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Autore: Ely79    19/08/2013    4 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L.C. - Cap. 10
10

Scorch rideva sguaiato e batteva i pugni sul bancone, attirando smorfie di biasimo dai presenti. Era palesemente ubriaco e l’uomo che gli faceva da compagnia e sprone non era da meno. Avevano ordinato almeno un paio di giri per ogni alcolico e superalcolico presente nella dispensa e sulle mensole del bar, e gli esiti stavano diventando imbarazzanti quanto ingestibili.
Nonostante la massa dei ricci scuri di Jack si frapponesse di continuo a quella deprimente visione, Charlotte non riusciva ad ignorarla del tutto. Ad un tratto Scorch si voltò, imitato dal compare. Lo sguardo che le rivolsero la spaventò a morte: non c’era un briciolo d’ironia o divertimento, solo lascivia e meschinità. Lei non lo diede a vedere, almeno fino a quando l’ingegnere spiaccicò la bottiglia sul petto dell’altro e prese ad arrancare tra i ballerini. Barcollava e sbatteva contro ogni persona incontrasse sul suo cammino, grugnendo e sollevando commenti sdegnosi e occhiatacce.
La sola idea di concedere un ballo ad Almgren la disgustava e le faceva tremare le ginocchia, ma non ebbe tempo di pensarci: Odrin, con passo svelto e deciso, la raggiunse e sostituì Jack quale nuovo cavaliere.
L’Andull la sospinse in un angolo della pista, dove le luci erano basse e la ressa sopportabile, lontano dalle mire dello sbronzo progettista che tornò imprecando verso i liquori, spintonando chiunque.
«Cominci pure. Quali sono le sue… tue rimostranze?» si corresse avvilita, appoggiandosi alla spalla del partner mentre questi le cingeva i fianchi con un braccio.
«Rimostranze?» chiese stupito, prendendo delicatamente la mano di Charlotte nella propria.
Lei sospirò, spiandolo da sotto in su. Si sentiva in imbarazzo mentre gli parlava - come era stato con gli altri per la poca abitudine a dar loro del tu -, ma anche piacevolmente rassicurata: il profumo dolciastro degli abiti di Odrin le ricordava quello dei vestiti da lavoro di suo padre. Era un ricordo lontano, legato all’infanzia e a momenti pieni di felicità. Ritrovarlo su un’altra persona era meraviglioso.
«Tutti hanno voluto esprimere giudizi sul mio operato. Ovviamente non erano lusinghieri. Quindi, sono pronta. Cosa vuole… vuoi dirmi?»
Gli occhi grigi di Odrin brillarono di una risata interiore.
«Vuoi che mi lamenti? D’accordo» acconsentì, grattando la parte calva della nuca. «Rivoglio LucyBelle in officina».
«Non se ne parla» replicò prontamente la donna, ritrovando la consueta serietà. «Mi dispiace Odrin, ma la normativa sanitaria è molto rigida a riguardo. E poi è disobbediente, scappa sempre dal laboratorio. Giocando tra i banchi rischia di farsi male o di ferire qualcuno, inclusi fornitori e clienti. Non posso permetterti di riportarla, anche se ci tieni. Non dovrebbero accedere all’officina neppure Junior e Bonnie, figuriamoci lei».
L’Andull la trovò graziosamente buffa quando la vide ripetere il gesto con cui sistemava gli occhiali, nonostante non li indossasse.
«Mi piace quando spieghi le tue decisioni. Sei sempre così razionale, precisa. Anche se non si parla di lavoro durante le uscite» le fece notare.
«Cosa?»
«È la regola: niente lavoro fuori dalla “Legendary”. Credo abbiano approfittato del fatto che tu la ignorassi perché non vieni mai all’“Archituono” con noi» spiegò ammiccando. «L’unica vera lamentela che voglio avanzare è che ho dovuto aspettare fino ad ora per ballare con te. Non mi dispiacciono i lenti, però persino Boy mi ha scavalcato e questo è un affronto che non posso tollerare. C’è una gerarchia in officina e va rispettata. Sarai costretta a pagare pegno per averglielo permesso».
Lei deglutì a vuoto, tremando mentre abbassava lo sguardo.
«Stavo scherzando, Charlotte» chiarì subito, dandosi dell’idiota per averla spaventata.
«Scusi. Scusa» rettificò scrollando le spalle. «Non è colpa tua. È… quell’uomo. Con l’Ingegner Almgren. Mi dà i brividi».
Odrin sfruttò una breve giravolta per spiare in direzione del bancone. Scorch tracannava del liquido di uno strano verde fosforescente, affiancato da un tizio alto e magro, con i capelli scuri legati in un codino. Aveva il profilo schiacciato, da pugile, e la pelle olivastra.
«PigTail. Paul Brown, negli archivi» ringhiò. «Lavorava da noi, poi Clay l’ha cacciato. Non dovrebbe nemmeno farsi vedere, ma è rimasto amico di Scorch. Scommetto che gli ha detto lui di venire. Se può consolarti, ha sempre fatto quest’effetto a tutti quelli che lo incontravano, ma forse posso rimediare» propose, approfittando di un cambio di ritmo per stringerla a sé.
L’impatto con il corsetto lasciò entrambi senza fiato. Odrin ebbe l’impressione di essersi scontrato con un HWc 1200 stracarico.
«Accidenti» esalò massaggiandosi il torace. «Lo dico sempre che queste vostre gabbie sembrano di ferro».
«È un po’… rigido. M-mi spiace» si scusò, anche lei dolorante.
«Le cose belle vanno protette. Soprattutto quando si ha a che fare con rudi meccanici armati di serratubi e parolacce» ridacchiò passandole una mano sulla schiena e facendola avvicinare, questa volta con cautela.
«Quindi non devo proteggermi dagli Andull addetti agli interni?» azzardò, allungando le braccia sulle sue spalle.
«Noi Andull siamo abili guerriglieri e non manchiamo di rispetto alle donne, è sacrilego. Però…»
«Però?»
«Però,» cantilenò accarezzando la stoffa sopra i lacci del corsetto, «quando ne desideriamo una, sappiamo impegnarci a fondo per conquistarla. Diventiamo ostinati, specie se la fanciulla in questione è sfuggente, autoritaria, odia il turpiloquio, tenta di mantenere sempre un certo distacco professionale e non ha la patente».
Charlotte arrossì, trattenendo il fiato. Di certo non doveva mai esserle capitata una dichiarazione simile. Guardò attorno, tentando di trovare un argomento di conversazione per difendersi da un ipotetico nuovo assalto. Vide Clay e Sandy al centro della pista. Erano entrambi piuttosto allegri, ridevano, inciampavano l’uno nell’altra scambiandosi dispetti e fugaci toccatine.
«Non riesco a credere che siano divorziati. Sembrano due fidanzatini» commentò divertita.
«Nessuno ci crede. Loro per primi» disse Odrin mentre i titolari prendevano a baciarsi con discreta foga.
Istigati dallo slancio amoroso, molti dei presenti li imitarono, formando una bizzarra cornice di parrucche, lustrini ed effimere identità.
L’artigiano colse al volo l’occasione.
«Pensi che dovremmo unirci?» le domandò.
A dispetto di ogni previsione, Charlotte tentennò. Non era ritrosia verso una mancanza di rispetto, sembrava piuttosto il timore di ammettere qualcosa di tremendamente scomodo. O che desiderava.
«Sarebbe di cattivo gusto non seguire l’esempio. E mi stai fissando la bocca» insisté scherzosamente lui.
«Non avevo notato che il tatuaggio proseguisse sulle labbra» si giustificò senza guardarlo.
«Vuoi sapere se è stato doloroso quando l’ho fatto?» chiese ma non aspettò la risposta: «Da morire. Ha sanguinato per settimane, ma ne è valsa la pena se piace. Perché… ti piace, vero?» domandò, ottenendo un timido sorriso.
L’implicita confessione rappresentava una conquista colossale.
«Allora, vuoi che ci uniamo agli altri? Sarò delicato, giuro. Non sono Sandy» promise.
Poco più in là, Alexandra stava letteralmente soffocando di baci l’ex-marito che evitava di sottrarsi e anzi, partecipava con notevole trasporto, al punto da averla afferrata per i fianchi, sollevandola da terra.
«Potrebbe esserci qualcuno, nella mia vita» l’ammonì Charlotte.
«Mama Pilar è un segugio in queste cose e una gran chiacchierona. Si preoccupa molto per il cuoricino infelice della sua niña adorata e solitaria. Oltre che per quello di Justina» replicò sottovoce.
Poco a poco, seguendo il languido dispiegarsi della canzone, Odrin accostò il volto a quello della donna, poggiando la fronte sulla sua. La sentì stringere timidamente le braccia attorno alle sue spalle, quasi cercasse di sostenersi o farlo avvicinare. I capelli bianchi ricadevano in avanti, ondeggiando con quelli castani. Rimasero così, immobili, le labbra vicine sfiorate dai soli respiri, fin quando il brano terminò.
«Pensavi davvero che l’avrei fatto, anche se non volevi?» bisbigliò, studiando nella penombra il volto della segretaria.
Lei non rispose, ma le labbra socchiuse dicevano inequivocabilmente “sì”. Charlotte aprì gli occhi. Respirava a fatica, quasi che l’emozione la sovrastasse, soffocandola.
«Impegnarsi a conquistare una donna non significa darle il tormento o obbligarla a fare ciò che non vuole. Dimmi fin dove posso arrivare. Mostrami il limite e non andrò oltre» promise chinandosi ancora.
Odrin non proseguì: la mano di Charlotte si era posata sulle sue labbra, fermandolo.
Parla, maledizione. Parla, Charlotte. Fammi capire se lo vuoi anche tu, scongiurò.
«Houpette mi sta aspettando. Vuole farmi conoscere il titolare, Brigit» ansimò, facendo scorrere piano le dita lungo i contorni bianchi e neri.
Lui si limitò ad annuire, baciandole i polpastrelli.
«Quando avrò fatto… mi piacerebbe… ballare ancora» propose con immensa fatica.
«Sono a tua disposizione. Per tutta la notte» le sorrise con gentilezza.
«E dovrò farmi perdonare per… averti fatto stancare?» chiese, accarezzando le cuciture del gilet di pelle.
«Era sottinteso» confermò facendole l’occhiolino.
«Non sono brava a gestire le forze altrui, me la cavo meglio con tempi e costi. Potresti dover perdonare molto alla sottoscritta» lo informò, giocherellando con una treccina rimasta impigliata in un fermaglio.
Odrin, stupito dal gesto e dalle parole, rinsaldò la presa, stringendola nuovamente a sé.
«Sarò magnanimo» le concesse, baciandole la mano mentre scioglieva l’abbraccio.
Charlotte se ne andò, sfoggiando il consueto aplomb e lasciando l’artigiano a rimuginare intrigato.
«Limonato duro?» s’interessò Boy, quando tornò a sedere con il gruppo.
L’Andull agguantò un bicchiere di SnowyPeach dal vassoio di un inserviente e cominciò a sorseggiare, ignorando il collega per seguire l’abito color caramello tra la folla e controllando che nei paraggi non comparissero Scorch e il suo socio.
«Tutta scena. Non c’ha fatto un cazzo. Hai perso, paga» sbadigliò Patch fragorosamente.
Il ragazzo imprecò frugando nelle tasche alla ricerca del trias concordato. Non trovandolo, si alzò per andare a scroccarlo a Ozone, che sedeva come un pascià tra un harem di drag queen che gli offrivano leccornie e parevano venerarlo quasi fosse un muto dio barbaro.
«Te l’avevo detto che non combinavi niente. Non te la darà mai» insisté Patch.
Lui fece spallucce continuando a bere, gli occhi puntati sulla sua bella, ora intenta a conversare con un donnone dal caschetto platinato e tempestato di gemme variopinte.
Spiacente Patch, ma la verità la sapremo solo io e Charlotte, pensò scorrendo con il mignolo la ciocca che lei aveva toccato.

***

Wilmar sedette per qualche minuto sui gradini della veranda, guardando le luci della Urbanhare allontanarsi. Era quasi sicuro d’essersi seduto su una caramella che doveva essere stata sputata sul sedile chissà quando da uno dei marmocchi Felton. Quei bambini non erano normali, producevano schifezze in quantità industriale. D’altra parte erano i figli di Patch, uno che ora lavava la divisa una volta al mese solo perché Charlotte era riuscita ad imporglielo, mentre fino a due anni prima il cambio avveniva solo perché gli indumenti gli cadevano di dosso a brandelli.
Quella zona di La Roscas era tutta un susseguirsi di piccoli villini dimessi, circondati da giardinetti trasformati in orti; case semplici dove viveva la maggior parte dei latinos della città. Sopra i tetti bassi svettavano il campanile della chiesa di Nostra Señora de la Merced, perno centrale dell’intera comunità, e qualche raro palazzo di mattoni. In uno dei più recenti viveva Clay.
Dopo le danze, le chiacchiere, la musica e gli scherzi, sentiva il bisogno di un po’ di calma e alle tre del mattino, La Roscas era il posto perfetto per trovarne.
Uno scapaccione lo fece sobbalzare e strappò via la bandana, mettendo a nudo il grande tatuaggio sulla sua testa. Nella bassa luce della veranda si distinguevano a malapena i contorni di una Madonna circondata di fiori e una scritta.
«¿Dónde has estado? È tardissimo!» sibilò ansiosa una voce.
«Alla festa, mama, lo sai! Ti saluta la tua niña. E adesso ridammela!» sbraitò coprendosi la testa con le mani, nell’attesa di riavere il maltolto.
Maria Pilar sedette al suo fianco, stringendosi nel vecchio scialle e infilando la bandana nella tasca della vestaglia.
«Vi siete divertiti?»
«Sì. È stata una bella serata» ammise sbadigliando.
Come se ci si potesse veramente divertire, quando le uniche tette vere in giro sono quelle della Vernet, commentò tra sé.
Gli dava il voltastomaco pensare che sotto la quasi totalità dei vestiti ci fossero state imbottiture e protesi. E dire che aveva visto diverse belle (presunte) pollastre, alcune con gambe da favola, che però nascondevano sorprese da incubo. Per sua fortuna era ben cosciente di chi si celassero quelle vesti o avrebbe rischiato grosso ogni volta.
«C’era una bella signorina, eh?» sogghignò Maria dandogli di gomito.
«Coma fai a dirlo?» domandò allarmato, tastando freneticamente collo e faccia.
La sua spasimante gli aveva teso un’imboscata mentre tornava dal turno in pista con la segretaria, ma non aveva avuto modo di verificarne le tracce.
«Hai un buon profumo».
«Era un mostro, fidati. E la conosci bene, visto che era la tua niña» sviò, indispettito dal tono pericolosamente ammiccante. «E poi che bisogno ho di una donna, quando ho già la migliore del mondo?»
Maria Pilar rise accondiscendente, guardando verso la chiesa.
«Wilmar, io non ci sarò per sempre. E tu non sei più un bambino».
L’espressione del figlio s’indurì all’istante.
«Mama, non cominciare. Tu ci sarai sempre!» grugnì balzando in piedi.
«Willie…»
«È così, taci!» ruggì, camminando in circolo come un animale in gabbia.
Ogni volta la stessa storia. Ogni volta doveva ricordargli quel periodo terribile di venticinque anni prima, quando erano arrivati su una carretta del mare che si era rovesciata a poche miglia dalla costa. Era quasi affogata per salvare lui e sua sorella, aveva lottato per venti giorni contro il coma, in bilico tra la vita e la morte, e per mesi con l’Ufficio Immigrazione delle Colonie e l’Ambasciata che minacciavano di dividerli per sempre. Aveva combattuto per dar loro una casa, un pasto, un’istruzione, un futuro. Per restare uniti, sempre e comunque.
Se Blanca si era sposata e aveva messo su famiglia altrove, Wilmar non gliene faceva certo una colpa. Era felice per lei. Lui però non poteva né voleva lasciar sola la mamma, non si sarebbe fatto spingere fuori della porta tanto facilmente.
«Smettila, mama. Te l’ho detto tante volte. Tu non vai da nessuna parte. Non ci vai, mama. Non te lo permetto!» s’intestardì, indicando il tatuaggio che aveva fatto a quindici anni - spacciandosi per maggiorenne -, per ringraziare la Vergine e colei che l’aveva messo e tenuto al mondo.
La scritta sulla sua pelle recitava “Santa Madre y Mi Madre”.
«Wilmar, mi pequeño…» sospirò dolcemente.
«No! No mi pequeño! Non. Dire. Niente» scandì furioso, sottolineando ogni sillaba con una pedata sul vialetto sconnesso.
Pur essendo basso e tarchiato, a Maria Pilar sembrò che suo figlio fosse diventato un gigante, reso immenso dal dolore e dalla paura che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Choncho tornò a sedere e l’abbracciò forte.
«Non dire niente, mama. Non dire niente. Rimani. Rimani e basta» mormorò trattenendo le lacrime.

***

«Mamma, stai bene? Hai una faccia che fa paura».
Con immensa fatica, Alexandra si costrinse a sollevare le palpebre, che in quel momento parevano di ghisa. Davanti a lei c’erano gli occhi verdi ed il volto tondo di sua figlia.
«Bonnie… ho la testa che scoppia. Come ci sono arrivata qui? Eravamo alla festa… c’era Charlotte che ballava con… chi diavolo era? Ozone? No… forse con… con Choncho? Possibile? Oh, mi sento gonfia come un aerostato! Che diamine ho mangiato?» piagnucolò.
«Ti ha portata a casa papà. Non ti ricordi?» la interruppe la ragazzina raddrizzandosi e gettando indietro i lunghi capelli lisci e castani.
Sandy strizzò gli occhi sulla camera da letto, quasi temesse di trovare Clay addormentato al suo fianco.
«Papà?» domandò con un mezzo sbadiglio, che tale rimase quando un terrore improvviso la risvegliò di colpo, facendola stringere nelle coperte.
Già una volta, un paio d’anni prima, lei e Clay erano stati sorpresi dalla figlia quasi nudi in quella stessa stanza, avvinghiati l’uno all’altra, dopo aver ceduto a parecchi bicchieri di troppo. Era stato in assoluto uno dei momenti peggiori della sua vita: lo sguardo perplesso e speranzoso di Bonnie l’aveva fatta vergognare profondamente, mettendola di fronte alla sua incapacità di chiudere definitivamente con l’ex-marito. Anche quella volta c’era stato di mezzo un festeggiamento al “Bull(es)”.
Dobbiamo smettere di andarci, è deleterio, pensò amareggiata. Non posso rischiare tutte le volte di ritrovarmelo qui quando mi sveglio. Non riuscirei ad allontanarlo. Finirei col chiedergli di restare.
«Sì, ma ti sei cambiata da sola» riprese Bonnie, sedendo composta sul bordo del letto.
«Come fai a dirlo?» sibilò indispettita, tastando sotto le lenzuola per scoprire cosa le fosse rimasto addosso.
«Gli hai tirato uno stivale urlando che doveva levarsi dai piedi, che non avevi bisogno di lui e che doveva tenere le mani a posto. Papà è passato davanti alla mia stanza subito dopo».
La donna scoprì mestamente le gambe, trovando la sinistra ancora infilata nella calzatura.
«Credi che l’abbia preso?» chiese con una smorfia.
«Nel senso se hai centrato papà? Sì e in pieno da come si lamentava, ma non so dove. Lo stivale te l’ha lasciato sulla scala. Forse pensava di farti un dispetto».
Mentiva: Clay si era prodigato nello sbraitare come una furia di aver rischiato di perdere un occhio grazie a quel maledettissimo tacco a spillo. Ovviamente “maledettissimo” non era il termine che aveva usato, ma Bonnie aborriva quanto Charlotte le scurrilità, soprattutto se a usarle era suo padre.
«Fantastico. Vedrai se non verrà a sbattermelo in faccia. Dirà che sono una pazza furiosa» gemette sdegnata, tentando di mettersi seduta tra mille doloretti. «La mia schiena… sembra che me l’abbiano tritata».
«Colpa del corsetto. Ti avevo detto che l’avevi stretto troppo» la redarguì la figlia.
«Vedremo quanto stringerai i tuoi, saputella» sbottò tirandole un cuscino.
Ingaggiarono una battaglia che ebbe vita breve per via della stanchezza che ancora attanagliava Sandy.
«Mamma?»
«Mmm?»
«Hai baciato papà» ridacchiò, nascondendosi il guanciale.
Sandy sgranò gli occhi.
«Che ti salta in mente? Io che bacio tuo padre? L’avrai sognato» borbottò aspra, sfiorando distrattamente le labbra che trovò ancora piuttosto gonfie e doloranti.
Proprio come quando Clay la baciava a lungo e con troppa passione.
«Vi ho visti» insisté innocente la ragazzina.
«Tu… cosa?»
«Avete fatto tanto di quel baccano quando siete arrivati che mi sono svegliata. Avete perfino rovesciato il tavolino dell’ingresso e continuavate a ridere. Rie è scappata come se avesse un mostro alle calcagna» ghignò, ripensando alla fuga precipitosa della babysitter.
«Quel pachiderma urbano! Sempre il solito. Se l’ha rotto glielo metto in conto nel prossimo assegno» sbottò imbarazzata, incrociando le braccia per tentare di darsi un contegno.
Rie era la figlia maggiore di Hito. Dio solo sapeva cosa poteva avergli raccontato, una volta arrivata a casa trafelata. Forse qualcosa tipo “i signori commettono atti osceni di fronte a me neanche fossero due adolescenti arrapati”.
«Papà ti teneva in braccio e quasi non riusciva a portarti su dalle scale. Sembrava che lo stessi strangolando» osservò divertita Bonnie.
Era stata dura non farsi scoprire mentre li spiava dalla porta socchiusa. Vedere la mamma aggrappata al papà, le sue mani che gli sostenevano la testa mentre si baciavano e mugolavano sillabe incomprensibili, avanzando tentoni nella semioscurità ansimando come dopo una corsa folle, le aveva fatto quasi sperare che le cose tra loro si fossero finalmente risolte.
«Non sai quante volte avrei voluto farlo» mormorò Sandy, vergognandosi della scena che doveva essersi presentata agli occhi della ragazzina.
Lei con le gambe stette attorno ai fianchi di Clay che, sicuro come l’oro, la reggeva con una mano sotto al sedere e l’altra chissà dove, forse sul corrimano, forse sulla schiena. Più probabilmente sotto al corsetto o alla gonna. Un brivido l’attraversò al ricordo di come si concludevano quelle scalate anni addietro, ma non seppe dire se si trattasse di rabbia o desiderio. Le costava ammettere quanto sentisse la mancanza del loro modo rude e scatenato di fare l’amore o il semplice bisogno di sentirsi chiusa nella vigorosa stretta di Clay.
Notando la sua espressione, Bonnie si accoccolò al suo fianco, abbracciandola.
«Gli vuoi ancora bene, vero?» domandò fingendo scarso interesse.
Nonostante avesse solo dodici anni, sapeva mostrarsi molto più matura della sua età, al punto che talvolta Sandy si domandava chi fosse davvero la donna di casa tra loro.
«Mi sembrava di vedervi come quando ero piccola. State bene insieme. Mi piacerebbe riavervi così, tutti i giorni. Magari non di notte, insomma… voglio dormire, ma di giorno sì» puntualizzò ridacchiando triste.
Con un grosso sospiro, Alexandra contraccambiò l’abbraccio e le diede un bacio sulla fronte.
«È complicato, tesoro. Troppo complicato».
Anche per noi che ci siamo dentro fino al collo, pensò abbattuta.
«Penso che anche Click-Clack lo vorrebbe» aggiunse Bonnie.
La madre si sforzò di sorridere al soprannome di Junior, che mai come in quegli ultimi tempi sembrava calzargli a pennello. Click-Clack Lomann. Perché no? Dopo tutto, ogni membro dell’officina aveva un soprannome. Lei pure ne aveva avuto uno e Bonnie era stata “Rotellina” fino ai quattro anni, quando aveva messo fisicamente in ginocchio Hito, costringendolo a chiederle perdono perché si ostinava a chiamarla con un nome che non era il suo.
Cose che succedevano in una famiglia come la loro. Una famiglia estesa, piena di figure equiparabili a zii e cugini, ma dove papà e mamma non formavano una coppia.
«È complicato, Bonnie» ripeté.


Writer's Corner.
Solo poche parole prima che le onde mi trascinino via, verso altri lidi... ringrazio chi sta leggendo questi capitoli nonostante le vacanze. Soprattutto Shade Owl, che si trova ancora a recensire tutto solo soletto! Qualcuno vuol dargli una mano?
Grazie a blood_mary95 che ha inserito "Legendary Customs" tra le preferite. Ovviamente l'invito è rivolto anche a te.
Alla prossima!
   
 
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