il poliziotto guardò un suo collega che era presente nella stanza. Poi tornò a guardare me. "Lo sai che non puoi vivere con i tuoi amici se non hai già compiuto i vent'anni? Devi essere sorvegliato da un tuo famigliare, per adesso. Non hai nessuno? Un nonno, uno zio, un cugino che ha più di vent'anni?" domandò lui con dolcezza. "Io... No. Non ho mai avuto nonni o zii. Vivevo solo con i miei genitori." risposi titubando. Il signore fede una smorfia e poi disse: "Bene. Intanto ti portiamo in cella, per una notte. Poi domani mattina contatteremo qualche orfanotrofio che sia disposto ad accettarti." Io rimasi a bocca aperta. Sono scappato da Seattle, ho cambiato nome, ho lasciato i miei amici e la mia casa per non finire in orfanotrofio, e adesso? Mi ci spediranno lo stesso. Cazzo. "Portatelo in cella." disse il poliziotto. Qualcuno da dietro mi fece alzare e mi portò per i corridoi della centrale. Poi scendemmo delle scale e arrivammo in un corridoio più stretto e buio. C'erano circa 20 o 30 celle su questo corridoio. Il poliziotto mi mise in una cella vuota, accanto a un ragazzo pelato pieno di tatuaggi e ad un signore sui cinquanta che dormiva. Poi mi tolse le manette e chiuse a chiave la cella. Ma che cazzo avevo fatto? Non ero mai stato un tipo manesco che finiva nel guai. E di certo non ero mai finito in galera. Domani mattina sarei sicuramente finito in qualche orfanotrofio e la mia vita sarebbe finita. Non avrei più rivisto Sarah, ne Vince o Mia. Mi misi seduto su un materasso tutto sporco e poggiato a terra. Poi mi infilai le mani tra i capelli e cominciai a piangere, silenziosamente.







Ma buongiorno belli miei :') Come state? La storia si fa sempre più complicata e il nostro povero John è sempre nei guai. Poverino. Ma tra poco le cose si metteranno ancora peggio, tranquilli xD Allora, fatemi sapere se vi piace :') Mi farebbe tanto piacere, visto che ci sto mettendo il cuore per scriverla :')

Quant'è bello mamma mia *-*

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