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Autore: Hagne    18/08/2013    1 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
"I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare, creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli"
[ Seguito di " A Demon's Fate"]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything '
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Capitolo 5
“You don't want to hurt me,
But see how deep the bullet lies.
Unaware I'm tearing you asunder.
Oh, there is thunder in our hearts”

[…]

“And if I only could,
I'd make a deal with God,
And I'd get him to swap our places,
Be running up that road,
Be running up that hill,
With no problems”


(Within  Temptation – Running Up that Hill)







Fine.
Quattro lettere. Due vocali. Due consonanti. Un’unica presa di fiato per concedere sfumature d’orrore ad ogni cosa.
La fine di una civiltà, di un mondo, di un’età storica, e di una vita.
La loro,  vita.
Quella che tutti videro passare davanti ai loro occhi e mischiarsi nel cielo cupo dai riverberi scarlatti che il monitor rimandava ad intervalli regolari mentre il sistema tentava di ricercare la fine di quell’immagine.
Ma non ce ne era.
Non quel tipo, di fine, ed era proprio l’impossibilità di confinare quell’orrore, di quantificare il proprio terrore in comparazione al danno che si sarebbe andato a subire, a rendere le loro espressioni tanto affrante, e stanche.
-  Credo che basti così per oggi.
Il ‘click della tastiera cancellò l’immagine dallo schermo, ma non dalle loro menti, perché si sarebbe ripresentata ogni qual volta avessero guardato un amico, un parente, una moglie, un figlio, o un marito pensando che forse, il giorno dopo, sarebbe potuto essere l’ultimo.
Ed essere privati persino del tempo, di ciò che era già una condanna per il genere umano, rendeva la visione di insieme ancora più agghiacciante.
Astrid però, a dispetto di chi aveva già predisposto un controllo all’alieno sedato e disteso sul lettino, continuava a fissare lo schermo in silenzio, ferma in mezzo alla stanza e al via vai di militari che riportavano la presenza di nuovi giornalisti sotto la Stark Tower.
Uomini e donne che chiedevano risposte sul perché della sua venuta, sul perché di quel nuovo attacco, sul come, quella volta, avrebbero potuto farcela, perché c’era consapevolezza, nell’aria.
Consapevolezza di non poter nulla, contro tutto quello, neanche con tutti quegli eroi, neanche con la ferma volontà di proteggere il mondo che stavano distruggendo ma che, in fondo, l’umanità amava.
Un mondo che quella creatura, Galactus si corresse, sembrava voler divorare.
Non distruggere, non radere al suolo, ma mangiare.
Perché l’essere dei ricordi di Silver Surfer non era un mostro comune, ma un universo, come lei, una fonte di energia distruttiva che per vivere doveva annientare.
Ma anche se ora  conoscevano il nome di quella cosa, ciò non li rendevano più sicuri di cosa stessero per affrontare, perché non lo sapevano, in realtà.
Potevano ipotizzare, persino provare a immaginare l’entità del danno, ma non potevano conoscerlo, e ciò li lasciava atterriti e disorientati su come organizzarsi per difendersi.
Perché, come ci si poteva difendere da qualcosa che si cibava di interi pianeti?
Nulla, se non mandargli contro un suo pari.
Lei.
Una responsabilità della quale Astrid si caricò nel vedere attraverso lo schermo la smorfia stanca di Nick Fury.
- Quando?
- Hanno indetto una conferenza stampa tra cinque minuti.
- Cinque minuti? – ringhiò il capo dello S.H.I.E.L.D., la mano corsa al viso sciupato per lisciare le rughe d’espressione che gli accartocciavanogli zigomi – e cosa dovrei dire in diretta mondiale?  Che andrà tutto bene? Che non c’è da preoccuparsi?
James Rhodes incassò le stoccate del superiore a capo chino, in silenzio, senza mostrare la propria angoscia per ciò che li attendeva e che non potevano controllare, così come non avrebbero potuto contenere la reazione della popolazione mondiale alla notizia che quella volta non poteva essere tenuta segreta.
- Il presidente?
- È partito due ore fa per Berlino assieme ai capi delle altre nazioni per parlare del da farsi.
- E ha lasciato il lavoro sporco a me, come sempre d’altronde, in fondo è me che linceranno.
- È per il lavoro sporco che veniamo pagati così tanto amico mio – si lasciò sfuggire Tony Stark nello sfogliare distrattamente i risultati delle onde cerebrali dell’alieno prima di coprirsi  la bocca con una smorfia attonita – o no, io non vengo pagato affatto.
Fury si lasciò sfuggire un rantolo di insofferenza nell’udirlo, ma c’era un po’ di sollievo ora, sul suo volto, un sollievo che James imitò prima di spostare lo sguardo  un po’ più a destra, e più giù, per inquadrare la nuova venuta.
Ritta e composta, il Terreract li fissava in silenzio, le mani intrecciate in grembo e nessun sorriso a rendere la profondità dei suoi occhi un po’ meno agghiacciante, ma ora, era quella stessa profondità, quell’abisso di luce a schiarire il cielo scarlatto impresso a fuoco nelle loro retine.
- Si?
- Io credo che dobbiate dire la verità.
L’irreprensibilità del suo tono la rese un po’ meno dolce, un po’ meno pacata, un po’ meno umana, perché non c’era paura, in quello sguardo, neanche se avessero provato a rovistare un po’ più a fondo, non in lei, non in chi sapeva che a quella stessa infinità avrebbe potuto contrapporre la propria, non chi aveva promesso di proteggere.
Quel mondo, la sua famiglia, e una civiltà sempre sul baratro dell’estinzione.
- La verità ? – si trovò a sbottare Nick Fury senza realmente voler scaricare su di lei il proprio malumore, e ancor prima che fosse la sua coscienza a farlo rinsavire, ci fu uno sguardo, calmo e agghiacciante dal fondo della sala, l’occhio vigile di un dio che nella mente gli rimandò l’immagine di lui stramazzato a terra, senza più  testa.
Un' illusione dalla quale l’uomo si riprese, scuotendo il capo e tornando a guardare lei.
- E quale sarebbe la verità, mia cara?
Astrid indurì le spalle e lo sguardo, ponendo fine all’immagine ingenua e debole di se stessa che gli umani avevano sempre conosciuto, una parte di lei, ma non la sola, non l’unica.
Perché era diventata donna, era diventata moglie, e soprattutto, era diventata una sovrana responsabile della sua gente, di tutta la sua gente.
Giganti di Ghiaccio e umani, gemme di una corona che non aveva mai smesso di pesarle sul capo, ma della quale andava fiera, perché consapevole di aver trovato qualcos’altro da proteggere, oltre al suo amore, e che fossero creature dall’aspetto raccapricciante o esseri esteticamente più apprezzabili, non importava, non era mai importato.
Non il loro aspetto, non le loro origini, non il loro sangue, perché avevano un cuore, uguale, identico al suo, un cuore che avrebbe tremato dall’orrore, urlato per il dolore, ma un cuore che lei avrebbe protetto assieme a chi, prima di lei, non aveva mai smesso di difenderli.
- Che andremo in guerra – e al sentire quella parola chiunque in linea d’aria si trovò a torcere il collo con apprensione, fissando la creatura fluorescente che ora pareva molto più alta, molto più minacciosa di quanto fosse mai stata.
Perchè non era la “guerra” umana alla quale lei si riferiva, ma uno scontro che avrebbe davvero deciso il destino di un’intera razza, della loro, razza, e Nick Fury non potè che stringere le mani in pugni prima di sentire il tocco leggero di quel palmo su di sè.
Un palmo piccolo, dal colore inusuale, ma forte, forse più di lui, più di tutti loro, una forza che però quella creatura sapeva rendere gentile, e calda, come un abbraccio nel quale si sa di essere al sicuro, ed era un abbraccio quello che Astrid voleva concedere all’umanità.
Braccia materne in cui lasciare ogni timore e ritrovare la speranza di non essere soli.
- E che non sarete soli – continuò pacata, alzando il viso dalla mano che stringeva premurosa – perché non ci sarò solo io a proteggervi.
- Cosa-
- Signore, la situazione si sta surriscaldando qui sotto – si levò dal corridoio la voce apprensiva di un militare, una richiesta di aiuto che il capitano dello S.H.I.E.L.D. si impose di accettare, fissando brevemente il Tesseract con serietà prima di stringerle un po’ la mano, come una sorta di ringraziamento, ed ordinare ai suoi uomini di avvisarli del suo arrivo immediato.
- Signor Rhodes?
Il militare si fermò sulla soglia della porta nell’udire il richiamo alle sua spalle, e quando incrociò lo sguardo del Tesseract, Astrid si corresse con un sorriso al pensiero di quanto isterico sarebbe diventato l’amico di vecchia data nel sentirla chiamare sua figlia a quel modo, e non potè che sentirsi come tanti anni fa, quando il cielo aveva vomitato le stesse nuvole, le stesse stelle, lasciando la pace e la tranquillità di un mondo salvato dalla fine.
Una fine che lei aveva evitato, e una fine che, nel guardarla, sembrava un po’ meno vicina, un po’ meno agghiacciante.
Perché una fine, lei, era sempre riuscita a darla a chiunque.
A loro la fine di una guerra.
A Loki la fine di un’eterna afflizione.
A tutti, in quel momento, la fine della paura.
- Vorrei mi facesse un favore.




°°°





Maria Hill era avvezza ai cambiamenti.
Ne era stata spettatrice, critica, e a volte anche vittima, ma mai si era lamentata di tutto ciò.
Perché cambiare non era sempre un passaggio doloroso della vita umana, a volte, come era successo a lei, poteva essere essenziale, e infinitamente appagante veder mutare un aspetto della propria vita, e il suo, di cambiamento, aveva spalle larghe, occhi neri, e un colorito che molti avrebbero attribuito ad un malore improvviso.
Ma Hulk era semplicemente verde, una pigmentazione che ora, col sole accecante di Rio de Janeiro a sbattergli addosso, diveniva ancora più appariscente.
Eppure, era un colore al quale pian piano si era abituata, e che aveva imparato persino ad amare, come l’uomo che dimorava dentro quella creatura sproporzionata.
Bruce Barner  le era parso fin dall'inizio  un uomo gentile, cordiale, ma difficile, estremamente difficile.
Difficile da approcciare, difficile da affrontare, davvero, difficile, una difficoltà che però ora Maria era felice di aver sbrogliato assieme alla matassa di ricordi dolorosi che le avevano stretto il cuore e la gola per le lacrime.
Innamorarsi era difficile, riuscire a farsi amare lo era ancora di più, ma farsi amare da Bruce Barner era quanto meno un pensiero irreale, ma lei c’era riuscita alla fine, a vincere i suoi timori e buttare giù le sue difese.
Difese che avevano già cominciato a cigolare fin dall’arrivo della donna che ora, circondata da uno stuolo di militari, camminava tranquilla per il centro della città con accanto il proprio compagno.
Una creatura dalla quale lei per prima aveva imparato il  vero valore della vita, non semplicemente  umana o alinea, ma della vita in genere, una lezione  che Astrid aveva impartito a tutti loro, a chi era nato libero e di quella vita e libertà doveva ringraziare e farne tesoro.
Perché lei non lo era mai stata, veramente libera.
Non era stata voluta, non aspettata, non prevista, ma quando era arrivata , quando avevano visto il lampo di luce che aveva informato il mondo della sua venuta, tutto era cambiato, e per quel cambiamento, tutti avrebbero dovuto ringraziare.
- Non credevo arrivasse tutta questa gente – le sussurrò di fianco un soldato, impressionato dalla strada gremita di persone, gente delle favelas a giudicare dagli abiti dimessi e dai fisici emaciati, ma una moltitudine che affollava e tendeva le mani verso Astrid al pari di un messia.
Ma era solo una donna, quella che camminava per la strada, una donna che un’anziana dalla schiena ricurva accompagnava in silenzio, lasciandosi guidare dalla mano che Astrid le stringeva per aiutarla a tenere il suo passo mentre attorno a loro, la voce tonante di Nick Fury si elevava dalle radio e dai televisori di qualche bar.
E mentre lo sentivano parlare di guerra, di pericolo, il mondo tremava ma Rio de Janiero sorrideva, sicuro del domani, attratto dalla figura sottile che puntava senza remore la statua imponente del Cristo Redentore.
La camminata fu stancante per tutti quei corpi umani che si accalcavano per vedere e seguirla in silenzio su per la salita, ma quando finalmente arrivano ai piedi della statua Astrid alzò il viso al cielo per ammirare il viso gentile del monumento e le sue braccia aperte in un abbraccio imponente.
- Ed ora?
Estela strinse la mano della sua scoperta quando la vide voltarsi a guardarla con quel sorriso, lo stesso con il quale le aveva chiesto di dare il bastone a Loki, una volta che la battaglia fosse finita, lo stesso con il quale l’aveva vista librarsi e scomparire nel cielo assieme al suo cuore.
E fu il ricordo di quella perdita, seppur momentanea, a convincere l’umana a rafforzare la presa e reggersi un po’ meglio sul proprio bastone per avere più aderenza al terreno, come se si aspettasse di essere strappata via da terra.
- Come lo  chiamate voi  ?
- Come  chiamiamo chi,  tesoro? – la richiamò Pepper da poco dietro.
- Lui – e Astrid indicò l’immensa statua.
- Lui è Gesù.
Gesù.
Astrid sorrise, ripetendo la parola come soleva fare da bambina, quando ancora non conosceva nulla del mondo, e c’era la stessa ingenua curiosità ad addolcirle la voce e il bisbiglio, una dolcezza della quale le sue labbra di impregnarono nel ripeterlo ancora, ma con un altro nome.
Allah.
Buddha.
Re.
Messia.
Epiteti così differenti ma con un’unica radice, un nome che forse nessuno di loro ricordava più, perché abbandonato nel passato assieme all’immagine sbiadita di un profilo imponente come quello ma oramai sbiadito, dimenticato.
Chi, prima di lei, li aveva difesi, protetti, amati come una madre.
Perché una madre ama i suoi figli e basta, non giudica, non punisce, ma ama, e la loro madre, la vita che sentiva pulsare sotto i piedi e battere nel cuore di quel mondo era forte, potente e gentile, infinitamente gentile.
Yggdrasill era il nome che lei conosceva, quello che loro avevano dimenticato ma che Loki aveva imparato a ritenere suo creatore, ma era unico per tutti.
Per gli umani, per gli uomini di Ghiaccio, per ogni creatura vivente.
La vita, quella  che poteva essere concessa ed essere creata dal nulla, il dono che rendeva l’alberò così diverso da lei, quella dimenticanza della quale lei era stata vittima dai Creatori, il limite del loro potere, il suo, limite.
Perché era un grembo fecondo quello che Yggdrasill riempiva d’amore, di vita, mentre sterile era solo il suo, un ventre che non avrebbe mai avuto la gioia di dare la vita a qualcosa, a qualcuno, un' imperfezione che però mostrava come si dovesse sacrificare qualcosa, in cambio di altro.
E il suo sacrificio, quello che i Creatori le avevano imposto era stato quello.
La creazione a discapito del potere, potere infinito, ma incapace di colmare quel vuoto.
Un vuoto che ora però si era fatto più tenue, lì di fronte, con quel viso gentile a guardarla con comprensione e amore, amore incondizionato, proprio come il suo.
Ed era tempo di mostrare all’uomo chi quell’amore aveva sempre riversato e per il quale non si era mai risentito, per quanto dolore le avessero arrecato, per quanto dispiacere le avessero inferto, perché una madre perdona sempre i suoi figli, e quell’emanazione di Yggradrill li amava tutti, senza differenze, senza ma nè  perché.
Quando la videro scostarsi dal gruppo Estela provò a riportala indietro, ma la sua forza era nulla in confronto al magnetismo che attirava la sua scoperta  alla statua, una forza impalpabile della quale nonna Baba le aveva parlato spesso, in passato.
Perché c’era una leggenda, attorno alla solennità che ora impregnava l’aria, un detto popolare che consigliava di non chiudere gli occhi, ma di alzarli al cielo una volta perduto qualcosa, una figlia, una moglie, un padre, un figlio, perchè di quelle perdite sarebbe rimasto qualcosa, accanto a noi, un frammento che ci avrebbe accompagnati, tutelati fino al loro richiamo, quello che li avrebbe ricongiunti tutti ai propri cari.
A chi aveva abbandonato quella terra, ma non loro, non chi avevano amato e che anche nell’aldilà avrebbero difeso, protetto,  e amato.
Ed alzò lo sguardo, Estela, stringendo gli occhi per mettere a fuoco il viso del Cristo e socchiudere le palpebre nell’avvertire una brezza leggera sul viso, come una carezza.
Un tocco fuggevole che cominciò a spirare tra loro, sorreggendo chi non ce la faceva, accarezzando chi non sorrideva, confortando chi non credeva mentre la voce di Nick Fury, dopo un attimo di pausa, tornava a tuonare tutto attorno.
- Perché noi non siamo soli.
Si avvertì una leggera scossa sotto i piedi, una lieve vibrazione che fece urlare qualcuno, sorridere pochi, alzare lo sguardo a molti, a chi sentiva qualcosa di caldo accanto a sé, una presenza confortante che li abbracciava e li spingeva a guardare in alto, verso il cielo che ora pareva così limpido e pulito da dar l’impressione di poter respirare meglio persino con la paura a stringere la gola.
- E mai lo siamo stati.
- Si è fatta grande.
Quando lo udì accanto, flebile come un sussurro ma  presente, vero, Estela non potè che tremare leggermente e stringere il bastone per reggersi sulle gambe che sentiva deboli, terrorizzata da ciò che aveva udito accanto a sé, angosciata dal pensiero di essere impazzita.
Perché quella voce lei la ricorda, l’aveva amata e poi perduta, come era giusto che fosse, ma non lo era risentirla, non così vicino, non ora, non dopo tutto quel tempo.
Eppure, quando l’urlo incredulo di una donna nella folla la convinse a girarsi, il viso che si ritrovò un poco più su rispetto al suo era quello di suo padre Raul.
Seguì un grido sommesso poco lontano, e un singulto strozzato, vicino, tanto vicino da poter richiamare l’attenzione di Astrid che continuava a rimanere ritta e con il viso rivolto al cielo, ferma ai piedi della statua.
Ma Tony Stark non aveva potuto evitarlo, non di sentire il dolore strizzargli il petto e condensarsi in una bolla d’ossigeno che, nell’uscire dal suo petto, era divenuto strozzato, non di sgranare le pupille lucide e fissare attonito il viso squadrato di suo padre Howard, imperioso come ricordava, ma lì, con lui.
- Tu – tu cosa-
- Non sei felice di rivedermi? – se ne uscì l’uomo, scherzoso, raddolcendo il viso nel guardare il figlio e intravedere a lui accanto una donna bionda stretta a due figure sottili e una terza persona, il ragazzo dagli occhi nocciola che fissava l’uomo con occhi lucidi e affranti come quelli del padre.
- Nonno?
 C’erano urla, attorno a lui, strepiti isterici di chi, nell’abbracciare i genitori, figli, mogli perdute, si trovava ad attraversare i loro corpi e guardarsi attorno con angoscia, ma Loki distoglieva lo sguardo con irritazione nel sentirli su di sé.
Lui che era l’unico a rimanere immobile, in silenzio, rigido nella sua posa di spalle tese e labbra strette, una linea retta dal colore della neve, pallida per il dolore che gli avrebbe cavato il cuore dalla gola se si fosse azzardato ad aprire la bocca.
Perché lo avrebbe vomitato, quel cuore, rigettato in terra e calpestato per la frustrazione di provare tutto quel risentimento, e gelosia, un' infida e patetica gelosia per ciò che vedeva.
Madri che abbracciavano i propri figli, figli che abbracciavano i propri padri, nipoti che stringevano piangenti i nonni di cui si era solo sentito parlare, persino l’uomo verde pareva aver perso la propria compostezza, chino ad abbracciare una figura femminile minuta contro la quale piangeva in silenzio, mentre lui, lui era solo, in mezzo a tutto quello.
Nessuno da abbracciare, nessuno da stringere, nessuno dal quale farsi guardare.
Ed anche se erano spiriti  quelli che trovava accanto a sé, la gelosia gli stava divorando il cuore e avvelenando lo sguardo puntato in cielo come gli altri, ma senza aver la possibilità di riabbassarlo sui propri genitori.
Genitori che lo avevano abbandonato mentre quelli che l’avevano amato, quelli che ci avevano provato, li aveva uccisi, smembrati, e fatti cadere esanimi ai suoi piedi, un’immagine per la quale si trovò a strizzare le palpebre e irrigidire la mascella forte per sopperire a tutto quel dolore.
Il dolore di sapersi solo, di aver avuto una famiglia, ma di essere stato allontanato da questa, emarginato come il più infimo delle creature, come il più inutile degli esseri viventi, una sensazione di impotenza per la quale, fin da bambino, aveva sofferto.
Impotente di fronte agli sguardi orgogliosi che Odino rivolgeva a Thor invece che a lui, gli abbracci che Frida soffermava un po’ di più su Thor che su di lui, gli sguardi amorevoli che tutti rivolgevano sempre a Thor ma mai a lui.
Ed erano morti per questo, per quella loro incapacità di amarlo come avrebbe meritato, come sapeva di dover essere amato, ma alla fine, si era comunque ritrovato con le mani sporche di sangue e il cuore ancora spaccato a  metà.
- Loki.
Quando lo vide riaprire gli occhi Astrid sperò di non trovarvi ciò che aveva immaginato, ciò che aveva sempre temuto di riscoprire un po’ più in fondo, in quegli occhi, ma lo trovò comunque, per quanto disperatamente  avesse pregato di non ritrovarlo più.
Eppure era lì, il dolore.
Nelle pupille che ora provavano a tremare un po’ di meno per non mostrarsi debole, sciocco e patetico, ma era proprio quel suo bisogno di mascherarsi a bordarle gli occhi di lacrime, il bisogno di nascondersi per paura di essere deriso, scacciato, biasimato.
Una paura che aveva portato lui a stringer a quel modo gli occhi e lei a voltarsi con apprensione nel percepire il cambiamento in lui, un mutamento che aveva reso la sua figura un po’ più sbiadita e cupa, come se stesse per scomparire, ma era davanti a lei, Loki era davanti a lei ricordò a se stessa, allargando le braccia per invitarlo ad andare da lei, lei che come lui  non aveva nessuno spirito a starle accanto, non su quel mondo dove non aveva niente di suo, nulla che avesse perduto davvero.
Aveva solo lui, come lui aveva solo lei, ed erano entrambi la famiglia dell’altro, una famiglia che si erano scelti perché dalla propria cacciati e respinti.
Due scalini saliti con stanchezza, poi il terzo e il quarto scavalcati assieme, e il quinto, sesto, settimo fatto di corsa, veloce, tanto veloce da privarlo dell’orgoglio con il quale si era ripromesso di raggiungerla per mostrarsi indifferente a tutto quello, ma era da se stesso, che Loki scappava.
Era sempre scappato da se stesso.
Quando lo sentì crollare su di sé Astrid fece forza sui talloni per sorreggere entrambi, per far sapere che quella terra sulla quale Loki aveva creduto di poter finalmente riposare non avrebbe ceduto, che lei, non avrebbe ceduto mai.
Perché lo avrebbe sorretto, difeso, protetto da se stesso e da ciò che credeva andasse ucciso,  da quell’orrore che credeva di essere, uno scherzo della natura del  mai nessuno aveva avuto il coraggio di farsi carico, perché gravido di troppo marciume, troppa disperazione, troppo tutto da poterlo sopportare.
Ma lei lo avrebbe sopportato, ogni dolore taciuto in gola, ogni sguardo lucido nascosto lì dove nessuno avrebbe provato a scavare, avrebbe ripulito ogni cosa, ogni macchia, schizzo che lui credeva di poter diventare.
Lo avrebbe amato come meritava, come lui sapeva di dover essere amato, e sarebbe stata la sua Yssgradill, il suo albero della vita, chi lo avrebbe protetto, confortato, amato senza remore alcuna.
Ed avrebbe fatto in modo di avere le radici più forti, gli arbusti più robusti di ogni altro, così da rimanere piantata a terra e non lasciare a nulla, non vento, non fuoco, acqua a smuoverla lì dove si era piantata, in quel cuore che sentiva pulsare frenetico contro l’orecchio mentre la terra tremava e la vera madre, la vera Yssgradill di quel mondo tornava a mostrare il proprio corpo affusolato, la chioma scarlatta dai rami possenti che un po’ alla volta si tesero verso il vuoto, come mani allungate per afferrare qualcosa, per proteggere qualcosa, i figli che lasciarono di nuovo prima di divenire ciò che prima o poi, ogni uomo sarebbe diventato dopo la morte, un ramo, forte e vigoroso, capace di alleggerire i propri figli del peso della vita.
E mentre l’albero cresceva, mentre l’umanità intera si trovava ad alzare lo sguardo verso le anime di coloro i quali continuavano a proteggerli dall’alto, Loki stringeva a sé il cuore pulsante dell’universo, il suo cuore, quello attorno il quale le radici di Yssgradill si erano intrecciate per darsi la spinta verso l’alto, lì, verso quel cielo fatto di foglie, rami e amore.
L’amore di quelle madri, sorelle, padri e fratelli che mai avrebbero smesso di proteggere chi per loro aveva significato la vita
Perché nessun genitore, alla fine,  avrebbe mai potuto smettere di proteggere  la propria famiglia, né i propri figli.




°°°







“Dottore” era stata la prima parola verso la quale avesse imparato a nutrire sentimenti contrastanti, divisa fra l’amore per il padre che di quel titolo era stato omaggiato dagli abitanti delle favelas in onore del suo buon cuore,  e l’odio per quegli uomini in camice bianco che avevano giustificato le loro torture come il compito di ogni professionista dedito alla scienza.
Ma anche suo padre era un dottore, e sebbene la vista di quel lettino le riportasse alla memoria le volte in cui si era ritrovata assalita dalle convulsioni per la sua poca collaborazione, ricordò a se stessa che non era lei, quella lì sopra, e che quella creatura era stata sedata e trattata più umanamente di quanto avessero fatto mai con lei.
- Se continui a fissarlo a quel modo  il vetro potrebbe andare in frantumi, sai?
Astrid distolse lo sguardo dalla vetrata nell’udire il tono divertito della madre, accostata alla finestra dalla quella era possibile vedere una buona porzione di Yssgradrill, divenuto tanto imponente da aver coperto per un quarto la superficie terreste.
Ma Pepper non fissava più l’imponente albero da un po’, attenta al riflesso di sua figlia, raccolta su se stessa sopra un divanetto, le braccia allacciate alle ginocchia e lo sguardo incollato alla camera insonorizzata dalla quale erano fuggite un ora fa.
Fuggite non era il termine giusto, in verità, perché erano state cacciate, e anche frettolosamente, ma non dai due eroi che, in un moto di iperprotettività verso la propria prole, avrebbero potuto decidere di tenerla a chilometri di distanza dall’alieno sedato, ma da Loki, che nel captare il brivido con il quale la compagna aveva guardato la creatura alla quale lui stringeva il capo per rovistargli tra i ricordi in cerca di notizie su Galactus, le aveva ordinato di aspettarlo fuori.
E Astrid aveva eseguito subito il comando del compagno, fuggendo via tanto velocemente da informare tutti loro che il suo disagio era ben più profondo di quanto avrebbero potuto ipotizzare, ed era stato proprio Loki, l’algido e freddo Loki ad accorgersene, uno smacco per il quale Tony si era ritrovato a imbronciare le labbra e incaponirsi con alcuni calcoli impossibili per distogliere la mente dalla propria inettitudine come padre.
Quando Astrid sentì il tessuto morbido del divano inclinarsi sotto il peso della madre tentò strenuamente di non guardare quella creatura priva di sensi, ma c’era la paura, a costringere le sue pupille a seguire irrazionalmente Loki, suo padre, chiunque in quella stanza fosse in linea d’aria con il suo sguardo.
Paura di non essere abbastanza attenta, abbastanza veloce da intervenire in caso di pericolo, un pericolo che sentiva frusciare nell’aria, sopra la sua testa, come una mano pronta a calare su di lei per strapparla da terra e avventarsi sugli umani.
Perché non era lui, chi stavano cercando, non era Silver Surfer, il loro nemico, e tenerlo imbrigliato a quel modo non avrebbe dimezzato le possibilità di poter essere attaccati, non contro chi aveva il potere di creare portarli come, lei, e per quanto Yssgradrill avrebbe potuto difendere i suoi figli, nessuno avrebbe potuto difendere lei che lo sentiva attorno a sé.
Vicino, tanto vicino da stringerle la gola per l’angoscia di trovarlo seduto di lato, a fissare come lei la vetrata e sorriderle con un viso che non conosceva ma che nei suoi incubi aveva immaginato frammentato come una maschera di creta spaccata per il calore.
- Di cosa hai paura tesoro? – sentì bisbigliare sua madre, apprensiva.
Di cosa aveva paura?
In quel momento di tutto, e di perdere.
Lei, i suoi genitori, Loki, tutto ciò che aveva costruito con tanta fatica, troppa per poter accettare di  lasciare la presa e abbandonare ciò che il mondo non le aveva concesso ma per il quale era stata costretta a lottare, e a uccidere,  quella volta però  il suo nemico era potente, era pericoloso, e ingiustamente crudele verso di lei.
Perché non capiva il motivo di tanto odio, di tanto feroce accanimento verso di lei, verso quelle creature  così delicate e fragile da farle temere di poterle vedere spegnersi davanti ai suoi occhi da un momento all'altro, non capiva il perché di tutto quello.
- So io cosa ci vuole in momenti tristi come questi – saltò su Pepper con un sorriso conciliante, incamminandosi verso il distributore che la donna aveva deciso di inserire nell’ufficio di Tony per evitare di ritrovarlo stramazzato a terra per  astinenza da caffè, ma ciò che l’umana prese per sé e la figlia fu cioccolata.
Calda e densa cioccolata profumata che Astrid annusò con un sorriso quando la madre le porse il bicchiere di plastica gialla.
- Bevi, sono sicura  che ti sentirai subito meglio.
Ed era vero, o forse voleva che fosse vero, ma lo zucchero riusciva a smorzare l’amarezza della bile che risaliva a fiotti dalla sua gola mentre guardava sua madre tornare alla finestra, sorseggiando la bevanda e sorridendole attraversa il vetro, come per controllarla senza essere soffocante.
Ma non lo sarebbe comunque stata, e se anche così fosse stato, non se ne sarebbe lamentata, non ora che aveva bisogno di contatto fisico, tocchi, mani, sguardi che sapeva di poter trovare se avesse alzato il naso un più in su, ma si limitò ad affondarlo nella tazza e osservare il proprio riflesso tremolante.
Il cioccolato era dolce, zuccherino, e caldo, un calore che le colorò le guance di rosa prima che l’afflusso di sangue si interrompesse nel sentire un tocco fuggevole sulla sua testa, ma quando Astrid si voltò a controllare, trovò sua madre nella stessa identica posizione, lì dove l’aveva lasciata.
Immobile.
Nel sentire lo sguardo insistente su di sé Pepper le sorrise conciliante  prima di tornare a fissare il cielo, ma la sensazione di disagio non  abbandonava Astrid.
Tornò comunque  a rilassarsi sul divanetto, chiudendo le palpebre per rilassare le pupille che  avrebbero cominciato a lacrimare se avesse continuato a tenerle tanto sgranate mentre la stanchezza, unita al languore della bevanda, ammorbidiva ogni nervo teso, stendeva i lineamenti crucciati, e permetteva al suo cuore di tirare un profondo e lento sospiro di sollievo.
Un sollievo di breve durata, il tempo di un nuovo respiro incastrato nel petto che Astrid irrigidì assieme al busto nel percepire di nuovo quel tocco sul suo capo, un peso leggero, simile ad una carezza gentile, ma non era gentile, perché c’era qualcosa di sbagliato, nell’odore di quella mano che la sfiorava.
Una puzza di zolfo e bruciato che la portò a stringere gli occhi e il bicchiere di carta nella speranza di scacciare quell’illusione mentre la presa forte di Sunniva attorno alla sua vita le ricordava che lei, quel fetore, l’aveva aspirato fino ad esserne disgustata.
Un olezzo che pareva divenire più forte mano a mano che la mano scendeva a toccarle la fronte, calando sulle tempie dove il sudore cominciava a raggrumarsi, ma continuò  a tenere gli occhi chiusi e la mente rivolta a pensieri felici, ad immagini felici, ma era rosso, tutto ciò che vedeva.
Rosso come il cielo scarlatto che i suoi occhi avevano inghiottito voracemente per quantificare la grandezza del pericolo, rosso come le dita che riscoprì incorniciarle il mento prima che il suo urlo si levasse nell’aria e la tazza finisse rovesciata a terra assieme al suo contenuto.
- Tesoro? Tutto bene?
Astrid guardò la madre con gli occhi sgranati dalla paura, ma non trovò mani artigliate a graffiarle il viso, né un busto privato di un suo arto ad accogliere il suo terrore, era semplicemente sua madre, spaventata quanto e forse più di lei.
- Astrid?
- Io- provò ad articolare, finendo col guardarsi nervosamente attorno e puntare lo sguardo al suolo, sulla ciocolata rovesciata che rimandava la sua immagine tremante e sorpresa.
- Tutto bene?
- Si – si arrese a dire, chinandosi sulle ginocchia per rimediare al danno mentre sentiva lo sguardo apprensivo della madre provare a superare la barriera visiva che aveva creato coi propri capelli, ma si sentiva stupida, in quel momento.
Stupida per essere stata suggestionata da immagini con le quali avrebbe dovuto imparare a  convivere, stupida per aver spaventato sua madre e se stessa per qualcosa che non poteva esserci, non lì non con loro.
Quando sentì i primi passi  seppe di non potersi più nascondere dietro i propri capelli, ma si concesse qualche altro minuto di silenzio prima di sollevare lo sguardo dalla chiazza scura e stiracchiare un sorriso imbarazzato, un sorriso che le si congelò in volto quando li trovò ad un centimetro da lei.
Non piedi, non scarpette graziose, ma zampe dalle unghie curvate in artigli d’avorio che riflettevano il suo viso pallido e l’orrore di quello sguardo che Astrid ebbe paura di sollevare, per timore di sapere cosa si sarebbe trovata davanti, cosa la stava guardando a sua volta, e continuava a tenerle quella mano sulla testa.
Ma non vi furono urla quella volta, solo passi scoordinati e braccia tese in avanti per mettere più distanza possibile tra lei e la creatura inghiottita dal cielo venato di nero che ritrovò davanti a sé, non più il corridoio, non più casa sua, ma fuoco e nero, un nero soffocante che ritrovò sulle mani nell’abbassare gli occhi.
- Tesoro?
Pepper arricciò le labbra nel non ricevere una risposta, ma le spalle, spalle che vedeva tremare debolmente assieme alle mani che Astrid strofinò ferocemente sul suo bel vestito, arrossandole per lo strofinio isterico con il quale tentava di pulirle da quell’orrore, ma era come incollato alla sua pelle.
Un altro passo goffo e incespicato, un altro sguardo attonito che la donna si trovò a rivolgere a sua figlia e alla vetrata dentro la quale nessuno pareva essersi accorto di nulla, e Pepper tentennò un attimo, indecisa sul da farsi prima di notare attraverso il vetro il modo in cui sua figlia assottigliò d’improvviso gli occhi, avventandosi su di lei e causandole un grido sorpreso che l’umana si costrinse ad inghiottire quando lo vide torreggiare su di loro.
Alto, dalle braccia sinuose e dalle spalle larghe che un cielo nero rendeva difficile da separare, perché c’era nero, dietro di lui, nei suoi occhi, sulle sue braccia e in quelle mani artigliate che vedeva pulsare come la carne viva di una ferita inferta a tradimento.
Un incubo, perché era il parto di un incubo la creatura che la fissava con i suoi occhi sgranati e sproporzionati, privi di palpebre, che vide scattare serpentine sulle pupille violacee dilatate dall’eccitamento.
- Notevole.
La puzza di zolfo investì entrambe come una folata di nube tossica vomitata dalle profondità di una palude, ma Astrid si costrinse a rimanere immobile  sebbene la vicinanza con quella creatura le desse un senso di nausea.
Un disgusto che gli vomitò addosso nella speranza di poterlo allontanare, ma lui non indietreggiò, non si mostrò infastidito, ma inverosimilmente deliziato da quella sua reazione.
La pelle che richiuse nel palmo era morbida come aveva immaginato, come sapeva sarebbe dovuta essere, morbida e calda come un respiro di vita chiuso tra le dita, dita che la creature schiuse su quel volto grazioso, stuzzicando le ciglia pallide per convincerla ad aprire un po’ di più gli occhi e mostrargli ciò che per cui era venuto, ciò che la rendeva migliore di lui.
E quando le scorse, quando i profili delle galassie gli rigettarono in viso i loro colori sgargianti, Galactus non potè che rafforzare la presa sulle sue guance nel sentire lo stomaco brontolare,   sorridendo biecamente nel cogliere il lieve spostamento d’aria al lato destro del capo.
Quando il braccio tornò al suo fianco Astrid potè tornare a respirare nel notare la distanza recuperata, ma era comunque vicino, e veloce, lo era stato quando aveva provato ad avventarsi su sua madre che ora le stritolava il braccio con angoscia.
- Tony –  la sentì sussurrare dietro di lei, mentre Galactus raccoglieva il sangue scaturito dalla ferita al viso con l’unico braccio rimasto, perché l’altro glielo aveva tranciato lei stessa, e glieli avrebbe strappato tutti se avesse provato ancora ad avanzare.
- Tony – tornò a chiamare Pepper, e questa volta con più voce, stringendo Astrid contro il petto quando colse il movimento febbrile davanti a lei.
- Non immaginavo così il nostro primo incontro.
- Chi sei?
- Chi sono?
La risata che gli graffiò il petto fu stridente e acuta come il grattare isterico di un gesso sulla lavagna, una cacofonia che Galactus rese ancora più sgradevole digrignando i denti e soffiandovi attraverso il fiato di zolfo – vedo che Yehouda non si è premurato di informarti della mia esistenza.
Il solo sentire quel nome le inondò il viso d’orrore al ricordo di quegli artigli chiusi attorno alla sua gola, una sensazione di soffocamento che si costrinse a zittire, ricordando a se stessa che non era sola, ma che c’era sua madre, accanto  a lei.
Sua madre che era umana, e fragile, infinitamente più vulnerabile di chiunque altro, in quel momento, con quella creatura innanzi a loro.
Lo videro ondeggiare flessuoso sulle gambe lunghe e ossute, sorridendo gentile con una bocca due volte più  larga del nomale, senza labbra, ma con un unico taglio dritto a dargli la possibilità di parlare e ridere di loro.
- Come fai a conoscere Yehouda?
Uno sguardo affilato fu tutto ciò che ebbe in risposta prima di vederlo tendere il viso e schiudere un altro sorriso deliziato.
- Come faccio a conoscerlo? Non credi che ogni figlio abbia il diritto di conoscere il proprio padre?
Il pallore improvviso del suo viso sembrò incantarlo, perché lo vide addolcire il taglio degli occhi e abbozzare un passo prima di cogliere il lieve movimento con il quale Pepper aveva rafforzato la presa, tentando di nasconderla dietro di sé.
Ma Astrid era ben più forte di lei, e per quanto tirasse, per quanto sapesse di essere responsabile della sua protezione in quanto donna, in quanto madre, in quel momento non poteva nulla, non contro quella creatura che, nel posare lo sguardo su di lei, si lasciò sfuggire un rantolo disgustato.
- Umani, davvero? – irruppe con voce incredula, grondante biasimo – vedo che neanche nostra madre H’ava ti ha insegnato ad odiare creature così insulse.
- Lei non è mia madre – rantolò lei.
Un’espressione attonita solcò il viso di Galactus per quelle che le parvero secondi prima che il suo sguardo tornasse a veleggiare sull’umana, scandagliando la sua figura con ribrezzo prima di soffiare tra i denti un verso di scherno.
- E sarebbe lei, invece? Sarebbe lei tua madre? Quell’insulsa -
- Non osare andare oltre – lo minacciò aspra, scaraventandogli contro un’ondata di energia che gli incise una ferita profonda sulla guancia destra, un taglio dalla linea obliqua che gli aprì il viso come se lo avesse frustato con una corda di metallo bollente.
La pelle crepitò sinistra quando Galactrus provò a sfiorarla con le dita e gli artigli, affondando le unghie nel taglio per impregnarle del proprio sangue denso e nerastro e osservare in silenzio l’offesa subita.
Un’offesa per la quale si trovò a brontolare un ringhio bestiale prima di far scattare il braccio e dirottare una scarica di scintille verso Pepper, prontamente difesa dal corpo incandescente di Astrid.
Una smorfia contrita gli tese il viso quando la luce parve accecarlo per un attimo, perché i suoi occhi non avevano mai avuto la capacità di sopportare tanto potere.
- Tanto bella quanto sciocca.
- Bada a come parli.
- Ma sei stata contaminata da quelle creature  - e Galactus accennò con il mento alla figura tremante dell’umana – perciò posso giustificare la tua confusione.
- Confusione? Confusione per che cosa ? – gli ringhiò contro, sentendo la pelle del viso crepitare per le fiamme che oramai la ricoprivano per un terzo.
Perché quelle parole lei le aveva già sentite una volta.
Contaminata.
Yehouda non aveva detto altro da quando lo aveva incontrato, da quando il Creatore si era arrogato il diritto di poter giocare con lei, con la sua mente, e con quel cuore che aveva provato a cavarle dal petto per mostrarle a quale razza appartenesse, a chi dovesse tutto quello.
Ma lei non doveva nulla, non più, non quella vita che si era creata da sé, non quella felicità che i fantasmi del passato tornavano a turbare.
- Io non ho fatto nulla per scatenare il tuo odio. Non ho fatto nulla di sbagliato, nulla per il quale debba sentirmi in colpa. Nulla per dover ancora subire queste torture – e affondò una mano nei capelli per strattonarli e catturare tra le dita schegge di stella mentre il dolore le gonfiava la voce di disperazione.
- Perché non potete lasciare la mia gente in pace? Perché non potete lasciare me  in pace? Perché?
E quello lo urlò, sentendo la gola bruciare per la foga di un quesito al quale non era mai riuscita a dare risposta, una domanda che da bambina si era posta tante di quelle volte da aver creato più interrogativi di quanti avesse voluto.
Ma lei stessa era nata da una domanda.
Come?
Perché?
Chi?
Ed aveva implorato di trovarle da qualche parte, tutte quelle risposte, per comprendere la complessità della sua esistenza, del tormento che non riusciva ad abbandonarla, dell’annichilente consapevolezza di non poter essere felice senza pagare per quella stessa felicità.
Ma quello, quello non lo accettava, l’esistenza di quella creatura, non la accettava, non il suo definirsi come lei, solo perché frutto della follia di una creatura che per la sua crudeltà aveva pagato.
Perché non era come loro, non era come lui.
Lei aveva un cuore umano e  una forza divina, lei era diversa, e quella diversità lei l’aveva accettata, perché non sempre il diverso indica qualcosa di cattivo, ma solo diverso, semplicemente, diverso.
E non accettava di sopportare ancora tutto quello, non poteva sostenere di nuovo quel peso, non ora che ne aveva così tanti.
La sua famiglia.
I Giganti di Ghiaccio.
E Loki.
Loki che aveva sempre avuto paura di perderla, di essere abbandonato da lei, e quella nuova guerra nella quale lei era il premio l’avrebbe solo ferito e reso più disperato nella sua strenua ricerca di tenerla con sé, di saperla accanto a lui, ma forse, era quello il suo pegno da pagare per ciò che era.
Sapere di non poter fare altro che arrecare dolore a chi amava sacrificando se stessa nel tentativo di proteggerli, un sacrificio che a lei avrebbero lasciate ferite aperte sul viso e sul corpo, e cicatrici incurabili dentro di loro.
Eppure, quando vide nel riflesso di quelle pupille lucide il proprio viso stanco, quando sentì l’urlo di sua madre alle spalle e il vento sibilarle di lato, non potè che ruotare il busto e stringere ciò che amava.
Perché non era brava in nulla, se non a fare da scudo e parare i colpi per gli altri, nella speranza di non vederli soffrire e sentirli urlare, ma sua madre lo fece.
Urlò, urlò tanto forte da strapparla per un attimo dal dolore che l'accecò  mentre il nero sbiadiva e si ritrovava a terra, in mezzo al corridoio, stretta nella braccia che dondolavano entrambe e chiedeva aiuto.
Un aiuto che rimbalzava su un muro di vetro dentro il quale però nessuno poteva udirla, non il suo disperato grido di madre, non il suo respiro flebile.
Eppure, poteva vedere il proprio riflesso mischiarsi alla figura altera di Loki, l’occhio sano nascosto dalla palpebra che amava baciare per fargli sentire la sua presenza con labbra che si trovò a schiudere con un rantolo sommesso mentre uno schizzo di sangue imbrattava il pavimento e le braccia di sua madre provavano a trascinarla in braccio verso la porta.
Inciampò, ma Pepper liberò un grido frustrato nel mantenere l’equilibrio e tamponare la schiena squarciata che liberava  una densa scia di sangue mentre lei avanzava, con sua figlia in braccio, il viso inondato di lacrime e la gola bruciante per le urla che nessuno riusciva ad udire.
Ma era disperazione, quella che la portava a gridare ugualmente il proprio dolore, disperazione per quel viso che sentiva pesante sulla sua spalla, pesante come il corpo esile che stringeva al petto e trascinava assieme a se stessa.
Quando cozzò contro il vetro il contraccolpo rischiò di farle prendere la presa attorno Astrid, ma digrignando i denti rafforzò il braccio destro mentre con l’altro prendeva a colpire la lastra, urlando e fissando con le lacrime agli occhi il sangue che oramai le impregnava i vestiti e continuava a gocciolare a terra, inesorabile.
Un fiume che non riusciva ad arginare con la mano che sentiva il bisogno di abbandonare la presa sulla carne viva e sulla schiena squarciata, una mano che zittì il disgusto con il bisogno di essere di aiuto, di poterla guarire, ma era un’umana.
Una stupida e inutile madre umana che non poteva far altro che gridare al vuoto e sentire sua figlia respirare pesantemnte  per il dolore contro la sua tempia.
Un dolore che era stata lei a causare, perché era lei, chi Astrid aveva protetto quando quella creatura si era avventata su di loro, era stata su quella schiena piccola e minuta che gli artigli erano affondati, non nel suo petto, non nella sua gola, ma nella schiena che strinse rabbiosa, battendo la fronte contro il vetro per generare maggior rumore.
Perché Astrid sapeva di non poter morire, sapeva che le sue, di ferite, si sarebbero rimarginate, che il suo corpo, alla fine, avrebbe retto tutto quello, ma non il cuore di chi si sapeva responsabile di quello scempio, non il suo che pareva sgretolarsi dopo ogni stilla di sangue caduta a terra.
Ma era ingiusto, tutto quello, era ingiusto, perché era sua figlia, quella che giaceva esanime sulla sua spalla.
Era sua figlia quella che non aveva potuto proteggere, che mai, era riuscita a proteggere, se non lui, il dio che per la prima volta  implorò, supplicò di guardarla, di sentirla, di ascoltarla, di vederla.
E quando lo vide aprire gli occhi con una smorfia confusa, quando potè rispecchiare la sua immagine nell’iride chiara, vide qualcosa andare in frantumi,dentro di lui  un annichilente sgretolamento che venne giù assieme al suo sguardo sul corpo appallottolato contro il ventre schiacciato sulla  vetrata.
Un fisico minuto e grazioso, dalla fluente chioma colorata bagnata di rosso, un denso e corposo rosso porpora che Loki sembrò inghiottire assieme alla saliva quando ne trovò tanto, troppo attorno a lei.
- Passerà.
Il tremolio isterico del vetro attirò lo sguardo di chi, ancora, il pericolo non aveva sentito, ma nel percepire l’incrinarsi della vetrata Bruce Barner non potè che distogliere lo sguardo dai documenti ammassati sulla scrivania e lanciare uno sguardo alle proprie spalle, intravedendo una piccola crepa nel muro divisorio, prima di vederlo.
Il sangue.
Una pozza, enorme e impiastricciata su una schiena alla vista della quale sentì il cuore schiantarsi nello stomaco assieme all’uggiolio dell’altro nel riconoscerla.
- Cos’hai da agitarti tanto ? – brontolò Tony nel notare il tremolio convulso del corpo del dottore, ma quando le sue narici riconobbero l’odore, la puzza, ghiacciò sulla sedia con gli occhi fissi al monitor e la gola stretta per l’orrore di vedervi dentro qualcosa che non sarebbe dovuto esserci.
Non la figura disperata di sua moglie, non il corpo gracile che lei stringeva fino a farle male.
Una scheggia gli ferì lo zigomo quando la vetrata scoppiò, una pioggia di schegge dalle quali però nessuno, nella stanza, riuscì a proteggersi, o volle.
Quando Pepper scivolò a terra  si sentì reggere da una mano dura e gelata, dita che sentì tremare contro la carne tenera del suo collo prima di scivolare sul suo petto e scostare lentamente la figura raggomitolatele addosso che a quel contatto cadde indietro con gli occhi socchiusi per il dolore.
Un dolore che Loki inghiottì,  la gola vibrante  un urlo che non riusciva a cavarsi dal petto, perché stava soffocando.
Annegava, inesorabile, nella disperazione che lo stava affogando, spingendo la sua testa sotto l’acqua che ingoiava a fiotti e che non riusciva a sputare fuori, perché ce l’aveva già dentro.
Nel sangue, negli arti lividi per il mancato afflusso di sangue che pareva essersi congelato negli occhi divenuti cremisi.
Perché era il Gigante di Ghiaccio in lui, il mostro che covava in petto a tentare di tamponare la ferita, congelando ciò che sarebbe marcito, disgregato nel vedere la sua terra sporca di tanto sangue.
Una terra che sarebbe dovuta rimanere candida, gentile, e pulita, come lui non era mai stato, come lei lo faceva sentire, ma ora stava affogando, e non c’era più nulla che potesse ripulire quel dolore.
Non le grida di quegli umani che come lui non avevano potuto nulla se non guardarla sempre cadere.
Non quella voce che, nella sua stessa,  continuava a rassicurarlo sul dolore passeggero.
Ma non sarebbe passato.
Non il suo.
Non quello di chi, di soffrire, non sembrava destinato a smettere.





°°°




C’era silenzio, una pace finta e indotta che il cigolio del letto e il respiro stanco della  figura raccolta contro il suo petto frammentavano mentre le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso.
Pepper si premurava però  di asciugarle in tempo, cosicché non  bagnassero  il capo di Astrid ripulito da sangue che le aveva impiastricciato i capelli e che aveva reso l’acqua della vasca un' orribile melma fangosa dalla quale l’avevano tolta gentilmente, aiutandola ad indossare abiti puliti e profumati di fresco, così da riposare.
Ma non stava riposando, perché non poteva dormire.
Ed erano lì, coricate sul letto, strette l’una all’altra, rinchiuse in quella bolla di silenzi che la donna si sforzava di mantenere per rassicurare sua figlia e se stessa, ma le bruciava la gola, e le lacrime continuavano a bordarle gli occhi nel sentire la cicatrice sotto le dita.
Perché erano stati costretti a ricucirla, lei e la ferita, troppo profonda e troppo estesa per poter essere riassorbita velocemente dal corpo di Astrid che, nel processo,  avrebbe perso altro sangue, sarebbe diventata più debole, e avrebbe fatto sentire lei  ancora più inutile.
Perché Pepper sapeva di esserlo.
Lo era stata lei, Tony, Bruce, tutti, persino Loki che non aveva mai guardato dalla sua parte, come se vedere Astrid ridotta in quello stato gli arrecasse disturbo, e gliene aveva arrecato, a lui, a lei, e alla sua intera famiglia che, ancora una volta, era stata protetta.
Protetta da chi doveva essere protetto, tutelato, difeso, ma che nuovamente aveva difeso loro, inutili e stupidi umani.
E si sentiva stupida, in quel momento, stupida come donna, come essere umano, ma soprattutto, come madre.
Una madre capace solo di guardarla ferirsi per spirito di sacrificio, e soffrire senza aver la possibilità di ricucire le ferite e asciugare le sue lacrime, incapace, semplicemente, di proteggerla, e non c’era nulla di più doloroso che sapere, sapere di non poter nulla, di essere inadeguata e inutile.
Perché era debole, anche con la pistola nascosta sotto il cuscino, anche con le mani incatenate attorno al corpo di Astrid, anche con il campo di forza che aveva chiesto di ergere al marito nella loro camera da letto, così da permettere alla figlia un po’ di riposo, ma era stato inutile.
Lei era inutile, perché aveva davvero creduto che quelle stupide precauzioni avessero potuto fermare quel mostro e impedirgli di toccarla ancora, ma per quanto fragile sapesse d’essere al confronto, per quando inetta potesse diventare, Pepper aveva giurato a se stessa che nessuno, l’avrebbe più ferita a quel modo.
Ed avrebbe sparato, schiaffeggiato, strappato con le unghie  e con i denti  chiunque avesse provato a cacciarla dal suo abbraccio, lì dove era giusto che fosse, lì dove una figlia avrebbe dovuto sapere di essere protetta, e al sicuro.
Non si mosse di un millimetro nel sentire  il cigolare della porta dietro la quale sapeva, il dottore e suo marito andavano a controllarle ogni quarto d’ora, senza però mai entrare,  colmi di vergogna per il senso di colpa.
Ma quello che Pepper sentì fu diverso, ambiguo, e troppo distante dalla porta che pochi minuti fa aveva visto schiudersi per lasciare passare lo sguardo scuro del marito.
Sentì Astrid irrigidirsi nella sua presa mentre la mano correva sotto il cuscino per afferrare la pistola e puntarla davanti a sé, glaciale in quello sguardo che faceva scorrere per la stanza con  rabbia, la mano tremante per l’ansia di non sapersi abbastanza pronta, abbastanza forte, abbastanza giusta, ma era una madre.
Era sua madre, e avrebbe protetto ciò che era suo, anche da un alieno divoratore di galassie, anche da quello che, da quanto appreso, poteva essere un essere uguale ad Astrid, l’unico, uguale ad Astrid.
Lo scricchiolio alla sua destra attirò la mano verso quel punto, per poi scattare nuovamente di lato e sfiorare il grilletto nel cogliere l’ombra grottesca di una figura poco lontana, e vicina lo era davvero, perché ne sentì il peso sulle lenzuola e sulle gambe che Pepper ritirò, richiudendo la figlia contro di lei e alzando il mento per fronteggiare la creatura e vendicare il torto subito.
Ma non era un mostro, quello chino su di lei, o almeno, non un mostro dal quale temere ritorsioni, perché quella bocca di metallo, per quanto orribile alla vista, sorrideva gentile mentre da sotto il cappuccio Semjace fissava morbida la donna bionda che racchiudeva sua figlia in  un abbraccio soffocante.
- Madre.
Entrambe abbassarono lo sguardo su Astrid, un sorriso morbido a ridare colore al viso stanco verso il quale la creatrice tese le dita metalliche, solleticando una guancia che, pur volendo, non avrebbe potuto accarezzare, non come l’umana che in silenzio guardava ogni suo movimento con la pistola ancora stretta tra le mani.
- Mi dispiace – ed era sincero, il rammarico nella voce della creatura, una desolazione che Pepper per prima aveva sentito nel toccare distrattamente la ferita sulla schiena della figlia.
- Lo siamo tutti – si trovò infatti a sussurrare quasi a se stessa, decidendo infine di abbandonare la pistola sulle lenzuola e ammorbidire l’abbraccio nel quale Astrid si rilassò esausta, sbattendo le palpebre per cercare di rimanere sveglia nonostante la stanchezza le appesantisse lo sguardo.
Le sfuggì una smorfia contrita a quella vista, e la donna potè giurare di aver colto lo stesso cocente dolore nelle pupille  inghiottite nel buio del cappuccio.
 Semjace sembrò abbozzare un altro movimento, ma rimase  con il braccio teso a mezz’aria sul viso di Astrid prima di  dirottare  verso il busto che Pepper irrigidì nel sentire il tocco fuggevole della Creatrice su di lei.
- Mia figlia mi ha parlato molto di te.
Essere gelosi di lei non era giusto,  lo sapeva, ma non potè che risentirsi un po’ di quel “mia figlia”, perché Astrid era anche figlia sua, e  non per linea di sangue, non per volontà divina, ma perché si erano scelte entrambe.
- E devo ringraziarti per quello che hai fatto per lei.
-  Astrid è mia figlia. Tutto ciò che ho fatto l’ho fatto perché sono sua madre, perciò non devo essere ringraziata – le rispose dura, ma la reazione di Semjace non fu irritata come Pepper si era aspettata, al contrario, le parve persino di vederla ampliare il sorriso da sotto il cappuccio.
- Allora dovrai essere tu a proteggerla per entrambe.
Il sussulto del petto portò Astrid a sgranare un po’ gli occhi e guardare le sue due madri fissarsi vicendevolmente in silenzio, ma c’era qualcosa sul viso di Pepper, un'ombra di dolore che assalì anche lei nel sapere di esserne  responsabile, ma quando Semjace le toccò la testa guardò anche lei.
Uno scambio di sguardi dal quale l’umana distolse l’attenzione, ferita da quell’affermazione che lei non poteva che negare.
Perché lei non era capace di proteggere Astrid, non ne aveva la forza, né le capacità.
- Vorresti averle?
La sorpresa di sapere a cosa la Creatrice si stesse riferendo le impedì di rispondere prontamente alla domanda, ma il pensiero di poter essere un libro aperto per una divinità come quella confermò la sua ipotesi.
L’aveva sentita, lei e il suo desiderio di poter fare qualcosa, qualsiasi cosa per essere in grado di proteggere sua figlia, una possibilità che ora, quella creatura, quella madre disperata come lei le stava offrendo.
Perché incapace a sua volta di supportarla,  di toccarla, di aiutarla come avrebbe voluto, ma lei, lei poteva stringerla, abbracciarla e baciarle le guance quando l’amore era così forte da guidare le sue labbra su quel viso dolce, e per un attimo Pepper provò compassione per quella creatura, e pietà.
Compassione per un’incapacità che rendeva entrambe succubi del dolore di sapersi impreparate per reggere altro dolore, il suo, dolore.
E lei non voleva sentirsi più così impotente, non voleva più nascondersi dietro le divise e attendere la fine della battaglia, voleva combattere al loro fianco per proteggere sua figlia dal male dal mondo, voleva il potere, non per sé, non per gli altri, ma  per lei, per Astrid.
Ancor prima di poter proferir parola però, sentì la mano della creatura sfiorarle la tempia, affondare nei suoi capelli e attendere una sua risposta, ma Pepper si limitò a sospirare pesantemente prima di stringere la presa attorno ad Astrid e chiudere fiduciosa le palpebre.
- Cosa è stato?
Le rotelle delle sedie slittarono all’indietro quando la voce di Tony Stark tuonò per la stanza con ferocia, ma un militare, intimorito dall’aria cupa dell’eroe si affrettò a controllare le telecamere, e in particolare quella della stanza da letto dove si trovava la moglie e la figlia che il dottore e lo scienziato si contendevano da anni.
Ma il soldato non trovò nulla di strano, o anomalo, solo due figure addormentate placidamente l’una nelle braccia dell’altra.
- Tutto tranquillo signore, anche nella camera da letto.
Un ‘mh stizzito convinse il militare a tornare a sorvegliare il monitor mentre l’eroe raggiungeva a grandi falcate la figura piegata sull’immenso schermo del computer centrale.
- Allora? Nessun segno di quel bastardo?
- Negativo – rispose Maria, china sulla tastiera con l’aria crucciata – ma c’è un problema.
- Quale problema ? – le chiese Bruce dal lato opposto della sala, precipitandosi al fianco della compagna che ruotò su se stessa, fissando i due uomini con faccia scura.
- Loki.
Sfuggì ad entrambi un ringhio sommesso, ma si costrinsero a mantenere la calma vista la situazione di emergenza, anche se erano stanchi ed esausti da quanto accaduto poche ore prima.
- Cosa non va con Udinì?
- Non c’è più.
- Dove? Nella sua camera? – chiese lo scienziato con acidità, memore di avercelo lasciato non più di mezz’ora fa.
- No, non nella sua camera – sussurrò Maria con un filo di voce, tornando a smuovere la sedia per pigiare un pulsante e far apparire un’immagine satellitare del pianeta.
- Sulla terra.


 


Continua…


 

  
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