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Autore: La Reveuse    22/08/2013    2 recensioni
Alexis Le Fort, parigina, si è appena trasferita a Londra.
Stanca di vivere una vita basata sull’apparire, vuole cominciare ad essere.
Il suo coinquilino Jacques Delacroix, anch’egli parigino, è perfettamente inserito nell’elite londinese: calmo e pacato rappresenta il ragazzo perfetto.
Théophile Lenoir, l’altro coinquilino, è una “pugnalata allo status sociale” di qualunque persona gli si avvicina e rappresenta tutto ciò che Alexis non è stata mai: è libero, sfacciato, pieno di vita. Un matto dotato di un caratteraccio.
[…]
«Sei anche permalosa! Io davvero non so come faremo a sopravvivere a quest’anno insieme.»
Ah, lui si permetteva di dire una cosa del genere?
Proprio lui?
Quello stesso idiota arrogante che camminava in mutande e mi metteva deliberatamente in soggezione?
Beh, stavamo messi proprio bene allora.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Universitario
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L’appartement Français


Chapitre 3:
Affogare

 

 

 

 

 

Le feste dell’alta società erano sempre apparse vagamente ripetitive ai miei occhi. Se ci si soffermava per un solo istante a osservare le dinamiche che si evolvevano nel corso di una qualsiasi serata di quel tipo, ci si sarebbe potuti prontamente accorgere di alcune costanti. Innanzitutto, tutti tendevano a essere vestiti uguali: le ragazze prediligevano vestiti o gonne lunghe fino a metà coscia, mentre i ragazzi portavano solitamente dei jeans, una camicia, un maglione e delle scarpe “sportivamente eleganti” – questo era il modo in cui io, perlomeno, le definivo. La seconda costante che avevo appuntato nel corso di diversi anni passati a frequentare quegli avvenimenti era che si bevevano soprattutto – ma non soltanto – bevande con molte bollicine: acqua frizzante – categoricamente francese –, prosecco, spumante, e champagne. Le altre bevande erano bene accette, ovviamente, ma a patto che fossero di eccelsa qualità. La terza ed ultima costante era che, quelle feste, dovessero somigliare maggiormente ad un ricevimento che ad un party vero e proprio: tutti erano soliti stare in gruppetti a chiacchierare, sorseggiando un bicchiere di Dom Perignon e raccontandosi le loro ultime giornate passate a cacciare in campagna.
Crescendo, avevo pensato che quei ricevimenti sarebbero degenerati, un giorno, in feste colossali con fiumi di alcol e droghe, dove le persone si sarebbero sciolte un po’, avrebbero ballato e si sarebbero realmente divertite. Però, ciò che ero finita invece col notare, era che, malgrado molte serate fossero finite in discoteche fra i famosi fiumi di alcol, le dinamiche, le gerarchie ed i comportamenti rimanevano immutati. Le persone si atteggiavano sempre nello stesso modo, le ragazze ti si rivolgevano sempre con una determinata intonazione ed una buona dose di falsità: solo la location cambiava.

«Eccoti qui.» Jacques comparve davanti a me con un largo sorriso e mi porse un bicchiere colmo fino all’orlo di bollicine. «Scusa se ci ho messo tanto ma stavo salutando alcune persone.» Aggiunse.
«Grazie.» Mormorai, prendendo il calice e annusandolo: come previsto, prosecco. «Ho visto un bel po’ di persone che vedo spesso girare a Parigi.» Aggiunsi, guardandomi intorno per un’altra volta.
«Te l’ho detto che ti saresti sentita a casa.» Mi sorrise, carezzandomi poi leggermente il braccio destro come per confortarmi. Deglutii, forzando un sorriso. «Devo presentarti tante persone non appena arrivano tutti.»
«Non… Non hai mai pensato di voler cambiare giro di amici, dopo che ti sei trasferito qui a Londra?» Domandai, alzando gli occhi dal liquido frizzantino nel mio calice che avevo fissato attentamente fino a quel momento. Lui mi guardò confuso per un istante, prima di abbassare lo sguardo a sua volta, sorridendo appena.
«Per un momento, sì…» Deglutì, mandando poi giù un sorso di prosecco. «…Conobbi altre persone all’università e le frequentai.» Continuò, passandosi una mano fra i capelli. «Mi fidanzai anche con una ragazza, Jenny, e tutto sembrava andare alla grande.» Si fermò, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra vicino alla quale eravamo in piedi.
«Cos’è successo?» Insistei, guardandolo negli occhi.
«Niente di che: uscii a cena con lei e Valentin – l’immagine di Valentin, il fratello maggiore di Jacques si materializzò nella mia mente – e… capii che c’erano troppe differenze tra il mondo come lo vedeva lei ed il mondo come lo vedevo io...» Si strinse nelle spalle. «Mi accorsi che io ero cresciuto avendo delle aspettative, dei determinati parametri per approcciare il mondo… Lei invece era più uno spirito libero: non le importava di cosa pensava la gente di lei, di cosa avrebbe fatto fra qualche anno… Non capiva come me e te che ciò che facciamo oggi può darci o meno la possibilità di fare determinate cose in futuro…»
Non capiva quanto fosse importante apparire per far parte di un certo mondo.

Pensai, ma non osai dire quelle parole ad alta voce. Guardai Jacques, lì davanti a me che gesticolava nervosamente mentre parlava di Jenny ed il mio pensiero volò a Théo, un altro spirito libero come la ragazza che Jacques aveva lasciato andare via, perché inadeguata per soddisfare pienamente i requisiti dell’alta società per essere accettata.
«…Così, grazie a Valentin, ho riallacciato i rapporti con vecchi compagni di classe di Parigi che vivevano a Londra e… Mi sono sentito di nuovo a casa, al sicuro, fra persone che capivano quanto fosse bello prendere un aereo per passare un solo weekend in Costa Azzurra e quanto fosse appagante frequentare i bei locali dove sanno la differenza fra Dom Perignon e uno champagne da due soldi.»
Apparire.
Bisognava frequentare i posti giusti, le persone giuste.
Bisognava bere la cosa giusta al momento giusto, andare nelle città giuste nel momento giusto.
Bisognava vestirsi a modo, parlare a modo, sorridere a modo.
Distinguersi sarebbe stato troppo, troppo sbagliato.
«Non ci credo che ti faccia schifo la colazione inglese.» Sbottai, guardandolo dritto negli occhi. «Non ci credo che non ti piaccia vivere come una persona libera e fare tutto quello che vuoi quando vuoi.» Abbassai la voce, accorgendomi che un paio di teste si erano voltate alle parole ‘colazione inglese’. «Io e te impazzivamo per la robaccia fritta che vendevano a dietro Nôtre Dame la domenica mattina: la andavamo a prendere sempre di nascosto, facendo finta di andare ad un bar a fare colazione, così che i nostri genitori non si scandalizzassero dal fatto che potessimo frequentare certi postacci.» Continuai. «Ti ricordi cosa mi dicesti a Porto Vecchio una mattina mentre guardavamo l’alba? Che non saremmo mai diventati come i nostri genitori. Io lo so che a te, Jacques Delacroix, una bella colazione inglese farebbe impazzire: è piaciuta anche a me!»  
Jacques alzò lo sguardo, mortificato.
Le sue goti si erano arrossate e le sue labbra si erano piegate in un sorriso indecifrabile, sospeso a metà fra l’amarezza e la felicità. Era come se per un momento avesse ricordato le persone che eravamo stati insieme e al contempo cercasse di respingere quei ricordi che stavano venendo a galla.
«Credo che il bacon sia una fra le sette meraviglie gastronomiche dei nostri giorni.» Ammise, mordendosi leggermente il labbro inferiore. «E quella robaccia fritta di Nôtre Dame dovrebbe essere segnalata su Trip Advisor.» Continuò. «E me la ricordo quella serata a Porto Vecchio, lo sai che non potrei mai dimenticarla.» Abbassai lo sguardo, arrossendo a quel tenero ricordo. «Ma, Alexis…» Deglutì, posando il calice su un tavolo al nostro fianco, per poi posare entrambe le mani sulle mie guance con dolcezza, facendo un passo nella mia direzione. «Ricorda una cosa, sempre: il gioco non vale la candela.» Mi guardò negli occhi, mentre io continuavo a fissarlo col respirò spezzato, sconvolta per quel gesto così veloce ed inaspettato. «Ricordatelo sempre.» Ripeté, tornando a fare un passo indietro, prendendo il calice e mandando giù il restante prosecco giù tutto in un colpo.
Il gioco non vale la candela.
Quella frase cominciò a tuonare nella mia mente, mentre le mie orecchie sembravano cominciare a fischiare e la mia vista ad annerirsi. Avevo mille domande da fargli, volevo domandargli cosa intendesse realmente, volevo sapere di Théo… Volevo sapere talmente tante cose che non sapevo neanche da dove cominciare, in realtà. Lui prese la mia mano, impedendomi di formulare altri pensieri, e senza che potessi oppormi, mi portò verso un gruppo di persone che mi presentò.
Il suo volto era rilassato, tranquillo: non portava una singola piega di ciò che era appena successo, di ciò che aveva appena detto.
Perché allora mi sembrava che dentro di me fosse esplosa una bomba?
«Alexis, hai già conosciuto Blanche. Questo è suo fratello Gauthier, è lui che ha organizzato questa festicciola.» Alzai lo sguardo ed incrociai quello di un ragazzo biondo dagli occhi chiari.
«Finalmente ho il piacere di conoscerti.» Mi porse la mano. «Sono contenta che tu sia qui e non in un qualche angolo di Camden Town.» Quella frecciatina venne recepita da ogni mio sensore all’erta: cercai di non scompormi, ripetendo a me stessa il mantra ‘apparire, apparire, apparire’. Sorrisi e strinsi la sua mano.
«Come potrei mai preferire un posto colorato come Camden Town a questa esplosione di allegria di una festa.» Dissi, guardandolo dentro negli occhi.
Touché.
Non capii se avesse colto il velato sarcasmo nella mia voce ma, ovviamente, neanche Gauthier si scompose minimamente, senza distogliere lo sguardo da me, sciolse la presa della mano e la posò sul braccio di Jacques.
«Spero di vedervi entrambi alla fine di settembre, per cominciare per bene la sessione di caccia autunnale.» Solo a quelle ultime due parole spostò lo sguardo sul mio accompagnatore, senza privarlo ovviamente di un ampio sorriso.

Bevi? No.
La voce di Théo si accavallò con la mia fra i miei pensieri, mentre buttavo giù un altro sorso dell’ennesimo bicchiere di prosecco che mi ero ritrovata casualmente fra le mani.
No, non avevo mai bevuto più di un bicchiere in vita mia, non gli avevo mentito. Perché allora non riuscivo a mettere giù quel calice quella sera?
«Tu devi essere Alexis.» Una voce femminile a me sconosciuta mi fece sobbalzare e per poco non rovesciai il contenuto del calice a terra. Finalmente posai il bicchiere, poggiandolo su un tavolo non molto distante da me, mentre la ragazza dai capelli corvini mi seguiva, guardandomi incuriosita.
«Ci conosciamo?» Domandai, ancora troppo sconvolta dalle parole di Jacques per mettermi una maschera di falsità. La ragazza non si scompose minimamente, continuando a fissarmi con i suoi occhi verdi.
«No, ma ho sentito Blanche parlare di te oggi pomeriggio e corrispondi perfettamente alla sua descrizione.» Disse con una scrollata di spalle come se fosse la cosa più normale al mondo. «Io sono Daphne.» Mi porse la mano, non scollandosi di dosso quel sorriso a trentadue denti.
«Mh… Piacere.» Mormorai, stringendo la sua mano. «Io sono Alexis, ma questo già lo sai.»  Aggiunsi, guardandomi per un momento intorno come se temessi che altre dieci Daphne potessero precipitarsi per osservarmi.
«Blanche ha quasi avuto un infarto quando ti ha vista scendere dalla moto di Théophile.» Non ne voleva proprio sapere di smettere di sorridere, vero? «Come sta quel vecchio sciroccato?» Domandò poi, guardandomi curiosamente. Boccheggiai, essendomi aspettata tutto ma non quella domanda. Entrando in quella casa ero stata sicura sin dall’inizio che nessuno avrebbe osato nominare Théo se non per criticarlo o per dirmi di starne alla larga… Quella domanda, fatta con così tanta sincera premura, mi spiazzò.
«Bene… Bene, immagino… Io… Non è che lo conosca molto… Forse dovresti chiederlo a Jacques…» Tentennai, mentre lei scuoteva la testa, sorridente.
«Mi ero dimenticata che tu fossi arrivata solo ieri sera: non sai proprio un accidente, vero?» Ridacchiò, quasi compiaciuta di avermi fatta imbarazzare di nuovo. «Jacques non sa nulla di Théo.» Disse semplicemente. «Vivono, vivete insieme, ma è Théo che para il culo a Jacques, non viceversa… Hanno un rapporto strano, giocano alla playstation insieme, ma… Non sono né amici né nemici… Si trovano bene a vivere insieme perché Jacques non invade gli spazi di Théo e Théo ha sempre ripagato Jacques per quello che gli ha fatto passare quando si è inimicato mezza Londra, proteggendolo.»
«Io non capisco.» Mormorai e Daphne ridacchiò, scuotendo i corti capelli neri.
«L’unica cosa che devi sapere è che ti sei trasferita nell’appartamento più folle in cui io abbia mai messo piede.» Grazie per l’incoraggiamento, pensai. «Io, comunque, sono la cugina di Théophile e la ex fidanzata di João, il ragazzo che tu hai sostituito.» Ecco, ora era tutto chiaro: era il legame di sangue che la portava a chiedermi di Théo!
«Ehm… Mi dispiace… So che è tornato in Portogallo.» Abbozzai un sorriso ma lei, nuovamente, non si scompose minimamente.
«Guarda, Alexis, dispiace più a me per te, considerando il sesso che ho fatto in camera tua.» Sbarrai gli occhi e lei scoppiò a ridere, passandomi un braccio intorno alle spalle con un ampio sorriso stampato sulle labbra. «Vorrei consolarti dicendo il solito ‘sto scherzando’, ma ero serissima, purtroppo per te e per fortuna per me.»
Cominciavo a vedere la somiglianza fra lei e Théo.
Decisamente.

Jacques mi evitò come la peste per il resto della serata. Ero convinta che una parte di lui, quella nascosta chissà dove e che io avevo conosciuto da bambina, era stata toccata dalle mie parole.
Mentre Daphne mi raccontava di lei e delle persone che ci circondavano, facendomi anche ridere, io seguivo con lo sguardo la figura di Jacques muoversi da un gruppo all’altro di persone.
Era così sicuro e convinto nei panni che vestiva. Se mia madre avesse avuto una lista di caratteristiche che doveva avere il ragazzo modello, ero sicura che lui le avrebbe soddisfatte pienamente tutte.
Era garbato, elegante, sorridente: ascoltava con attenzione e premura, parlava a voce né troppo alta né troppo bassa, scandiva bene le parole, non teneva le braccia incrociate al petto, annuiva, si mostrava interessato. Eppure, più lo continuavo a guardare, più mi domandavo quanti di quei comportamenti fossero veri, sinceri, fatti spontaneamente e non perché l’etichetta lo avesse portato a farli.
Il gioco non vale la candela.
Pensai a come Jacques era uscito con quella ragazza, Jenny: lo aveva detto lui stesso che era stato tutto perfetto e naturale finché non si erano confrontati con Valentin, perfetto rappresentante dell’alta società borghese troppo impegnata a scegliere la giusta annata del vino per fare attenzione alle piccole cose quotidiane.
Eppure, per quanto lei lo facesse stare bene, non era abbastanza per sostituire quanto apparire in quel giro di persone potesse dare.
In poche parole, la felicità dell’essere non avrebbe mai comparato i benefici dell’apparire? Com’era possibile?
Guardai il mio riflesso in un piccolo specchio appeso su una parete: i miei capelli castani erano legati in un’elegante mezza coda; il mio viso era truccato leggermente ed illuminato dalle perle che portavo come orecchini. Per un momento riuscii a scorgere i lineamenti di mia madre, sovrapposti ai miei, che mi dicevano che, quel giorno, mi ero vestita adeguatamente, come una signorina rispettabile avrebbe fatto.

«Alexis, se metti quella maglietta cosa credi che penseranno le persone di te?» Mi girai di colpo, vedendo mia madre vicina al mio letto che mi fissava, tenendo le braccia incrociate minacciosamente sotto il seno. I suoi occhi verdi sembravano tirare mille saette nella mia direzione.
Mi specchiai, osservando la semplice maglietta a maniche corte che avevo acquistato al concerto dei Killers qualche mese prima: era grigia, con la foto della band ed un paio di scritte nere.
«Ma, mamma…» Dissi, voltandomi verso di lei. «…Che cosa cambia se metto questa maglietta oppure un’altra? Vado solo a vedermi un film a casa di Juliette.» Aggiunsi, accennando un leggero sorriso. Quella maglietta mi piaceva tantissimo: ricordavo ancora la foga con la quale l’avevo acquistata quando l’avevo vista in vendita in uno stand.
«Amore,…» Mia madre mi si avvicinò, sedendosi sul letto e facendomi cenno di mettermi vicina a lei. «…Se indossi quella maglietta, nessuno ti prenderà seriamente: sarai sempre quell’Alexis che si mette delle magliette da due soldi comprate alla bancarella; se invece indossi questa,» si alzò, aprendo il mio armadio e tirando fuori una semplice maglietta bianca smanicata con dei delicati dettagli argentati e delle perline intorno il collo «beh, se metti questa diranno: Alexis è davvero una ragazza per bene, rende molto fieri i genitori e sa comportarsi e vestirsi a modo.»
Deglutii, abbassando lo sguardo. Mia madre infondo aveva ragione: ricordavo bene cos’era successo a Mathilde Labourdette. Un anno prima, all’inizio delle scuole superiori, Mathilde aveva cominciato a praticare lo skateboard con dei ragazzi che vivevano a qualche isolato da casa sua. Le madri di tutte le mie compagne di classe avevano detto che un tale comportamento era inaccettabile per una ragazza che un giorno avrebbe voluto compiere il debutto nell’alta società. Da quel giorno, nessuno aveva mai invitato Mathilde a uscire: né per andare al cinema, né per una festa di compleanno, né per la cena di classe.
«D’accordo, mamma.» Mormorai, prendendo la maglietta che lei mi porgeva. Lei sorrise felice: quanto amavo vedere la felicità sul volto di mia madre, soprattutto in quel periodo in cui lei e mio padre non facevano altro che litigare tutto il tempo. Se indossare una maglietta anziché un’altra l’avrebbe resa felice, perché mai non avrei dovuto farlo?
«Ti voglio bene.» Mormorò con le labbra premute contro la mia fronte mentre mi baciava con dolcezza. «Fra venti minuti usciamo, così ti accompagno a casa dei De Bruyne.»

Chiusi gli occhi di colpo, portandomi una mano alla testa e sospirando. Lasciai scivolare il bicchiere di prosecco, che rimbalzò sul tappeto: mille spade sembravano trafiggere la mia testa ed il dolore mi fece strizzare gli occhi un paio di volte.
Il ricordo di mia madre scivolò via dai miei pensieri e mi trovai davanti quello specchio da sola, con Daphne davanti a me che aveva smesso di parlare. Aprii gli occhi e vidi il suo sguardo preoccupato candidamente posato su di me.
«Tutto bene?» Domandò, posando una mano sulla mia spalla. Guardai un’ultima volta lo specchio e poi spostai gli occhi su di lei, abbozzando un sorriso. No, non andava tutto bene.
«Sì, certo.» Mentii, sorridendo leggermente. «Ieri sera sono andata a dormire tardissimo e questa mattina ero su di giri e mi sono alzata presto.» Continuai, cercando di evitare di incrociare il suo sguardo inquisitore. «Bere di certo non mi ha aiutata.» Aggiunsi, ridacchiando nervosamente. «Infatti… Io ora andrei…»
«Ti chiamo un taxi?» Domandò prontamente, afferrandomi per un braccio prima che potessi allontanarmi. «Ti accompagno a cercare Jacques e gli dico di portarti a casa se ti senti poco bene.» Insisté.
«Non ti preoccupare.» Ripetei, cercando di mettere più convinzione nel mio tono di voce. «So cavarmela da sola.» Non ero certa di quanto fosse sincera quella come frase. «È stato un vero piacere conoscerti.»
Non so come mi allontanai da Dafne, da quell’appartamento.
Ricordo solo che mi precipitai fuori senza dire niente a Jacques, evitando lo sguardo di Blanche, che mi aveva attentamente analizzata durante la serata.
La voce di mia madre sembrava continuare a rimbombare nelle mie orecchie e la sua mano era come se fosse lì, sulla mia spalla, cercando di trattenermi nella casa di Gauthier Dupré.
Come era possibile che apparire appagasse più Jacques di essere?
Quali certezze potevano dare migliaia di bottiglie di champagne che un’amicizia sincera ed una relazione onesta non potevano?

Una goccia di pioggia cadde sulla punta del mio naso e alzai lo sguardo al cielo, lasciando che altre gocce cadessero sul mio viso, sui miei capelli. Improvvisamente sentii freddo nel mio cappotto e fu come se quel freddo riuscì a risvegliare ogni sensore del mio corpo.
Mi sentii nuovamente viva, come quella mattina, quando ero salita in moto con Théo.
Théo…
Per un momento desiderai ardentemente salire nuovamente su quella sella dietro di lui e domandargli di portarmi lontana, per farmi assaporare ancora la sensazione del vento che ti gela il viso e ti scompiglia i capelli.
Théo…
Desiderai un’altra colazione come quella che avevo fatto quella mattina.
Théo…
Desiderai essere uno spirito libero, libero da quelle regole, da quel finto bon ton.
Théo…
Così diverso da Jacques o, almeno, dal Jacques con cui avevo parlato quella sera, da quel Jacques spaventato di uscire dagli schemi, spaventato di aprirsi, spaventato di perdere l’appoggio della famiglia e delle persone di cui si era circondato chiamandole amici.

Tirai un sospiro di sollievo non appena lessi Ovington Street: ero riuscita ad arrivare a casa senza perdermi. Sorrisi leggermente, portandomi poi una mano alla tempia: sentivo le bollicine in ogni parte del mio corpo, che mi facevano tentennare.  Ecco perché non bevevo. Mi strinsi nel cappotto, mentre ogni ciocca dei miei capelli si appiattiva sul mio viso per la pioggia.
Entrai nel palazzo e salii al secondo piano, aprendo la porta principale dell’appartamento ed entrando nel caldo ed accogliente salone. Chiusi la porta alle mie spalle e mi poggiai con la schiena su di essa, respirando profondamente.
Per la prima volta in diciannove anni sentivo che, volendo, potevo scuotermi di dosso la Alexis che ero diventata per soddisfare le richieste della mia famiglia, della mia scuola. Potevo fare ciò che volevo, lontana da quelle odiose feste, lontana dai giudizi… Londra era immensa e c’era spazio per qualunque personalità, qualunque vestiario. Ci sarebbe stato spazio anche per me.

«Sei forse impazzita?» Alzai lo sguardo di scattò, sentendo quella voce, e mi ritrovai davanti lo stesso Théo a cui avevo tanto pensato, questa volta in pigiama. Aveva la voce rotta dal fiatone, i capelli scompigliati e gli occhi spalancati. Si fermò a due passi da me, afferrandomi per un braccio e costringendomi a guardarlo negli occhi. «Ripeto: sei impazzita?» Domandò nuovamente, alzando la voce.
«Io… Non urlare…» Boccheggiai e lui strinse di più il mio braccio. «La tua voce mi sta facendo frantumare ogni singola parte della testa…»
«Dio, puzzi di alcol: ma non avevi detto che non bevevi?» Lasciò andare il braccio con forza, facendomi quasi perdere l’equilibrio. «Come Diavolo ti è saltato in mente di tornare a casa di notte da sola?»
«Théo, viviamo dietro l’angolo.» Provai a giustificarmi ma lui quasi ringhiò, dandomi le spalle e mettendo le mani fra i capelli. «E… E poi che ne sai che io…»
«Viviamo dietro l’angolo questo cazzo, Alexis!» Urlò nuovamente. «Mi hai fatto preoccupare.» Aggiunse dopo un minuto, con voce più bassa. Poggiò le mani sulle ginocchia e si piegò, respirando profondamente per riprendere fiato. «Mi ha telefonato Daphne, dicendo che hai avuto un capogiro, sei sbiancata e te ne sei andata, dicendo che avresti chiamato un taxi. È evidente che tu non abbia preso un taxi considerando come ti sia ridotta e quanto tempo tu ci abbia messo.» Spiegò, lanciandomi un’occhiataccia. «Porca miseria, rompi i coglioni per ogni cosa che ti venga detta o fatta e non ti preoccupi per un solo cazzo di momento che ti possa succedere qualcosa se esci da sola per strada?»
«Scusami.» Mormorai semplicemente: era realmente preoccupato. Lo percepivo dalla sua voce spezzata, dalle sue mani tremanti, dai suoi occhi spalancati. Lui alzò lo sguardo e mi guardò con una tale intensità da farmi tremare le ginocchia. «Non volevo farti preoccupare.» Aggiunsi sincera. «A dire il vero non credevo che di potesse interessare.»
Lui tornò a mettersi dritto in piedi e mi guardò dall’alto della sua statura.
Restammo lì, in salone, a guardarci per qualche lungo istante.
Théo restò immobile ad osservarmi: aveva le labbra schiuse, la testa piegata da un lato, quasi a voler scoprire un difetto d’autore in un quadro. Il suo sguardo era indecifrabile, come tutti gli sguardi che mi aveva rivolto nelle ultime ventiquattro ore. Era come se avesse migliaia di cose da dirmi ma non riuscisse a dirne neanche mezza, neanche per sbaglio.
«Non volevo gridarti contro.» Disse dopo qualche interminabile minuto. Non risposi, limitandomi a stringermi nel cappotto, ancora totalmente bagnata ed impaurita. «Cos’è successo alla festa? Non è da Jacques perdere di vista qualcuno che gli interessa…»
«Io… Io gli ho ricordato che non siamo sempre stati così falsi.» Mormorai, abbassando lo sguardo leggermente in imbarazzo. Lui inarcò le sopracciglia, sorpreso e al contempo incuriosito da quella frase. «Mi ha detto che non vale la pena essere realmente se stessi… Uscire dal giro… Il gioco non vale la candela
Arrivò un altro capogiro e sentii le ginocchia tremare. Chiusi gli occhi ed il braccio di Théo mi sorresse prontamente. Riaprii gli occhi, incrociando i suoi, preoccupati, che mi guardavano.
«Ti porto in camera, devi ripos…» Provò a dire ma io scossi la testa, posando le mani sulle sue, guardandolo dritto negli occhi in un momento di lucidità. Odiavo il prosecco.
«Aiutami.» Mormorai. «Aiutami a uscirne.» Aggiunsi.
Lui mi guardò, schiudendo le labbra e guardandomi sorpreso. Non domandò da cosa volessi uscire, lo capì senza ulteriori spiegazioni, come aveva capito ogni cosa che era trapelata dai miei sguardi, dai miei sorrisi in silenzio dal momento in cui ci eravamo conosciuti.
Per l’ennesima volta mi aveva letta come un libro aperto, e per la prima volta non ne ebbi paura.
Era come se entrambi stessimo cercando di capire i motivi che avevano spinto a me a fargli quella richiesta e quegli che avevano spinto lui ad affannarsi e preoccuparsi per me a cause di un pericolo apparentemente inesistente.
La verità è che io volevo essere salvata da lui, salvata in ogni modo da quel mare che mi stava tirando giù da una vita e di cui avevo preso coscienza solo incontrandolo. Volevo essere salvata da lui, fatta sedere sulla sua moto e portata a respirare l’aria piena di vita che lui respirava ogni giorno. Volevo essere salvata da lui, non quella sera dalle strade di Londra, ma sempre… da quella che avevo fatto diventare la mia vita, la mia quotidianità.
Volevo imparare a fregarmene del mondo, a fregarmene della voce di mia madre, della sua costante presenza accanto a me.

Lo seguii nella sua stanza: inizialmente mi guardò curiosamente, quando varcai la soglia della sua camera, ma poi si limitò a sorridere leggermente. La stanza di Théo era grande più o meno quanto la mia, ma le sue pareti erano decisamente più colme di quelle della mia camera. Le due pareti libere erano interamente ricoperte di fotografie: grandi, piccole, fototessere. Quelle pareti sembravano esplodere di ricordi, di sorrisi.
Mi strinsi nel cappotto freddo, non riuscendo distogliere lo sguardo dai tramonti, dalle montagne, dalle acque cristalline immortalate in quelle centinaia su centinaia di scatti che rendevano quella stanza così sua.
«Le hai scattate tu?» Domandai, rompendo il silenzio che avevamo lasciato calare quando eravamo ancora per strada, dopo che mi aveva salvata. «Sono belle.» Aggiunsi, per smorzare la tensione che si era creata.
«Non tutte.» Disse semplicemente, abbozzando un sorriso. «Molte le ha scattate mia sorella.»

Lo osservai mentre tornava ad avvicinarsi silenziosamente a me, sbottonando i bottoni del mio cappotto bagnato e poggiandolo su una sedia. Quel gesto premuroso mi fece rabbrividire e ci ritrovammo nuovamente ammutoliti , quasi in attesa che uno dei due dicesse o facesse qualcosa che potesse spiegare come ci fossimo ritrovati in quella situazione così assurda ed inaspettata per entrambi. Un momento prima ero a casa di Gauthier Dupré ed un attimo dopo ero in camera di Théo, attratta a lui da un fiume di silenziose parole che sembrava essere fra di noi a dividerci.
«Grazie.» Mormorai, affrontando nuovamente il suo sguardo, intimidita. «Io… Vado a dormire ora.» Aggiunsi, abbozzando appena un sorriso.
Improvvisamente mi sentii piccola e stupida davanti a lui.
Mi sentii un’idiota ad avergli fatto quella richiesta, ad essermi mostrata così fragile ai suoi occhi.
Mi voltai di colpo, ben decisa ad andare nella mia stanza e rimanerci, quando sentii la mano di Théo stringersi intorno al mio polso.
«Resta.»




E mi salvò.

  
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