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Autore: EvgeniaPsyche Rox    18/08/2013    8 recensioni
Roxas Hagen vive un'esistenza che è lontana anni luce da ciò che si può considerare come una vita normale.
E' stato spedito nella clinica Werner a sedici anni e mezzo;ora ne aveva diciotto e a lui sembrava sempre di essere al punto di partenza.
Anzi.
Talvolta gli pareva addirittura che la sua situazione fosse peggiorata.
-Un migliore amico che fa di tutto pur di infrangere le regole, un odiosissimo compagno di stanza, terapie di gruppo, pazienti del terzo piano, passati che continuano imperterriti a bussare alla porta...
Forse non ricordava neanche che cosa fosse una vita normale. -
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Hayner, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Insidie interiori.

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2. Home


Prima detestava a morte l'odore delle sigarette e addirittura, quando qualche suo amico tirava fuori il famigerato pacchetto dalla tasca dei jeans, lui si allontanava di parecchi metri, infastidito.
Prima, ovvio.
Tutto ciò accadeva prima, quando la sua vita non era ancora un cumulo di macerie e quando lui si poteva ancora considerare una persona normale.
Aveva scoperto per caso che il fumo riusciva in qualche modo a bloccargli lo stimolo della fame; un pomeriggio si era recato in un piccolo bar in periferia, intenzionato a comprare un pacchetto di chewing-gum che gli avrebbe consentito di saltare la cena, quando il suo sguardo era casualmente andato alle numerose marche di sigarette presenti.

Così in un attimo decise di cambiare i propri programmi e intuì immediatamente che quella era la strada giusta per sentire il meno possibile la fame; le chewing gum non contenevano molte calorie, ne era consapevole, ma sapeva anche che esse accrescevano la voglia di cibo.
Al contrario, le sigarette gli sarebbero potute bastare per tutti e tre i pasti della giornata.
Non gli interessava dell'alito che puzzava perennemente di fumo, dei suoi polmoni che imploravano pietà, né tanto meno delle lamentele in famiglia.
L'unica cosa che desiderava era dimagrire e quello stratagemma aveva funzionato perfettamente, almeno quando viveva fuori da quel dannatissimo posto.
Tutto quel bianco camuffato.
Ma c'era Hayner, la sua àncora, il suo salvagente. Lui talora riusciva a procurarsi un paio di sigarette; una volta era riuscito ad avere addirittura un pacchetto intero.
Le sigarette.
Le sigarette tanto bramate e sudate.
Le sigarette che in quel momento Axel si stava fumando con tutta la traquillità esistente sulla faccia della Terra, inspirando il fumo con fare particolarmente rilassato.
«Dovresti vedere la tua faccia», continuò a parlare il fulvo, portandosi la sigaretta alle labbra. «Sembri sul punto di scoppiare.»
Perché non poteva avere neanche un attimo di pace?
Almeno prima nella sua stanza, per quanto si sentisse solo e straziato, poteva rimanere immerso nel suo beato silenzio.
Prima, certo.
Prima.
Sempre prima, mai ora. Per lui bisognava utilizzare perennemente il passato.

A Roxas parve quasi di sentire i bulbi oculari fremere dalla rabbia; strinse con furia i pugni fino a sentire le unghie penetrare nella pelle, forse nella futile speranza di poter ancora contenere quell'immensa collera.
Axel, dal canto suo, sembrava sempre più divertito dalla situazione; per lui vedere gli altri alterarsi pareva quasi uno spettacolo particolarmente comico. Non allontanò le iridi dal compagno di stanza neanche per un secondo; addirittura lo sfidò con gli occhi, probabilmente incuriosito dal vedere la sua mossa successiva.
Mossa che non tardò ad arrivare.
Roxas in realtà non ci pensò poi molto; si limitò a voltare per pochi secondi lo sguardo e allora un lampo attraversò la sua mente.
Axel nel frattempo diede l'impressione di essere sul punto di dire qualcosa, probabilmente l'ennesima presa in giro aspra e bastarda, quando notò che il biondo lo aveva raggiunto con passi estremamente veloci; dunque si mise a sedere, sempre più divertito, pronto a fargli capire che in forza fisica era senz'altro il migliore, finché Roxas non lo lasciò completamente spiazzato con due semplici movimenti: appoggiò la mano sullo stereo e lo lanciò contro il pavimento, fermando così la canzone giusto un attimo prima dell'inizio del ritornello.
Roxas allora si accorse di aver toccato un altro punto debole dell'uomo, poiché quest'ultimo passò dallo stupore all'ira in una manciata di secondi; il giovane lo ignorò tranquillamente e si limitò ad afferrare il proprio libro per spolverarlo dalla cenere.
«Tu», sputò Axel, alzandosi con aria minacciosa. «maledetto stronzo, raccogli il mio stereo.»
«Altrimenti?», lo sfidò beffardemente il diciottenne, non degnandolo di uno sguardo. In un primo momento dentro provò paura, doveva ammetterlo, ma poi si accorse che non doveva più temere nulla. Aveva rischiato di morire, lo avevano sbattuto in una clinica, la sua vita non aveva praticamente senso... Di certo un altro pugno non gli avrebbe cambiato la situazione.
Anche perché prima di essere stato ricoverato urgentemente, prima dell'anoressia, erano successe altre cose. Altri avvenimenti, altri fatti. Una molla che lo aveva spinto brutalmente a distruggersi.
«Roxas, il tuo problema è che non riesci a dimenticare ciò che è successo.», gli aveva rivelato il dottor Astron già alla quarta seduta. Se fosse stato per lui, uno psicologo brillante, non c''è che dire, sarebbe giunto a questa conclusione già alla seconda seduta; il problema era che Roxas si era deciso a parlare soltanto dopo un paio di settimane. Praticamente le prime sedute le aveva spese a fissare il vuoto, limitandosi a rispondere a monosillabi.
«Altrimenti questa volta ti spacco per davvero la faccia». Roxas si accorse della presenza del rosso dietro di sé e si voltò di scatto, stringendo il proprio libro come se fosse una sorta di scudo. Dopodiché ridusse gli occhi a due fessure e decise che, siccome non era particolarmente dotato di forza fisica, si sarebbe limitato ad usare le parole. «Davvero vuoi colpirmi di nuovo? Beh, ci rimetteresti soltanto tu, sappilo. E questa volta la punizione te la beccherai solo tu perché io non mi difenderò minimamente. Ti puniranno e sarai lo zimbello di tutta la clinica. E magari prenderanno anche dei provvedimenti molto pesanti perché io non mi farò problemi a dire al preside che ti stavi fumando una sigaretta.»
Quelle parole non fecero altro che alimentare ulteriormente il fuoco di Axel, dal momento che non appena il biondo concluse il proprio discorso -A parer suo brillante-, lo afferrò per il colletto della felpa e lo spinse contro il muro senza troppe cerimonie. «Io giuro davanti a Dio che ti ammazzo se non chiudi quella boccaccia.»
«Che paura.», commentò apaticamente il biondo, mantenendo il contatto fisso con le iridi smeraldine dell'uomo.
Ci fu un attimo in cui pensò seriamente che sarebbe morto ed ebbe davvero l'impulso di gridare, o comunque di spingerlo via. Vide qualcosa nei suoi occhi, uno spruzzo di follia che per un momento lo spaventò in qualche modo. E Roxas allora guardò la mano di Axel spostarsi di pochi centimetri più in alto per potergli stringere il collo. Piano, piano, senza fretta, giusto per godersi appieno il senso di morte che gli stava invadendo il corpo. E in quegli attimi Roxas si domandò se la sua malattia non fosse soltanto un disperato tentativo di suicidio. Si disse che forse morire era davvero ciò che desiderava. Forse non aveva mai fatto nulla per salvarsi veramente. Probabilmente perché non pensava di meritarselo. Non voleva alcun salvagente. E allora perché non morire in maniera più semplice? Overdose? Buttarsi da un palazzo? Tagliarsi le vene? Perché aveva scelto proprio la via più complicata e intricata?
Forse perché la gente non aveva mai visto di buon occhio il suicidio, poiché quest'ultimo non era mai abbastanza motivato, soprattutto per il mondo della religione. Roxas non sapeva esattamente se credeva o meno. Ricordava vagamente quando sua madre costringeva lui e suo fratello a partecipare alle messe della Domenica, ma non aveva mai prestato davvero attenzione alle parole del prete.
Forse credeva. Forse era per questo che non era ancora giunto all'ultima pagina della sua esistenza. Della sua esistenza, sì, perché la sua non era più una vita. Quando si parla di vita ci si riferisce ad un ammasso di colori; anche tristi, è vero, ma sono presenti pur sempre tutti. Esistenza invece gli ricordava il grigiore, l'assenza totale di vivacità.
Forse Roxas non si era mai suicidato perché temeva di trovare qualcosa di peggiore nell'Aldilà, dunque aveva preferito semplicemente lasciarsi andare negli abissi del proprio disturbo.
E' meglio sentire parlare di un ragazzo morto a causa di una malattia che ha apparentemente cercato di sconfiggere, piuttosto che leggere sul giornale il suicidio di un giovane qualunque. La gente prova compassione per la morte, non per il suicidio.
Ma nell'Aldilà probabilmente avrebbe ricevuto comunque una punizione; se Dio sapeva davvero tutto avrebbe certamente compreso che lui non aveva mai cercato di lottare veramente per la propria vita, giusto?
Roxas era consapevole di avere un'immaginazione particolarmente fervida, forse anche malata. Lo aveva sempre saputo, soprattutto perché Axel in realtà non spostò mai la propria mano intorno al suo collo, né decise di mettere semplicemente fine alla sua esistenza. Probabilmente aveva riflettuto sul suo famigerato discorso ''brillante'' e aveva lasciato perdere. Si limitò dunque ad allontanare bruscamente il braccio prima di voltarsi verso il suo letto, riprendendo lo stereo tanto amato prima di rimetterlo al proprio posto. «E invece dovresti avere paura.»
Roxas lo ignorò e si avvicinò al comodino posizionato accanto al suo materasso, aprendo il primo cassetto. «Non toccare più il mio libro.», mormorò abbastanza forte da farsi sentire dall'altro che non si fece scrupoli a ribattere immediatamente: «E tu non osare più toccare il mio stereo.»
Il biondo farfugliò un ''va bene, va bene'' e sistemò il proprio libro nel cassetto prima di richiuderlo, lasciandosi sfuggire nel frattempo un pesante sospiro. Dopodiché si voltò verso il suo compagno di stanza, notando che si era nuovamente sdraiato sul letto, osservando con aria persa il soffitto mentre nella mano sinistra reggeva ancora la sigaretta giunta quasi al termine.
E per un attimo Roxas si rivide in quella sigaretta. Osservò la punta che si accendeva non appena Axel se la portava alla bocca e si accorse che il fuoco che lo stava bruciando era l'anoressia.
E si accorse anche che la bocca che lo stava risucchiando era il suo passato.
Ma che cos'era rimasto di lui? Metà? Un quarto? O stava giungendo davvero al termine? Si sarebbe ridotto anche lui ad un cumulo di cenere?
Probabilmente.
''Il fumo uccide'', vi è scritto sui pacchetti, eppure alla gente poco importa. Roxas sapeva che la sua malattia, la sua ossessione, l'anoressia, lo stava uccidendo, ma non gli interessava. Aveva comprato lo stesso quel pacchetto, più di due anni fa. Lo aveva comprato e non aveva mangiato fino al giorno successivo.
''Skip dinner, wake up thinner.''*
«Che stai guardando?». Roxas sussultò, interrompendo il flusso dei propri pensieri, e si accorse di aver mantenuto lo sguardo fisso verso l'uomo dai folti capelli rossi, il quale aveva sollevato istintivamente il soppraciglio. «Apri la finestra, se domani passano quelle della pulizia sentiranno la puzza di fumo e poi scaricaranno la colpa anche a me.»

Axel si limitò a rispondere con una scrollata di spalle e tirò fuori un fazzoletto dai propri pantaloni; schiacciò la sigaretta con forza per spegnerla del tutto prima di infilarla all'interno di esso. Dopodiché arrotolò il fazzoletto, si alzò, si recò in bagno e Roxas intuì dal rumore dello sciaquone che lo aveva buttato nel gabinetto.
Per essere un nuovo arrivato ne conosceva di trucchetti, doveva ammetterlo.
E mentre Axel si lavava con estrema cura le mani per togliere la puzza di fumo dalla propria pelle, Roxas si accorse della presenza di una seconda sigaretta proprio accanto allo stereo. I suoi occhi in un attimo si illuminarono e si affrettò ad afferrarla.
«Di' al tuo amichetto di chiudere la porta della sua stanza a chiave, la prossima volta». Il biondo sobbalzò un poco e si voltò di scatto verso Axel, cercando comunque di infilare la sigaretta in fretta e furia nella tasca dei propri pantaloni. L'uomo notò il suo gesto ma non vi badò più di tanto, probabilmente perché poco interessato di fumare ancora; dunque si limitò a raggiungere nuovamente il proprio letto e si coricò.
«Non è normale entrare nelle stanze altrui.», fece notare Roxas, osservando i gesti dell'altro con la coda dell'occhio.
«L'ho sentito scommettere delle sigarette e allora mi è venuta voglia di fumare, tutto qui.», spiegò con estrema tranquillità il fulvo, facendo partire per l'ennesima volta quella dannatissima canzone che ormai aveva fatto venire la nausea a Roxas. «E adesso levati dalle balle, va' dal tuo amichetto.»
«Con immenso piacere.», commentò Roxas prima di avviarsi verso la porta, pronto ad abbandonare quella che, purtroppo, non era davvero più solo la sua stanza.







Inclinò la testa all'indietro e riaprì lentamente le palpebre, scrutando con aria persa il cielo nuvoloso sopra di sé. L'aria, nonostante non fosse particolarmente forte, era così gelida da penetrargli fin dentro le ossa. Il fatto era che il desiderio di uscire dalla sua stanza il più presto possibile lo aveva spinto a non portarsi dietro nemmeno una giacca.
Questo significava che si sarebbe accontentato della sua felpa enorme; enorme per davvero, poiché era talmente larga che il vento entrava all'interno delle maniche senza alcun problema.
«Ehi, che ci fai qui?». Roxas si voltò di scatto e incrociò le iridi scure di Hayner che in realtà lo stava guardando già da qualche minuto.
«Potrei chiederti la stessa cosa.»
«Classica battuta da film.»
«Stai dicendo che sono monotono?». A quella domanda il nuovo arrivato accennò una risata e scosse la testa, prendendo posto accanto al biondo. «Possiamo stare qui anche un po', tanto la signora Olsen è impegnata a provarci con il nuovo dottore e non sta controllando l'uscita.»
«Di nuovo? Non ci credo.», borbottò Roxas, ricordando che era già la terza volta che quella maledetta vipera tentava di tirare fuori il suo cosiddetto ''fascino femminile'' di fronte a quell'uomo.
«Meglio per noi, no?»
Roxas annuì. «Però non mi hai ancora detto perché sei qui.»
«Beh», iniziò l'amico, scrollandosi le spalle. «volevo uscire per fare finta di fumarmi quella cazzo di sigaretta. E pensare che mi ero anche procurato l'accendino.», il ragazzo infilò le mani nelle proprie tasche e tirò fuori un piccolo accendino verde, sbuffando sonoramente.
Roxas allora si voltò dall'altra parte e si morse nervosamente il labbro inferiore.
Quando era uscito dalla sua camera era rimasto a lungo indeciso sul da farsi; avvertire immediatamente Hayner di essere riuscito ad avere almeno una sigaretta o no? A quel punto gli avrebbe certamente chiesto chi fosse il famigerato ''ladro'' e al sentire nominare il suo compagno di stanza sarebbe andato su tutte le furie. Si sarebbe precipitato nella sua camera e gli avrebbe tirato un pugno o qualcosa del genere, così sarebbe finito nei guai, come al solito d'altronde.
Aveva anche pensato di mentirgli; avrebbe potuto dirgli che l'aveva trovata per caso, ma dove? Si sarebbe certamente accorto della menzogna.
Ma il punto non era quello.
Il problema era che Roxas desiderava ardentemente sentire l'odore del fumo insidiarsi nei propri polmoni in santa pace. In santa pace, sì, solo l'aria notturna e l'odore della nicotina. Sapeva perfettamente che il suo era un pensiero egoistico, poiché non era stato lui a procurarsi la sigaretta, però... Però era troppo tempo che non si riempiva lo stomaco con qualcosa di diverso da litri e litri di acqua.
Era un egoista di merda. E la verità era che, se non fosse stato per il fatto che non aveva un dannatissimo accendino, di quella sigarette sarebbe rimasta solo la cenere.
«Roxas, che hai?». Il biondo sussultò al tocco dell'altro sulla propria spalla e tornò a guardarlo prima di sospirare appena. «Ho trovato una delle sigarette che sei riuscito ad avere.»
Hayner allora allontanò di scatto il braccio e sgranò gli occhi. «Che? Stai scherzando?»
L'altro scosse la testa, tirando fuori la prova concreta dalla propria tasca. «Dai, fumiamocela prima che sparisca magicamente davanti ai nostri occhi.», Roxas allora allungò la mano libera verso il compagno, attendendo che gli venisse consegnato l'accendino, quando quest'ultimo si alzò bruscamente.
E nonostante fossero circondati dall'oscurità più totale, Roxas riuscì a vedere gli occhi di Hayner, i quali stavano traboccando di ira. Era adirato, certo, anche se vi erano state volte in cui lo aveva visto ben più infuriato.
«Allora sai chi è stato lo stronzo che ha frugato nella mia stanza, no?!», tuonò Hayner, serrando di scatto i pugni.
Roxas si morse una seconda volta il labbro, cercando in qualche modo di deviare l'argomento. «Non ti preoccupare, non ha visto il cibo che nascondi. Ha sentito della storia delle sigarette e quind-»
«'Fanculo! Non si doveva permettere di entrare nella mia stanza! Chi cazzo è stato, Roxas?!». Quest'ultimo si accorse che ormai Hayner stava gridando e che, molto probabilmente, se la signora Olsen in quel momento non fosse stata impegnata a fare la gatta morta con il dottor Luterling, sarebbe uscita a controllare chi diavolo si era recato nei cortili fuori orario.
E forse ancor prima di spalancare le porte avrebbe già intuito che non si trattava altro di loro due.
Roxas non sapeva che cosa dire, ma decise comunque di schiudere le labbra, sperando di essere investito da un lampo di genio all'ultimo secondo, quando l'altro presente lo precedette, poiché quei pochi attimi di silenzio gli bastarono a comprendere il quadro completo della situazione: «E' STATO QUEL FIGLIO DI PUTTANA, ROXAS?! E' STATO LUI, NON E' VERO?!»
Il giovane dalle iridi blu si sforzò in ogni maniera di mantenere un tono pacato e, dopo aver preso un profondo respiro, ricominciò a parlare: «Sì, Hayner, è stato Axel. Ma che importa? Non puoi andare lì e picchiarlo.»
«Infatti non voglio picchiarlo», si affrettò a far notare il compagno con la voce ancora carica di ira pura. «Lo voglio uccidere». E quella frase fece provare a Roxas la medesima sensazione che aveva sentito poco prima nella sua stanza, quando Axel lo stava stringendo per il colletto della sua felpa; i brividi di morte, quelli che congelano le ossa e terrorizzano la paura stessa.
Solo che prima se lo era immaginato. Axel non aveva mai stretto le mani su di lui. Invece Hayner l'aveva detto, forte e chiaro, aveva fatto uscire quelle parole e in qualche modo Roxas ne era rimasto turbato.
Perché, poi? Quante volte lui stesso aveva detto che avrebbe ammazzato qualcuno con le sue stesse mani?
Come se non si fosse sporcato le mani già abbastanza.
Dal momento che Hayner non ricevette alcuna risposta, fece per incamminarsi verso l'edificio, quando Roxas allungò il braccio e lo afferrò per il polso sinistro. «Per piacere, lascia perdere.»
«E' entrato nella mia stanza, Roxas. Non si doveva permettere. La deve pagare.», sputò con ira il giovane, guardando un punto perso di fronte a sé, immaginando forse una vendetta particolarmente crudele.
«Sei tu che non hai chiuso a chiave». A quell'osservazione Hayner si voltò di scatto e incrociò finalmente gli occhi dell'amico. «Ah, quindi adesso lo stai difendendo?»
«Non lo sto difendendo. Resta pur sempre Mr. Schizzato.», farfugliò il biondo, sperando di alleggerire l'atmosfera, senza comunque lasciare la presa sull'altro. «Ti prego, Hayner. Fallo per me.»
E quella semplice frase bastò a far cambiare idea ad Hayner, il quale si sedette nuovamente accanto all'amico, sorridendogli calorosamente come se nulla fosse successo. «Va bene, a patto che però il primo tiro lo concedi a me.»
Roxas sollevò il soppraciglio destro, perplesso di fronte all'improvviso cambiamento d'umore del compagno; certo, era felice di essere riuscito a convincerlo, ma, testardo com'era, si aspettava come minimo di impiegare una decina di minuti per incoraggiarlo a lasciare perdere.
Decise però di non pensarci e si concentrò esclusivamente sulla propria vittoria, se così si poteva definire; dunque ricambiò il sorriso e gli porse la sigaretta, osservando poi distrattamente la fiammella che fuoriuscì immediatamente dall'accendino dell'altro. «Ti posso rivelare una cosa?»
Roxas sollevò gli occhi verso il volto dell'amico e annuì anche se l'altro non lo stava guardando, dal momento che era intento a portarsi la sigaretta alla bocca. «Ti ascolto.»
«Questo posto non è così male, in fondo.», e, dopo aver detto ciò, Hayner spostò nuovamente lo sguardo verso il compagno che aveva spalancato le iridi, sconvolto.
«Mi stai guardando come se avessi bestemmiato nel bel mezzo di una messa.»
Roxas sentì la gola improvvisamente asciutta e scosse la testa, massaggiandosi le tempie con aria esasperata. «Quello che hai detto è ben peggiore.»
Hayner allora espirò il fumo dal naso e scoppiò a ridere prima di porgere la sigaretta al biondo, il quale si sforzò in ogni maniera di non apparire eccessivamente eccitato. Si sentiva davvero un bambino in mezzo ad un negozio di giocattoli.
«Ma dai, che esagerato. Insomma, sì, è un cesso di posto, il cibo fa vomitare, i medici ci trattano come dei ritardati, l'incontro settimanale con Astron è una rottura di coglioni, la terapia di gruppo ti fa cadere le palle, però alla fine ti ci abitui. Voglio dire, se tornassimo lì, uhm, a casa», e Hayner dovette interrompersi per qualche secondo, poiché quella parola gli parve particolarmente difficile da digerire. «sarebbe peggio. Non ci hai mai pensato? Che cosa succederebbe se ci dimmettessero? I nostri parenti continuerebbero a trattarci come dei ritardati. Con le pinze, sai. Magari avrebbero paura di aprire la porta della nostra stanza e di trovarci lì a distruggere tutto, così, a caso, come degli schizzati. E ad ogni fottutissimo pasto tutti gli occhi sarebbero puntati su di noi. Andiamo, non sarebbe uno schifo? Qui si sta bene, dopotutto. Inoltre se uscissi ci sarebbero tutti i miei vecchi compagni di scuola che mi riempirebbero di domande di merda. Poi, cazzo, tutti parlerebbero di me, del bulimico di merda che è uscito da quella clinica di malati dopo più di un anno. Per non parlare del mio vecchio; lo sai che mi ha sempre odiato, no? Scommetto che ha preferito raccontare a tutti che sono morto in un incidente, piuttosto che ammettere che suo figlio non riesce a mangiare un piatto di pasta senza andare a vomitare al gabinetto. Qua nessuno mi giudica. Certo, ci sono i medici e tutti 'sti stronzi, però alla fine non gliene frega un cazzo di noi. Chissà quanti bulimici avranno visto nella loro vita. Io sono uno dei tanti, solo che scasso anche le palle perché combino casini. Là fuori io non saprei come vivere, Roxas. Noi non saremmo più capaci di ambientarci. Chi darà un lavoro a dei tipi che hanno passato gli ultimi anni in una cazzo di clinica? Io qui sono okay, Roxas, questa è diventata quasi casa mia. Se uscissi là fuori non saprei che combinare. Mio padre mi porterebbe in qualche ristorante di lusso per festeggiare la mia guarigione, come se gliene importasse veramente qualcosa poi, e alla fine del pasto chiederei al cameriere dov'è il bagno per poter vomitare tutto per colpa dell'ansia, della tensione, insomma. Mi sono dimenticato come si vive tra la gente normale. Ehi, lo sai che non mi ricordo neanche quanto costa un cazzo di pacchetto di biscotti al supermercato? Assurdo.»
Il vento si alzò improvvisamente, provocando il fruscio di un mucchio di foglie non molto distante dai due ragazzi. E, al tempo stesso, quella folata di vento investì Roxas, lo penetrò con forza attraverso le larghe maniche della sua felpa e gli provocò un violento brivido.
E quello, in fondo, non era altro che il suo modo di comportarsi con la vita.
Tenersi tutto dentro.
L'aria gelida che gli schiaffeggiava la pelle, lui che non faceva nulla per fermarla. Anzi, magari il giorno dopo avrebbe indossato qualcosa di ancora più largo. Per nascondere, nascondere tutto. Nascondere il proprio problema, il suo vento interiore, che era mille volte più gelido di quell'aria notturna.
Roxas aveva ascoltato le prime frasi abbastanza distrattamente, poiché aveva concentrato gran parte della propria attenzione a godersi l'odore della nicotina.
Un bambino che scarta il regalo più grande sotto l'albero di Natale.
Dopodiché aveva allontanato la sigaretta dalle propria labbra ed era rimasto in completo silenzio, ingoiando ogni singola parola dell'altro come se fosse un macigno. O meglio, come se fosse cibo, cibo normale. Cibo che lo rendeva grasso, imperfetto, inacettabile.
Eppure quelle parole non lo avevano riempito, al contrario, lo avevano del tutto svuotato.
La sigaretta si spense tra le mani di Roxas, il quale però non vi fece molto caso.
Il discorso di Hayner gli provocò un altro brivido; un brivido della stessa intensità di quello che aveva provato a causa dell'aria gelida.
«Casa è dove ci sono persone che ci amano, che ci aiutano in qualche modo. I medici non ci amano. Come puoi considerare questa merda casa tua?»
Hayner accennò un sorriso sghembo, lasciando trasparire un leggero disagio provocato da chissà cosa. «Perché, là fuori invece c'è qualcuno che ci ama? Se siamo qui è perché loro non sapevano come aiutarci.»
Roxas allora abbassò leggermente lo sguardo, non sapendo come ribattere.
Il discorso di Hayner non sembrava così stupido, tutto sommato. Eppure non era d'accordo con lui. Come poteva mai considerare casa sua una dannatissima clinica di recupero?
Il punto però era che non aveva il coraggio di chiamare ''casa'' nemmeno il posto in cui aveva vissuto, fuori da quell'edificio pieno di matti.
Roxas sussultò, accorgendosi che l'altro nel frattempo aveva allungato il braccio verso di lui per potergli accendere nuovamente la sigaretta; a quel punto il biondo gli rivolse un flebile sorriso di ringraziamento e se la portò alla bocca. «Quindi tu vorresti morire qui dentro?»
«No, non ho detto questo.», Hayner si mise le mani dietro la testa e si sdraiò sull'erba, facendo intuire a Roxas che poteva terminare di fumare la sigaretta senza doverla più condividere. «Però non credo che ci sentiamo pronti ad uscire.»
«E quando lo saremo? E' passato un anno e mezzo e tu non ti ricordi quanto costa una scatola di biscotti. Tra un altro anno che succederà? Dimenticheremo l'esistenza degli autobus? O magari ci scorderemo perfino come sono fatte le strade?»
Hayner soffocò una mezza risata con il naso e si voltò verso l'amico. «Non c'è fretta.»
Il compagno sospirò e rimase in silenzio, concentrandosi per qualche secondo soltanto sull'odore del fumo che gli riempiva le narici.
Non parlarono più. Rimasero semplicemente lì, uno seduto a gambe incrociate, l'altro sdraiato, aspettando la fine di quella benedetta sigaretta. Ci fu un attimo in cui a Roxas parve di essere un ragazzo normale; un ragazzo che magari si trovava nel giardino di casa sua e che aveva invitato il proprio migliore amico a dormire da lui. Però nella sua stanza faceva troppo caldo, così avevano deciso di passare la notte fuori ad ammirare il cielo. Poco importava se il giorno dopo avrebbero avuto scuola; l'insegnante li avrebbe sgridati per il ritardo, pazienza.
Ma no.
Lui non era un ragazzo normale, né tanto meno si trovava nel giardino di casa sua. Era nel cortile di una dannatissima clinica di recupero, anche se si trovava insieme a quello che ormai da un anno considerava il suo migliore amico. Almeno qualcosa di vero c'era.
Poi sospirò per l'ennesima volta e guardò la sigaretta giungere al termine.
Forse Hayner era messo meglio di lui. Considerare una clinica di recupero come casa era un pensiero folle, certo, ma lui addirittura non sapeva quale fosse la propria casa. Non si sentiva a casa né in mensa, né nella sua stanza (Tanto meno ora che doveva condividerla), né nello studio del dottor Astron. Né nella sua vera casa, quella che non vedeva da un anno e mezzo. E anche se lo avessero dimesso non sarebbe riuscito a considerarla più come la propria casa.
Forse Roxas Hagen era destinato a non avere più un posto in cui entrare e dire: ''Casa, dolce casa.''









«Dove stai andando?», domandò, ma lei non lo udì, o forse fece finta di non udirlo.
Roxas si mosse nella sua piccola stanza e si voltò verso lo specchio, quando un'orrenda creatura riflessa lo costrinse a spalancare la bocca.
Un urlo silenzioso per gli altri, assordante per lui.
Corse via dalla stanza e incrociò nuovamente sua madre, la quale non lo degnò di uno sguardo. Allora si ritrovò in bagno e alzò gli occhi verso il piccolo specchio, scontrandosi nuovamente con il medesimo mostro di prima.
Non era lui, si disse, non poteva essere lui.
Aprì la bocca e questa volta lanciò un urlo che infranse una volta per tutte le barriere del suo incubo.
Roxas spalancò di scatto gli occhi e si accorse di avere il fiato inspiegabilmente corto; si guardò attorno, tra le tenebre, realizzando dopo qualche secondo di aver appena avuto un brutto sogno.
Si tolse le coperte e si strinse le spalle, cercando in ogni maniera di calmarsi e di non farsi prendere dal panico, quando una voce non molto distante da lui lo fece sobbalzare dallo spavento: «Ma che cazzo ti è preso?»
Roxas si voltò alla propria sinistra e vide di sfuggita un braccio muoversi nell'oscurità. «Mi hai svegliato, grazie tante.»
Il biondo deglutì rumorosamente e notò di avere la gola secca; schiuse le labbra nella speranza di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma la voce sembrava essersi bloccata tra le sue corde vocali, come se anche essa si fosse in qualche modo spaventata.
Non era così inusuale per lui avere gli incubi; talvolta sognava frammenti della propria giornata che si trasformavano in poco tempo in veri e propri film dell'orrore. Altre volte sognava ciò che era successo prima, tanto tempo fa, e quelli erano gli incubi che più lo turbavano. Non per nulla ogni volta che il suo sonno veniva disturbato da essi andava a bussare alla porta della stanza di Hayner e passava il resto della nottata in sua compagnia.
Se in quei momenti fosse stato in sé, Roxas non avrebbe mai fatto una cosa del genere, poiché era un gesto da femminucce, a parer suo. Il problema era che la prima volta che aveva avuto un incubo del genere era rimasto sconvolto e si era precipitato fuori dalla propria camera alla velocità della luce, tirando poi numerosi pugni sulla porta dell'amico che aveva ingoiato in un attimo tutti gli insulti che stava preparando mentalmente quando si era ritrovato la figura tremante di Roxas davanti a sé. «Amico, tutto... Tutto bene? Cos'è successo?»
E Roxas quella notte aveva scosso la testa, boccheggiando come un pesce fuori d'acqua.
«Ma che hai? Marluxia è entrato nella tua stanza e ha cercato di stuprarti?», aveva cercato di buttarla sul ridere il compagno, inclinando la testa su un lato.
Ma Roxas non era riuscito né a ridere, né tanto meno a sorridere; al contrario, si era messo le mani sul volto e aveva iniziato a respirare più velocemente, come in preda ad un attacco di panico. «Ho vissuto tutto un'altra volta... Ho visto di nuvo tutto quello... Quello che è successo, Hayner... E l-lui era sempre lì, io, lo so che è colpa mia, ma... Dio mio, voglio morire, Hayner, voglio-», e il ragazzo dalle iridi marroni lo aveva interrotto afferrandolo per il polso, accennando un sorriso rassicurante. «Era un incubo, Roxas, va bene? Era solo un cazzo di incubo. Se vuoi puoi stare da me 'sta notte. Non ho più sonno, possiamo parlare fino all'alba, vedrai che ti passerà tutto.»
E gli era passato tutto per davvero. Le chiacchiere di Hayner erano un'ottima medicina contro i suoi incubi peggiori, per questo Roxas non avrebbe mai smesso di ringraziarlo abbastanza.
Eppure quella volta era stato diverso. Il batticuore, il respiro affannato, i violenti brividi. Gli stessi sintomi dei suoi incubi peggiori, ma non aveva sognato quello che era successo. C'era sua madre, la sua stanza, degli specchi... E poi?
Roxas si massaggiò la testa e, improvvisamente, si ricordò: l'orrenda creatura riflessa. Era quella che lo aveva spaventato davvero.
«Sei morto?». Roxas si voltò nuovamente verso il letto del proprio compagno di stanza e sbuffò rumorosamente. «Devo andare in bagno.», farfugliò poi, alzandosi velocemente per potersi dare una rinfrescata al volto.
«E c'era bisogno di urlare come un matto?», chiese ironicamente Axel, infastidito di essere stato svegliato in maniera così brusca. E ciò che lo infastidì ancora di più fu il fatto che l'altro non gli degnò di una risposta. «Esigo almeno delle cazzo di scuse.»
«'Fanculo.», parlò finalmente il biondo prima di chiudere la porta del bagno dietro di sé.







Era Venerdì e tutti nella clinica Werner sapevano che cosa simboleggiava quel giorno.
Roxas non era riuscito a chiudere occhio per il resto della nottata; aveva passato due ore a rigirarsi ripetutamente nel letto, chiedendosi se fosse il caso di parlare al dottor Astron del suo incubo nella sua futura seduta, e quando le prime luci dell'alba avevano invaso la stanza i suoi pensieri si erano spostati sull'ennesimo Venerdì che avrebbe dovuto sopportare.
Ed era così buffo come il suo rapporto nei confronti dei giorni fosse cambiato da quando era entrato in quella dannatissima clinica.
Prima, quando le scorie tossiche del suo disturbo non lo avevano ancora raggiunto, amava il Venerdì e il Sabato, come ogni altro suo coetaneo. Il Venerdì indicava la fine della settimana scolastica; durante quel giorno doveva sforzarsi di mantenere la concentrazione un'ultima volta prima di sentire il dolce suono della campanella che avrebbe udito nuovamente soltanto il Lunedì successivo.
E usciva dalla classe correndo, prima. Con il sorriso sulle labbra, la cartella che non faceva nemmeno in tempo a mettersi sulle spalle dalla fretta di tornare a casa una volta per tutte. A casa, in cucina precisamente, dove lo attendeva la merenda costituita da una fumante tazza di cioccolata calda e tre biscotti.
Prima.
Roxas amava il Venerdì pomeriggio. Suo fratello fuori a giocare con i vicini, i suoi genitori a lavorare: diventava dunque lui il re della casa. E si sentiva un re per davvero, anzi, un principe precisamente. La parola ''re'' lo faceva sentire vecchio in qualche modo. Essere principe invece era fantastico; un sacco di privilegi, poche responsabilità, al contrario della figura del re. O almeno, questo era quello che pensava Roxas.

Una fumante tazza di cioccolata calda, tre biscotti e la televisione accesa. Cartoni animati, programmi stupidi, telefilm, poco importava. Solo lui, la cucina, la tazza bollente e le briciole sparse sul tavolo.
Roxas una volta amava il Venerdì pomeriggio. Non toccava i compiti, ovviamente, e rifiutava di uscire con i suoi amici perché voleva solo godersi quei momenti di pace.
Anche il Sabato non gli dispiaceva, certo. Faceva le solite passeggiate in compagnia dei suoi coetanei, beveva qualcosa al bar, rideva e terminava di studiare.
Però il Venerdì pomeriggio aveva qualcosa in più.
Prima.
Prima, sì, sempre prima. Prima Roxas riusciva ad orientarsi nei giorni della settimana; sia perché aveva sempre dietro il foglio delle sue attività pomeridiane, sia perché pensava che presto qualcuno sarebbe venuto a prenderlo.

Quella speranza però si infranse nello stesso momento in cui si accorse che quel dannatissimo foglio non gli serviva più. Non era più nella sua tasca, bensì custodito nel primo cassetto del suo comodino da chissà quanto tempo.
Non gli serviva più perché ormai aveva imparato le proprie attività a memoria. Era diventato tutto meccanico, automatico, e quindi non faceva più caso ai giorni della settimana. O almeno, così sarebbe stato se non fosse per la presenza della Domenica e del Venerdì.
La Domenica si sentiva; era malinconica, vuota, niente da fare, nessuna attività, grigiore che si espandeva in tutti i reparti.
Mentre il Venerdì... Era semplicemente il giorno dell'incontro con i parenti.
E questo lo sapevano bene, i pazienti della clinica Werner. Così come Roxas e Olette sapevano che era meglio non infastidire troppo Hayner durante quella giornata così temuta e odiata da tutti.
Roxas giocherellò con la propria omelette quando un piatto venne praticamente lanciato accanto a sé, facendolo sussultare appena; alzò le iridi blu e notò che Hayner aveva preso bruscamente posto accanto a lui, iniziando immediatamente a mangiare.
Quella mattina non si era neanche dovuto precipitare alla porta per aprire al suo migliore amico, poiché quest'ultimo non si era presentato di fronte alla sua stanza come al solito. Così, intuendo che, molto probabilmente, quel Venerdì il suo umore era peggio del solito, aveva deciso di recarsi in mensa da solo, trovando già Olette ad aspettarlo seduta ad un tavolo.
«Buongiorno Hayner.», si sforzò di salutare la giovane dagli capelli castani, sperando di alleggerire l'atmosfera.
Obiettivo che non riuscì a raggiungere, dal momento che il diretto interessato non rispose e si limitò ad ingoiare il terzo boccone della propria omelette.
La ragazza allora abbassò gli occhi verso il proprio piatto e si morse il labbro, a disagio.
Roxas sospirò appena e lanciò una fugace occhiata ad Olette, dispiaciuto per il suo tentativo andato in fumo; dopodiché si chiese se dovesse provare anche lui ad avere una conversazione con Hayner, ma decise di lasciare perdere e si limitò a tagliare un piccolo pezzo della propria colazione prima di portarselo faticosamente alla bocca.
Masticò fino a far perdere totalmente il sapore all'omelette e mandò il boccone giù in gola, tentando di non lasciare trasparire eccessivamente il proprio disagio.
Fece la medesima cosa con il morso successivo e poi appoggiò le posate accanto al piatto, assalito dai soliti sensi di colpa.
Nulla di grave. Niente di pericoloso. Aveva conosciuto un'amica più due anni fa. Un'amica che lo aiutava a sentirsi soddisfatto di se stesso, anche se per poco tempo. Un'amica che gli permetteva di avere il controllo su qualcosa. Un'amica che lo faceva sentire meno solo. Un'amica che lo aveva salvato e annegato. Solo una cosa in cambio: non mangiare.
Non mangiare, Roxas.
La stessa amica che lo aveva trascinato in quel postaccio. Ma non era colpa sua, no, assolutamente no. Erano gli altri; erano loro i bastardi che non lo capivano, che non comprendevano che voleva solo sentirsi leggero come una farfalla.

Piccole note, così aveva iniziato. Piccoli bigliettini dalla sua amica per lui.
''Non mangiare, Roxas.''
Un biglietto dentro il suo diario di scuola, uno attaccato sull'astuccio. ''Non mangiare, Roxas, controllati.''
Niente merenda all'intervallo. Niente pranzo.
''No, non ho fame, mamma. Ho già mangiato fuori.''
E quei bigliettini avevano funzionato davvero. Ogni volta che aveva l'impulso di mangiare gli bastava leggerli per controllarsi.

Biglietti che avevano addobbato la sua vita come palline di Natale. Lui era un abete che si sentiva sempre fuori posto. Un abete tra uova di Pasqua, tra maschere di Halloween e Carnevale.
Nessuna casa in cui essere ospitato.
Roxas si guardò attorno con estrema attenzione, come faceva tutti i Venerdì mattina; i suoi occhi cercavano di leggere ogni volto, ogni paziente, alla ricerca di quella tristezza, quell'angoscia del dopo, di ciò che avrebbero dovuto affrontare durante il pomeriggio. E spesso non era difficile da trovare; c'erano molte persone come Hayner: testa bassa, volto scuro, labbra serrate. Altri ridevano e scherzavano, ma Roxas riusciva quasi a sentire l'odore della loro ansia.
Fece per tornare alla propria omelette, quando una capigliatura rosso fuoco attirò la sua attenzione; Axel entrò nella mensa con la solita espressione indecifrabile dipinta sul volto. Indossava dei jeans aderenti di colore scuro e una maglia apparentemente leggera a righe rosse e bianche. Afferrò il proprio vassoio di malavoglia e si fece mettere sul piatto da Mary l'omelette; dopodiché si riempì il bicchiere con del succo di arancia e raggiunse il gruppetto composto dai pazienti del terzo piano, intromettendosi immediatamente nella loro conversazione.
Roxas si chiese se fosse a conoscenza dell'incontro con i parenti e se la cosa lo stesse turbando. Aveva la solita faccia da stronzo egocentrico di ogni giorno, però, chissà, pensò tra sé e sé il biondo, forse anche lui era in qualche modo agitato. Anche perché tutti sapevano bene che i primi incontri con i parenti o amici erano sempre i peggiori. C'erano quei silenzi imbarazzanti, le domande che faticavano a venire fuori. Che cosa bisognava dire? Ogni parola sarebbe parsa sbagliata, errata, pesante.
''Ehi, figliolo, come va la cura? Ti stanno rincoglionendo abbastanza di medicinali?''
''Com'è stare in mezzo ai pazzi? Ti senti a tuo agio?''
E se qualsiasi domanda sembrava in qualche modo inappropriata, anche i racconti che riguardavano la vita di tutti giorni avrebbero potuto turbare i pazienti: ''Qua è tutto come al solito... Tua sorella oggi ha preso un buon voto in storia e domani tua cugina si sposerà. Al lavoro tutto bene, certo, mi pagano una miseria, ma cerco di non lamentarmi... Beh, poi... Sì, insomma, manchi molto a tua madre, a me, a tutti.''
Sì, perché anche discorsi di questo genere avrebbero fatto non male, ma malissimo. Malissimo perché quelle parole avrebbero provocato una folata di nostalgia, di sensi di colpa che avrebbero fatto sentire i pazienti più sbagliati di quel che già pensavano di essere.

E poi c'erano le frasi peggiori, i coltelli più affilati di tutti, le dita che premevano i tasti più dolorosi: ''Quando pensi di tornare?''
''Tornerai presto?''
''A casa ti stiamo aspettando; mi raccomando, non metterci molto a tornare!''
Tornare.

Chi mai aveva parlato di ''tornare''? Come potevano essere sicuri che ci avrebbero impiegato un anno e non un mese?
Nessuna certezza. Niente di niente. Solo occhi a disagio, silenzi pesanti che venivano riempiti da parole asfissianti. Casa. Tornare. Famiglia. Nostalgia. Guarigione.
«Oggi verrà». Roxas si voltò immediatamente verso il proprio migliore amico e inclinò la testa su un lato. «Me lo sento, oggi verrà.»
Olette rimase in silenzio, non sapendo in che maniera commentare: ormai aveva ripetuto quella frase chissà quante volte e puntualmente ogni Venerdì veniva deluso. Non le andava proprio di alimentare ulteriormente le illusioni di Hayner.
«Non ci spererei troppo.», farfugliò al contrario Roxas con schiettezza, continuando a tagliare l'omelette senza però digerire più alcun boccone.
«Cosa?», fece Hayner, nonostante avesse sentito perfettamente; il biondo però non disse nulla e allora il ragazzo dalle iridi marroni strinse con forza la forchetta tra le mani, riprendendo la parola. «Almeno lui viene a trovarmi qualche volta. Resterà un bastardo di merda, però almeno viene a trovarmi. Qualche volta.»
A quelle parole Olette alzò di scatto gli occhi e rivolse lo sguardo verso Hayner, sconvolta dalle sue parole così taglienti; fece per rimproverarlo, ma decise di mordersi la lingua per evitare di innervosire ulteriormente il ragazzo.
Roxas, dal canto suo, non rispose in alcun modo; si limitò a tagliare ulteriormente la propria omelette e a nascondere alcune fette all'interno di un fazzoletto, incartandolo poi lentamente. Non lasciò trasparire quanto le parole di Hayner lo avessero in realtà ferito.
Quest'ultimo nel frattempo sembrò riscuotersi in qualche modo; si massaggiò le tempie e sospirò rumorosamente, allontanando il piatto vuoto verso il centro del tavolo. «Scusa. Ho detto una cazzata, okay?»
«Fa niente.», borbottò il biondo utilizzando un tono piatto che fece intuire agli altri due che in verità stava mentendo.
«Mi dispiace.», ripeté Hayner e Roxas si limitò a fare un cenno con il capo.
Era davvero impossibile per i pazienti della clinica Werner non odiare il Venerdì.







Roxas sapeva che Hayner in parte aveva ragione e in parte no.
Suo padre era uno stronzo, uno dei soliti ricconi che abitavano in provincia, e aveva trascinato il proprio figlio in una clinica dall'altra parte del paese per evitare che i suoi conoscenti lo scoprissero.
Hayner aveva carenza di affetto e a Roxas non era servita una laurea per capirlo. La madre troppo assorbita da sbattere in faccia a tutte le sue vecchie compagne che l'avevano presa in giro da ragazza di aver sposato un uomo ricchissimo, il padre impegnato tra viaggi di affari a destra e manca, Hayner si sentiva praticamente la pecora nera della famiglia.
«Mi hanno partorito solo per non dover dividere l'eredità tra quelle vipere dei miei parenti, ne sono sicuro.», gli aveva detto una volta l'amico dopo aver consumato uno dei suoi spuntini notturni e, chissà perché, quelle parole lo avevano colpito particolarmente.
Hayner Wiedenkeller era diventato ben presto una di quelle persone con cui la tattica della famigerata ''psicologia inversa'' funzionava per davvero.
''Non farmi fare brutta figura davanti agli altri impreditori!''
E lui passava tutta la cena a far cadere accidentalmente bicchieri e utilizzare le posate sbagliate.
''Devi essere il primo della classe, sono stato chiaro?''
Era stato sospeso e aveva marinato la scuola almeno una decina di volte.
Roxas non era esattamente sicuro se Hayner avesse fatto tutto ciò per attirare l'attenzione del padre, o meglio, del suo ''vecchio'', come lo chiamava lui, o se semplicemente voleva infangare completamente la sua reputazione. O se lo avesse fatto per entrambi i motivi, chissà.
E alla fine era riuscito ad attirare la sua attenzione, almeno in parte.
Hayner diceva di non ricordare esattamente come tutto era iniziato. Probabilmente per ansia; suo padre aveva scoperto le sue scappatelle da scuola e gli aveva detto che lo avrebbe controllato molto più severamente, imponendogli anche regole particolarmente rigide.
Questo Hayner non aveva potuto sopportarlo.
Aveva atteso di restare solo in casa, si era precipitato in cucina e aveva aperto la dispensa. Cibo. Cibo ovunque. Qualcosa con cui riempirsi. L'affetto non c'era, ma il cibo sì. Quello non sarebbe mai mancato. Aveva iniziato con una merendina, quello lo ricordava bene. Se l'era praticamente divorata in due bocconi per poi passare ad altro. Pane e formaggio. Senza sentire il sapore, tutto in una volta, veloce veloce, l'allenatore della sua mente che gli gridava di sbrigarsi, un cronometro invisibile. Un piatto di pasta avanzato la sera prima. Freddo, poco importava, non c'era tempo per riscadarlo. Non c'era tempo.
L'affetto mancava, ma il cibo no.
Dopo era corso in bagno, afflitto da forti fitte allo stomaco. Lo aveva fatto istintivamente, senza pensarci. Due dita in gola e via. Via il cibo, di nuovo vuoto, carenza di affetto.
E quasi ogni giorno della sua vita era diventato un continuo via e vai tra la cucina e il bagno. Il frigo per riempirsi, il gabinetto per svuotarsi.
In compagnia non lo aveva mai fatto. Stare con i suoi amici lo aiutava, anche se solo un po'. A scuola non poteva permetterselo perché qualcuno si sarebbe certamente accorto di qualcosa. Poteva manifestarsi solo quando il principe della casa era lui. Solo allora poteva lasciarsi andare.
E si sa che la bulimia è più difficile da individuare rispetto all'anoressia. Si può essere bulimici sottopeso, sovrappeso o con un peso normale. Hayner, purtroppo, o forse fortunatamente, chissà, era sempre rientrato nell'ultima categoria.
Era riuscito a nascondere il proprio disturbo per più di sei mesi; dopodiché, durante quella che gli era parsa una giornata scolastica qualsiasi, aveva sentito delle atroci fitte allo stomaco nell'ora di matematica. Detestava la matematica, certo, ma non così tanto da avere conseguenze del genere. Se fosse stato donna, aveva rivelato Hayner all'amico mentre lo raccontava, avrebbe seriamente temuto di essere nel bel mezzo di un travaglio.
Suo padre aveva abbandonato la sua giornata lavorativa ed era andato a prenderlo, ma, siccome quei tremendi dolori non si erano fermati neanche dopo un paio di ore, aveva deciso di portarlo immediatamente a fargli una visita.
Hayner non aveva la più pallida idea che la bulimia potesse avere delle conseguenze. O meglio; Hayner non aveva la più pallida idea di essere bulimico.
Viveva le sue giornate come sentiva e basta. Marinava la scuola quando gli andava, litigava con suo padre, usciva con i suoi amici e, una volta a casa, aveva lo strano schizzo di mangiare e vomitare. Sapeva che non era esattamente normale, ma si consolava dicendo che ogni persona aveva le proprie fisse, per quanto strane potessero essere. Aveva addirittura scommesso tra sé e sé che almeno uno dei suoi amici avesse il suo stesso comportamento. Ne era più che sicuro.
Ma ovviamente la sua certezza era del tutto errata.
Il medico gli aveva spiegato che il suo esofago presentava delle ulcerazioni.
«Com'è la tua alimentazione?». Gli aveva domandato l'uomo in camicia bianca, annotando i risultati sulla propria cartella.
«Normale.», aveva risposto Hayner, sforzandosi in ogni maniera di mostrarsi tranquillo.
«Mangia molte schifezze», si era improvvisamente intromesso il padre. «Ho notato che nel frigo manca sempre qualcosa.»
A quella rivelazione Hayner era sussultato appena e si era morso un poco il labbro. «E' normale alla mia età mangiare porcate. Lo fanno tutti i miei amici.»
«E per questo lo devi fare anche tu?»
«Il mangiare o meno cibi particolarmente calorici non c'entra», li aveva interrotti il medico, infilandosi la penna nella tasca sinistra della propria camicia. «E' strano che si sia sviluppato alla sua età. In ogni caso, queste ulcerazioni sembrano essere state provocate dagli acidi gastrici dello stomaco stesso.»
E Hayner si era sentito in un vicolo cieco.
Suo padre non sarebbe stato in grado di controllarlo in maniera adeguata e questo lo sapeva fin troppo bene. Lo stesso valeva per sua madre. Presero in considerazione l'idea di fare delle semplici sedute con uno psicologo, ma Hayner sembrava essersi già spinto troppo in là.
Dopo una settimana di parole straripanti di disagio e pasti consumati in silenzio, suo padre aveva deciso di mandarlo in una clinica nella speranza di curarlo del tutto.
«E' per il tuo bene.», aveva concluso il discorso l'uomo dopo aver spiegato i suoi piani al figlio che, successivamente, reagì in maniera particolarmente violenta.
Il suo vecchio sapeva che l'avrebbe presa male, ma non immaginava così tanto.
Hayner aveva passato il resto della serata a strillare e buttare a terra tutto ciò che custodiva nella propria stanza. Non si era dato pace nemmeno di notte, durante la quale non aveva fatto altro che andare in cucina e in bagno. E così aveva continuato anche durante i giorni successivi, arrivando addirittura a minacciare suo padre con frasi tipo: «Giuro sulla mia cazzo di vita che se mi mandi in una clinica lo andrò a dire a tutti. Ai miei compagni, ai prof e a tutti i tuoi amici ricconi. Dirò loro che sono pazzo e che mi manderai in un posto pieno di malati.»
Suo padre, nonostante in un primo momento avesse avuto quasi l'impulso di cambiare idea per salvare la propria reputazione, non aveva fatto una piega e, anzi, rigirò le parole a proprio vantaggio: «Fai pure, Hayner. La mia dignità ne risentirà, certo, ma tu? Davvero vuoi far sapere a tutti che soffri di bulimia?»
E quelle parole bastarono a riempire di ira il ragazzo che, dopo aver sgranato un poco gli occhi, era salito in camera propria sbattendo la porta con una violenza inaudita.
Addirittura il suo vecchio aveva preso in considerazione l'ipotesi di fargli prendere dei tranquillanti, ma ben presto scacciò l'idea, poiché, la mattina successiva, consumando la sua solita tazza di caffè, Hayner gli si era avvicinato con un'espressione indecifrabile dipinta sul volto.«Allora? Quando me ne potrò andare da questa casa di merda? Preferisco essere chiuso tra i pazzi che stare in mezzo a stronzi come voi.»
Roxas non era esattamente sicuro del fatto che il padre di Hayner lo detestasse per davvero. Difficilmente i genitori arrivavano ad odiare i propri figli. Semplicemente non era stato un buon padre. Forse però se avesse avuto una madre presente Hayner avrebbe ricevuto l'affetto tanto desiderato e si sarebbe salvato.
Ma così non era stato e si era perso in una ricerca infinita; la ricerca verso qualcosa con cui riempirsi per davvero.
E nonostante il suo vecchio non gli avesse regalato dei momenti particolarmente piacevoli, nonostante considerasse la propria reputazione più importante di lui, nonostante fosse stata la causa principale del suo disturbo, Roxas sapeva che nemmeno Hayner odiava suo padre.
E proprio per questo nel suo intimo sperava sempre di vedere la sua macchina blu perfettamente lucida varcare la soglia della clinica e parcheggiare nel cortile insieme a tutte le altre automobili. Sperava sempre di vederlo scendere in giacca e cravatta con la sua valigetta nera. Sperava di incrociare i suoi occhi marroni e di contare quanti capelli bianchi si fossero aggiunti. E poteva essere pure irritato, poco gli sarebbe importato. Poteva anche guardare il suo orologio d'argento una ventina di volte perché non voleva passare troppo tempo in quel postaccio, gli sarebbe andato bene lo stesso.
Hayner avrebbe voluto solo vederlo un po' più spesso. Non ogni Venerdì, certo. Una volta ogni due o tre settimane gli sarebbero bastato. In fondo suo padre era il suo unico mezzo che lo collegava alla vita reale, quella che aveva interrotto a causa della sua malattia.
Niente abbracci, una semplice stretta di mano sarebbe stata perfetta. Voleva solo parlargli per qualche minuto, essere riconosciuto ancora come suo figlio.
Riempire quel vuoto.
Era in quella clinica da circa diciotto mesi e aveva visto il suo vecchio al massimo una decina di volte.
Per Olette la situazione era del tutto differente; sua madre era morta a causa di un tumore al seno e lei aveva iniziato a fare uso eccessivo di psicofarmaci e tranquillanti. Roxas non conosceva nel dettaglio la sua storia, poiché a lei non piaceva parlarle. L'unica cosa che aveva compreso era che il resto della sua famiglia la supportava in ogni maniera possibile. Ogni settimana la veniva a trovare qualcuno; il padre, gli zii, i cugini, addirittura un paio di volte erano passati i nonni a salutarla, nonostante avessero pensato che la nipote fosse appena uscita da scuola.
Una volta le avevano spedito un regalo e Olette quel giorno non era riuscita a trattenere il sorriso fino alla mattina successiva.
Aveva certamente subito un duro colpo, ma Roxas pensava che se la sarebbe cavata. A parte gli psicologi, i medici e qualche pillola di tanto in tanto, erano i suoi familiari che le davano tutta la forza necessaria e quella sarebbe stata certamente la sua salvezza.
Sarebbe stata una paziente di passaggio. Se ne sarebbe andata, presto o tardi. Sarebbe tornata a scuola e avrebbe recuperato il periodo perso. Avrebbe passato qualche sera a piangere sulle foto di sua madre, ma la mattina dopo avrebbe affrontato la giornata sorridendo.
Roxas sapeva che Olette era diversa da lui e Hayner. Lei aveva qualcosa ad attenderla, là fuori.
Loro no.
Durante il primo mese Roxas aveva ricevuto una visita ogni Venerdì. Precisamente da suo cugino. Sì, suo cugino, la stessa persona che lo aveva trascinato in quella gabbia di matti.
Non lo aveva sopportato. Era stato troppo per lui rivederlo. Non appena Roxas si era ritrovato faccia a faccia con Vanitas, con i suoi capelli corvini e con i suoi occhi così maledettamente gialli, non era riuscito a trattenersi. Aveva alzato il braccio e gli aveva tirato un pugno.
O meglio, lo avrebbe fatto se non fosse stato fermato in tempo dalla sua mano che gli aveva afferrato prontamente il polso sinistro.
E allora aveva iniziato a vomitare fuori tutte le cattiveria possibili, tutto ciò che sentiva, tutto l'odio che provava per lui, per lui che lo aveva chiuso in quel posto da incubo. Da incubo perché le prime settimane erano state veramente devastanti per Roxas.
Aveva strillato ogni insulto possibile con tutto il fiato che aveva in gola; poco gli era importato se gli altri genitori lo stavano fissando e se i pazienti presenti sghignazzavano. Non gli era importato niente di niente.
E quando era riuscito a liberarsi dalla sua presa si era scagliato nuovamente contro di lui, urlando nuovamente un ''TI ODIO!''
Avrebbe voluto tirargli un pugno, uno soltanto, per sfogarsi, per sentirsi meglio, una volta tanto. Per liberarsi di quell'aria gelida che teneva sempre nascosta. E forse Vanitas aveva lasciato la presa sul suo polso per permetterglielo, per aiutarlo a sfogarsi.
Ma le infermiere non glielo consentirono, poiché, dopo aver assistito alla scena dalle finestre dell'edificio, si erano precipitate in cortile per afferrarlo per i fianchi e trascinarlo via dopo essersi umilmente scusate con Vanitas, il quale era rimasto praticamente impassibile.
Successivamente gli avevano iniettato del sedativo al braccio e Roxas si era svegliato nel proprio letto due ore più tardi.
Dopo quello spiacevole episodio aveva capito che gridare non sarebbe servito a niente. Anche perché non c'era nulla di più umiliante che essere sedati, secondo Roxas. Gli dava davvero l'idea di essere pazzo. Di solito le infermiere sedavano gli schizofrenici o comunque coloro che presentavano problemi comportamentali. Lui non aveva nulla di tutto ciò, semplicemente si era lasciato travolgere dall'ira e quell'iniezione gli era bastata per darsi una calmata.
Durante le visite successive non aveva più urlato, bensì era rimasto in silenzio e quando Vanitas aveva tentato di aprire una conversazione, lui lo aveva ignorato o, nella gran parte dei casi, gli aveva lanciato un'occhiata truce prima di dirgli cose come ''Ti odio'', ''Sei uno stronzo'', ''Mi disgusti.''
E durante l'ultimo Venerdì del primo mese fu Vanitas a non poterne più.
«Forse la prossima settimana tua madre verrà a trovarti.», aveva iniziato il ventenne prendendo posto su uno dei tavolini di legno che venivano posizionati proprio per l'incontro. «Ha aspettato un po' perché non voleva che te la prendessi anche con lei.»
Roxas non aveva risposto e aveva mantenuto lo sguardo concentrato verso l'ambiente circostante con la testa appoggiata sulla mano destra, come se stesse ascoltando una monotona lezione di matematica.
«E magari la settimana dopo ancora verrà tuo padre. Se fosse per lui verrebbe già il prossimo Venerdì, ma ha degli impegni di lavoro o una cosa del genere.»
Nessuna risposta.
«Hai capito o no?»
«Non mi interessa.»
Vanitas allora aveva stretto il pugno sinistro sul tavolo, irritato dall'atteggiamento così strafottente del ragazzo. «Fai pure lo stronzo con me, ma quando verranno i tuoi cerca di essere più gentile. Non sei l'unica vittima qui, Roxas.»
Quelle parole avevano colpito particolarmente il biondo, poiché aveva degnato finalmente di uno sguardo il cugino. Uno sguardo carico di rabbia. «Ah, sì? E allora perché sono io quello chiuso qui dentro? Perché se state soffrendo tutti non venite anche voi in 'sta merda?!»
«Lo sai perché sei qui.»
«No, non lo so.»
«Davvero?», aveva domandato improvvisamente il corvino, sbattendo lentamente le palpebre. «Perché se è così credo che resterai qui dentro ancora per molto tempo.»
Un pugno in faccia. In faccia, allo stomaco, ovunque. Roxas aveva pensato che se le parole potessero davvero distruggere fisicamente le persone, molto probabilmente quel Venerdì pomeriggio le infermiere avrebbero passato almeno due ore a raccogliere i resti delle sue ossa.
Aveva avuto l'impulso di alzarsi e di gridare ancora, proprio come aveva fatto le prime volte, ma poi si era ricordato del sedativo e aveva lasciato perdere. Aveva deciso di essere soltanto schietto, apatico e fermo.
Poche parole.
«Fai sapere a mamma e papà che non devono disturbarsi a venire. E lo stesso vale per te. Non ho bisogno di queste visite del cazzo. Mi fanno andare fuori di testa.»
Poche parole che però avevano fatto la differenza.
Gli occhi di Vanitas erano esplosi di ira per un attimo e il suo volto si era trasformato in una maschera adirata; il tutto però era durato pochi attimi, poiché subito dopo aveva sostituito la rabbia con l'indifferenza totale.
Aveva afferrato il proprio cellulare e se l'era infilato in tasca; dopodiché si era alzato e aveva guardato il giovane per qualche secondo. «Va bene Roxas, ho capito. Se non ci vuoi in mezzo ai coglioni, vedremo di sparire. Buona guarigione». Successivamente si era voltato e aveva abbandonato il cortile in sella alla propria moto nera.
Anzi.
Dopo aver parlato, era rimasto fermo per una manciata di secondi. Immobile. Ad aspettare. Ad aspettare una parola da Roxas, una qualsiasi. Non voleva delle scuse. Voleva solo che gli rispondesse. Una semplice risposta, anche se dura, gli sarebbe bastata a cambiare idea.
Ma no.
Roxas non lo aveva neanche guardato. La testa appoggiata sulla mano, gli occhi rivolti verso un albero non molto distante. E Vanitas allora aveva deciso di andarsene.
Roxas aveva voltato lo sguardo verso i cancelli soltanto quando la moto aveva girato l'angolo, svanendo via, lontano. Nella vita reale, nel mondo dei normali.
In un primo momento aveva pensato che le sue fossero state solo parole al vento, ma così non era.
Il Venerdì successivo non aveva trovato nessuno ad aspettarlo e questo lo rincuorò in qualche odo. Era successo la medesima cosa il Venerdì dopo, e quello dopo ancora.
Poi però il sollievo aveva lasciato posto alla morsa dell'angoscia, alla consapevolezza di non avere più nessuno.
«Almeno lui viene a trovarmi qualche volta.»
Sapeva che Hayner in parte aveva ragione e in parte no.
Suo padre era venuto a trovarlo una decina di volte al massimo, ma almeno sarebbe tornato. Magari quel Venerdì stesso, magari tra un mese, però prima o poi sarebbe venuto.
Roxas invece non aveva più nemmeno quella certezza. E aveva avuto ragione, poco prima, in mensa. Soltanto in parte perché in realtà i suoi familiari non avevano smesso di visitarlo per volontà propria.
Avevano solo eseguito il suo desiderio, giusto?
Ma era davvero quello che voleva? No, non più ormai.
Però gli sarebbe bastata una telefonata. Ad ognuno veniva concessa una telefonata alla settimana, se il paziente lo desiderava. La sala al piano terra, vicino alla mensa. Quattro telefoni rossi che spiccavano in mezzo al grigiore. Gli sarebbe bastato premere quei tasti, leggendo però il foglio che gli avrebbero consegnato le infermiere; il foglio su cui avrebbero trascritto il suo numero di casa preso dalla sua cartella clinica. Gli sarebbe certamente servito, poiché non se lo ricordava più a memoria.
Ma Roxas non lo aveva mai fatto e sapeva che non avrebbe raggiunto quella sala per orgoglio. Mai avrebbe avuto la forza di udire quel ''Pronto?'' mormorato da suo padre o da sua madre. Mai avrebbe avuto il coraggio di scoppiare a piangere e di dire: «Vi prego, venite qui, venitemi a prendere, anche se per poco.»
Mai.
Roxas aveva letto un sacco di frasi riguardo al fatto che era quasi impossibile perdere la speranza; le persone continuano ad aspettare il ritorno del loro grande amore anche dopo un doloroso addio. Continuano ad attendere un treno che è già partito senza di loro. L'avrebbero fatto per forza, perché gli esseri umani sono così, bastardi masochisti che non sanno mettere la parola fine alle proprie speranze, nemmeno quando esse si trasformano in illusioni.
Ma Roxas sapeva che erano tutte stronzate, quelle. Sapeva che la speranza si poteva perdere. Lo sapeva perché lui l'aveva persa da tempo. Aveva smesso di recarsi in cortile durante il Venerdì pomeriggio, e se lo faceva era soltanto per tenere compagnia ad Hayner o per fare una passeggiata.
Aveva perso la speranza in Vanitas e nei suoi genitori perché non sarebbero più tornati.
Aveva perso la speranza in se stesso perché sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di sollevare quella cornetta rossa.





Skip dinner, wake up thinner*: ''Salta la cena, ti sveglierai più magro.''

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*Note di Ev' Rox*
Mi auguro vivamente che questo capitolo possa essere abbastanza per rimediare al mio solito ritardo di merda.
Io, personalmente, ne sono assai soddisfatta. Anche perché mentre lo scrivevo mi sono venute una miriade di idee; ormai credo di avere il quadro completo della storia, soprattutto per quanto riguarda il finale. L'unico pezzo mancante del puzzle è il passato di Axel che, uhm, mi lascia un po' perplessa, ma credo che per quello si vedrà più avanti.

Come ho scritto nel mio profilo, purtroppo ho speso il mese di Luglio a cazzeggiare leggere e recensire storie in inglese su fanfiction.net, poiché il fandom in questione è praticamente inesistente in Italia, blbl.
E' stato un ottimo allenamento per il mio inglese, quindi non è stato tempo perso, però, ahimè, non mi ha permesso di scrivere praticamente nulla. Cioè, mi veniva lo schizzo di scrivere qualcosa, come sempre, ma era un continuo tira e molla. Poi ho deciso di continuare qualche mia long, ma, sinceramente, non ne avevo granché voglia, finché una settimana fa mi è venuto un attacco di angoscia particolarmente acuto e mi sono detta che potevo sfruttare l'occasione (?) per continuare ''Insidie Interiori''.
Che poi, cazzo, mi piace veramente tanto scrivere questa storia, dico davvero. Non solo perché è molto facile per me vomitare fuori sensazioni del genere, ma... Buh, sono soddisfatta di come svilupperò la storia. Mi viene una voglia matta di fare degli Spoiler mostruosi, ma devo trattenermi, porco Pinguino del Perù.
Vi dico solo che... soijwefnzichjvuhie No, sto zitta ebbasta.

Forse l'unica cosa che non mi convince molto è il primo capitolo, o comunque i primi due a grandi linee. Più che altro per il problema che con il tempo mi pare sempre di cambiare modo di scrivere, di evolverlo, perché comunque sono in fase di crescita, e rileggere i miei scritti già leggermente più vecchi mi infastidisce. Credo che qualcosina lo modificherò, forse toglierò l'ambientazione in Norvegia. Cioè, la storia è ambientata in qualche luogo freddo, comunque nel Nord, si avverte anche dai cognomi, ma è meglio non specificare, principalmente perché il clima del Nord d'Europa è un casino e non sono abbastanza informata. Anyway, quando farò queste piccole modifiche avvertirò di sicuro.
Ho anche cambiato l'introduzione della storia, dal momento che era troppo vaga. Volevo che l'ambientazione della clinica fosse una sorta di ''effetto sorpresa'', ma poi ho compreso che è una cosa stupida. E' vero che nella prima parte del primo capitolo non si capisce ed è simpatico (?) lo shock che si ha quando viene citata la clinica Werner, ma è un dettaglio fondamentale della storia che deve assolutamente rientrare nell'introduzione.
Okay, dopo questo ammasso di pensieri che desideravo condividere con voi, possiamo passare all'analisi.





Come ho già detto, questo capitolo l'ho vomitato di getto, in pochi giorni, perché è una storia che mi viene facile da scrivere. E devo dire che non ho faticato molto nemmeno a correggerlo -Forse perché in realtà mi sono sfuggiti un miliardo di errori-, né ho sclerato più di tanto con l'HTML.
Well, well, well... La volta scorsa avevamo lasciato in sospeso un Roxas infuriato con un certo uomo dai capelli rossi che ha gentilmente fottuto le sue sigarette. Il biondo decide quindi di ''vendicarsi'', lanciandogli a terra quel maledetto stereo, ottenendo così la sua rabbia, la quale, però, fortunatamente, non gli fa fare nulla di estremo. Anche perché se no Roxas sarebbe morto e la storia si sarebbe conclusa qui.
I due, per quanto continuino ad essere come cane e gatto, sembrano comunque iniziare a tirare fuori un minimo di... Civiltà umanità? Cioè, riescono a scambiarsi due parole che siano diverse da: ''Ti spacco la faccia, stronzo.''
Anche se ciò avviene soltanto alla fine della prima parte del capitolo e nella terza parte, quella nella quale Roxas ha un incubo. Infatti, nonostante quest'ultimo abbia svegliato con un grido Axel, il rosso non lo riempie di botte. Odore di miglioramento?
Quando il corso della narrazione viene interrotta da riflessioni sulla vita di Roxas viene utilizzato spesso il termine ''prima'', giusto per paragonare la sua attuale esistenza con la sua vita precedente. Talora si parla anche di un ''prima'' di tutto, del suo disturbo, ma non viene citato nulla nel dettaglio. -Ah-ah-ah: io lo so e voi no!-
La seconda parte mi è piaciuta molto da scrivere, quella riguardante la chiacchierata notturna tra Hayner (Personaggio che, devo ammettere, adoro assai in questa storia. E ho notato di non essere l'unica c': ) e Roxas.

Hayner rivela di considerare la clinica quasi come una ''casa'', il che, in un primo momento, sconvolge non poco Roxas; successivamente però, dopo aver riflettuto sul suo discorso, si accorge che non ha tutti i torti, poiché tornare nella vita quotidiana non sarebbe affatto facile. Però il biondo, al contrario dell'amico, non riesce neanche a considerare come casa la clinica, dal momento che, insomma, la detesta a morte. Il risultato è che lui non sa quale sia davvero casa sua, il che lo porta ad un senso di smarrimento totale.
In questo capitolo si scopre che il Venerdì è il giorno dedicato all'incontro con i parenti e proprio per questo è temuto da quasi tutti i pazienti. In particolare Hayner detesta particolarmente questo giorno e ciò viene dimostrato non solo dal suo silenzio iniziale, ma soprattutto dalle parole che, inavvertitamente, dedica al proprio migliore amico.
Passiamo poi all'ultima parte, che è forse quella più importante, poiché si viene a conoscenza di tutto il passato di Hayner. Genitori poco presenti, affetto che viene sostituito con il cibo e comportamenti che infrangono tutte le regole.
Si passa poi ad una breve descrizione di Olette, la quale è stata infilata soprattutto per evidenziare il contrasto tra la sua situazione e quella di Roxas e Hayner. In particolare Olette ha attraversato qualcosa che, in un certo senso, si può considerare ''peggiore'' rispetto al passato di Hayner; nonostante ciò, la prima sembra avere una luce grazie alla propria famiglia, il secondo invece è inchiodato in quel posto da un anno e mezzo.
Nell'ultima parte invece si scopre chi è stato colui che ha costretto Roxas a recarsi nella clinica (Non chiedetemi perché proprio Vanitas; ancora prima di trascrivere questa storia  sapevo che doveva essere lui e basta). Ma soprattutto si comprende come le sue speranze siano del tutto infrante, anche se ad infrangerle, in un certo senso, è stato lui stesso, poiché non si è fatto aiutare.
E nulla... Bom, fine dell'analisi.





Mi scuso solo se il capitolo è particolarmente lungo; vi è assicuro che non è così soltanto perché siccome pubblico una volta ogni morte di Papa, almeno mi rifaccio (?) con la lunghezza, nono. E' che questa storia necessita di ancora tanti, tanti avvenimenti, e se facessi i capitoli corti come i primi non ne usciremmo più. E poi buh, io quando scrivo non decido quando terminare un capitolo; è una cosa che mi viene istintiva, so che quella è l'ultima frase e basta.
Per il resto, beh, spero che stiate passando delle piacevoli vacanze. Io dal canto mio non mi lamento, anche se ho fatto tipo un quarto di compiti e la cosa mi turba. -Si guarda attorno- Credo che domani dovrei iniziare seriamente, altrimenti andrà a finire che a Settembre non ricorderò nemmeno quale scuola sto frequentando.
Il pensiero di ritornare lì dentro mi deprime assai c.c Ciò che mi consola è l'inverno, i miei compagni, Halloween, Natale e robe del genere, blbl.
Uhm... Fortunatamente la fissa che ho avuto per le storie inglesi ha decisamente allentato la sua presa, quindi credo di poter scrivere con più regolarità. Spero.
E nulla... Se avete letto questo capitolo, MI RACCOMANDO, recensite, poiché per me è estremamente importante conoscere la vostra opinione sui miei scritti.

Con questo, passo e chiudo.
See ya'!  Alla prossima!
E. P. R.



Ps. People, io spero vivamente che questa storia non vi stia incitando a non mangiare, eh! I problemi alimentari sono una cosa seria, ve lo posso assicurare, ho avuto diverse esperienze, non fatevi venire strane idee leggendo i pensieri di Roxas. O Hayner, perché neanche vomitare è divertente. Cioè, se proprio volete vomitare fatelo a causa delle montagne russe di un Luna Park (?).
Se invece vi viene voglia di prendere a pugni la gente come fa Axel potete sempre darvi al Wrestling. Almeno ci guadagnerete anche.

Io, dal canto mio, adesso andrò a mangiarmi un soufflè al cioccolato.
Ingozzatevi perché la vita è solo una!

 

   
 
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