L’appartement Français
Chapitre 3:
Affogare
Le feste dell’alta società erano sempre apparse vagamente
ripetitive ai miei occhi. Se ci si soffermava per un solo istante a osservare
le dinamiche che si evolvevano nel corso di una qualsiasi serata di quel tipo,
ci si sarebbe potuti prontamente accorgere di alcune costanti. Innanzitutto,
tutti tendevano a essere vestiti uguali: le ragazze prediligevano vestiti o
gonne lunghe fino a metà coscia, mentre i ragazzi portavano solitamente dei
jeans, una camicia, un maglione e delle scarpe “sportivamente eleganti” –
questo era il modo in cui io, perlomeno, le definivo. La seconda costante che
avevo appuntato nel corso di diversi anni passati a frequentare quegli
avvenimenti era che si bevevano soprattutto – ma non soltanto – bevande con
molte bollicine: acqua frizzante –
categoricamente francese –, prosecco, spumante, e champagne. Le altre bevande
erano bene accette, ovviamente, ma a patto che fossero di eccelsa qualità. La
terza ed ultima costante era che, quelle feste, dovessero somigliare
maggiormente ad un ricevimento che ad
un party vero e proprio: tutti erano
soliti stare in gruppetti a chiacchierare, sorseggiando un bicchiere di Dom
Perignon e raccontandosi le loro ultime giornate passate a cacciare in
campagna.
Crescendo, avevo pensato che quei ricevimenti sarebbero degenerati, un giorno,
in feste colossali con fiumi di alcol e droghe, dove le persone si sarebbero
sciolte un po’, avrebbero ballato e si sarebbero realmente divertite. Però, ciò
che ero finita invece col notare, era che, malgrado molte serate fossero finite
in discoteche fra i famosi fiumi di alcol,
le dinamiche, le gerarchie ed i comportamenti rimanevano immutati. Le persone
si atteggiavano sempre nello stesso modo, le ragazze ti si rivolgevano sempre
con una determinata intonazione ed una buona dose di falsità: solo la location
cambiava.
«Eccoti qui.» Jacques comparve davanti a me con un largo sorriso e mi porse un
bicchiere colmo fino all’orlo di bollicine. «Scusa se ci ho messo tanto ma
stavo salutando alcune persone.» Aggiunse.
«Grazie.» Mormorai, prendendo il calice e annusandolo: come previsto, prosecco.
«Ho visto un bel po’ di persone che vedo spesso girare a Parigi.» Aggiunsi,
guardandomi intorno per un’altra volta.
«Te l’ho detto che ti saresti sentita a casa.» Mi sorrise, carezzandomi poi
leggermente il braccio destro come per confortarmi. Deglutii, forzando un
sorriso. «Devo presentarti tante persone non appena arrivano tutti.»
«Non… Non hai mai pensato di voler cambiare giro di amici, dopo che ti sei trasferito
qui a Londra?» Domandai, alzando gli occhi dal liquido frizzantino nel mio
calice che avevo fissato attentamente fino a quel momento. Lui mi guardò
confuso per un istante, prima di abbassare lo sguardo a sua volta, sorridendo
appena.
«Per un momento, sì…» Deglutì, mandando poi giù un sorso di prosecco. «…Conobbi
altre persone all’università e le frequentai.» Continuò, passandosi una mano
fra i capelli. «Mi fidanzai anche con una ragazza, Jenny, e tutto sembrava
andare alla grande.» Si fermò, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra
vicino alla quale eravamo in piedi.
«Cos’è successo?» Insistei, guardandolo negli occhi.
«Niente di che: uscii a cena con lei e Valentin – l’immagine di Valentin, il
fratello maggiore di Jacques si materializzò nella mia mente – e… capii che
c’erano troppe differenze tra il mondo come lo vedeva lei ed il mondo come lo
vedevo io...» Si strinse nelle spalle. «Mi accorsi che io ero cresciuto avendo
delle aspettative, dei determinati parametri per approcciare il mondo… Lei invece
era più uno spirito libero: non le
importava di cosa pensava la gente di lei, di cosa avrebbe fatto fra qualche
anno… Non capiva come me e te che ciò che facciamo oggi può darci o
meno la possibilità di fare determinate cose in futuro…»
Non capiva quanto fosse importante apparire
per far parte di un certo mondo.
Pensai, ma non osai dire quelle parole ad alta voce.
Guardai Jacques, lì davanti a me che gesticolava nervosamente mentre parlava di
Jenny ed il mio pensiero volò a Théo, un altro spirito libero come la ragazza che Jacques aveva lasciato andare
via, perché inadeguata per soddisfare
pienamente i requisiti dell’alta società per essere accettata.
«…Così, grazie a Valentin, ho riallacciato i rapporti con vecchi compagni di
classe di Parigi che vivevano a Londra e… Mi sono sentito di nuovo a casa, al
sicuro, fra persone che capivano quanto fosse bello prendere un aereo per
passare un solo weekend in Costa Azzurra e quanto fosse appagante frequentare i
bei locali dove sanno la differenza
fra Dom Perignon e uno champagne da due soldi.»
Apparire.
Bisognava frequentare i posti giusti, le persone giuste.
Bisognava bere la cosa giusta al momento giusto, andare nelle città giuste nel
momento giusto.
Bisognava vestirsi a modo, parlare a modo, sorridere a modo.
Distinguersi sarebbe stato troppo,
troppo sbagliato.
«Non ci credo che ti faccia schifo la colazione inglese.» Sbottai, guardandolo
dritto negli occhi. «Non ci credo che non ti piaccia vivere come una persona libera e fare tutto quello che vuoi
quando vuoi.» Abbassai la voce, accorgendomi che un paio di teste si erano
voltate alle parole ‘colazione inglese’. «Io e te impazzivamo per la robaccia
fritta che vendevano a dietro Nôtre Dame la domenica mattina: la andavamo a
prendere sempre di nascosto, facendo finta di andare ad un bar a fare
colazione, così che i nostri genitori non si scandalizzassero dal fatto che
potessimo frequentare certi postacci.» Continuai. «Ti ricordi cosa mi
dicesti a Porto Vecchio una mattina mentre guardavamo l’alba? Che non saremmo
mai diventati come i nostri genitori. Io lo so che a te, Jacques Delacroix, una
bella colazione inglese farebbe impazzire: è piaciuta anche a me!»
Jacques alzò lo sguardo, mortificato.
Le sue goti si erano arrossate e le sue labbra si erano piegate in un sorriso
indecifrabile, sospeso a metà fra l’amarezza e la felicità. Era come se per un
momento avesse ricordato le persone che eravamo stati insieme e al contempo
cercasse di respingere quei ricordi che stavano venendo a galla.
«Credo che il bacon sia una fra le sette meraviglie gastronomiche dei nostri
giorni.» Ammise, mordendosi leggermente il labbro inferiore. «E quella robaccia
fritta di Nôtre Dame dovrebbe essere segnalata su Trip Advisor.» Continuò. «E me la ricordo quella serata a Porto
Vecchio, lo sai che non potrei mai
dimenticarla.» Abbassai lo sguardo, arrossendo a quel tenero ricordo. «Ma,
Alexis…» Deglutì, posando il calice su un tavolo al nostro fianco, per poi
posare entrambe le mani sulle mie guance con dolcezza, facendo un passo nella mia
direzione. «Ricorda una cosa, sempre: il
gioco non vale la candela.» Mi guardò negli occhi, mentre io continuavo a
fissarlo col respirò spezzato, sconvolta per quel gesto così veloce ed
inaspettato. «Ricordatelo sempre.» Ripeté, tornando a fare un passo indietro,
prendendo il calice e mandando giù il restante prosecco giù tutto in un colpo.
Il gioco non vale la candela.
Quella frase cominciò a tuonare nella mia mente, mentre le mie orecchie
sembravano cominciare a fischiare e la mia vista ad annerirsi. Avevo mille
domande da fargli, volevo domandargli cosa intendesse realmente, volevo sapere
di Théo… Volevo sapere talmente tante cose che non sapevo neanche da dove
cominciare, in realtà. Lui prese la mia mano, impedendomi di formulare altri
pensieri, e senza che potessi oppormi, mi portò verso un gruppo di persone che
mi presentò.
Il suo volto era rilassato, tranquillo: non portava una singola piega di ciò
che era appena successo, di ciò che aveva appena detto.
Perché allora mi sembrava che dentro di me fosse esplosa una bomba?
«Alexis, hai già conosciuto Blanche. Questo è suo fratello Gauthier, è lui che
ha organizzato questa festicciola.» Alzai lo sguardo ed incrociai quello di un
ragazzo biondo dagli occhi chiari.
«Finalmente ho il piacere di conoscerti.» Mi porse la mano. «Sono contenta che
tu sia qui e non in un qualche angolo di Camden Town.» Quella frecciatina venne
recepita da ogni mio sensore all’erta: cercai di non scompormi, ripetendo a me
stessa il mantra ‘apparire, apparire,
apparire’. Sorrisi e strinsi la sua mano.
«Come potrei mai preferire un posto colorato come Camden Town a questa
esplosione di allegria di una festa.» Dissi, guardandolo dentro negli occhi.
Touché.
Non capii se avesse colto il velato
sarcasmo nella mia voce ma, ovviamente, neanche Gauthier si scompose
minimamente, senza distogliere lo sguardo da me, sciolse la presa della mano e
la posò sul braccio di Jacques.
«Spero di vedervi entrambi alla fine
di settembre, per cominciare per bene la sessione di caccia autunnale.» Solo a
quelle ultime due parole spostò lo sguardo sul mio accompagnatore, senza
privarlo ovviamente di un ampio sorriso.
Bevi? No.
La voce di Théo si accavallò con la mia fra i miei pensieri, mentre buttavo giù
un altro sorso dell’ennesimo bicchiere di prosecco che mi ero ritrovata casualmente fra le mani.
No, non avevo mai bevuto più di un bicchiere in vita mia, non gli avevo
mentito. Perché allora non riuscivo a mettere giù quel calice quella sera?
«Tu devi essere Alexis.» Una voce femminile a me sconosciuta mi fece sobbalzare
e per poco non rovesciai il contenuto del calice a terra. Finalmente posai il
bicchiere, poggiandolo su un tavolo non molto distante da me, mentre la ragazza
dai capelli corvini mi seguiva, guardandomi incuriosita.
«Ci conosciamo?» Domandai, ancora troppo sconvolta dalle parole di Jacques per
mettermi una maschera di falsità. La ragazza non si scompose minimamente,
continuando a fissarmi con i suoi occhi verdi.
«No, ma ho sentito Blanche parlare di te oggi pomeriggio e corrispondi perfettamente
alla sua descrizione.» Disse con una scrollata di spalle come se fosse la cosa
più normale al mondo. «Io sono Daphne.» Mi porse la mano, non scollandosi di
dosso quel sorriso a trentadue denti.
«Mh… Piacere.» Mormorai, stringendo la sua mano. «Io sono Alexis, ma
questo già lo sai.» Aggiunsi,
guardandomi per un momento intorno come se temessi che altre dieci Daphne
potessero precipitarsi per osservarmi.
«Blanche ha quasi avuto un infarto quando ti ha vista scendere dalla moto di
Théophile.» Non ne voleva proprio sapere di smettere di sorridere, vero? «Come
sta quel vecchio sciroccato?» Domandò poi, guardandomi curiosamente.
Boccheggiai, essendomi aspettata tutto ma non quella domanda. Entrando in quella casa ero stata sicura sin
dall’inizio che nessuno avrebbe osato nominare Théo se non per criticarlo o per
dirmi di starne alla larga… Quella domanda, fatta con così tanta sincera
premura, mi spiazzò.
«Bene
Bene, immagino… Io… Non è che lo conosca molto… Forse dovresti chiederlo
a Jacques…» Tentennai, mentre lei scuoteva la testa, sorridente.
«Mi ero dimenticata che tu fossi arrivata solo ieri sera: non sai proprio un
accidente, vero?» Ridacchiò, quasi compiaciuta di avermi fatta imbarazzare di nuovo. «Jacques non sa nulla di
Théo.» Disse semplicemente. «Vivono, vivete
insieme, ma è Théo che para il culo a
Jacques, non viceversa… Hanno un rapporto strano, giocano alla playstation
insieme, ma… Non sono né amici né nemici… Si trovano bene a vivere insieme
perché Jacques non invade gli spazi di Théo e Théo ha sempre ripagato Jacques
per quello che gli ha fatto passare quando si è inimicato mezza Londra,
proteggendolo.»
«Io non capisco.» Mormorai e Daphne ridacchiò, scuotendo i corti capelli neri.
«L’unica cosa che devi sapere è che ti sei trasferita nell’appartamento più
folle in cui io abbia mai messo piede.» Grazie
per l’incoraggiamento, pensai. «Io, comunque, sono la cugina di Théophile e
la ex fidanzata di João, il ragazzo
che tu hai sostituito.» Ecco, ora era tutto chiaro: era il legame di sangue che
la portava a chiedermi di Théo!
«Ehm… Mi dispiace… So che è tornato in Portogallo.» Abbozzai un sorriso ma lei,
nuovamente, non si scompose minimamente.
«Guarda, Alexis, dispiace più a me per te, considerando il sesso che ho fatto
in camera tua.» Sbarrai gli occhi e lei scoppiò a ridere, passandomi un braccio
intorno alle spalle con un ampio sorriso stampato sulle labbra. «Vorrei
consolarti dicendo il solito ‘sto
scherzando’, ma ero serissima, purtroppo per te e per fortuna per me.»
Cominciavo a vedere la somiglianza fra lei e Théo.
Decisamente.
Jacques mi evitò come la peste per il resto della serata. Ero convinta che una
parte di lui, quella nascosta chissà dove e che io avevo conosciuto da bambina,
era stata toccata dalle mie parole.
Mentre Daphne mi raccontava di lei e delle persone che ci circondavano,
facendomi anche ridere, io seguivo con lo sguardo la figura di Jacques muoversi
da un gruppo all’altro di persone.
Era così sicuro e convinto nei panni che vestiva. Se mia madre avesse avuto una
lista di caratteristiche che doveva avere il ragazzo modello, ero sicura che lui le avrebbe soddisfatte
pienamente tutte.
Era garbato, elegante, sorridente: ascoltava con attenzione e premura, parlava
a voce né troppo alta né troppo bassa, scandiva bene le parole, non teneva le
braccia incrociate al petto, annuiva, si mostrava interessato. Eppure, più lo
continuavo a guardare, più mi domandavo quanti di quei comportamenti fossero
veri, sinceri, fatti spontaneamente e non perché l’etichetta lo avesse portato
a farli.
Il gioco non vale la candela.
Pensai a come Jacques era uscito con quella ragazza, Jenny: lo aveva detto lui
stesso che era stato tutto perfetto e naturale finché non si erano confrontati
con Valentin, perfetto rappresentante dell’alta società borghese troppo
impegnata a scegliere la giusta annata del vino per fare attenzione alle
piccole cose quotidiane.
Eppure, per quanto lei lo facesse stare bene, non era abbastanza per sostituire
quanto apparire in quel giro di
persone potesse dare.
In poche parole, la felicità dell’essere non avrebbe mai comparato i benefici
dell’apparire? Com’era possibile?
Guardai il mio riflesso in un piccolo specchio appeso su una parete: i miei
capelli castani erano legati in un’elegante mezza coda; il mio viso era
truccato leggermente ed illuminato dalle perle che portavo come orecchini. Per
un momento riuscii a scorgere i lineamenti di mia madre, sovrapposti ai miei,
che mi dicevano che, quel giorno, mi ero vestita adeguatamente, come una signorina rispettabile avrebbe fatto.
«Alexis,
se metti quella maglietta cosa credi che penseranno le persone di te?» Mi girai
di colpo, vedendo mia madre vicina al mio letto che mi fissava, tenendo le
braccia incrociate minacciosamente sotto il seno. I suoi occhi verdi sembravano
tirare mille saette nella mia direzione.
Mi specchiai, osservando la semplice maglietta a maniche corte che avevo
acquistato al concerto dei Killers qualche mese prima: era grigia, con la foto
della band ed un paio di scritte nere.
«Ma, mamma…» Dissi, voltandomi verso di lei. «…Che cosa cambia se metto questa
maglietta oppure un’altra? Vado solo a vedermi un film a casa di Juliette.»
Aggiunsi, accennando un leggero sorriso. Quella maglietta mi piaceva
tantissimo: ricordavo ancora la foga con la quale l’avevo acquistata quando
l’avevo vista in vendita in uno stand.
«Amore,…» Mia madre mi si avvicinò, sedendosi sul letto e facendomi cenno di
mettermi vicina a lei. «…Se indossi quella maglietta, nessuno ti prenderà
seriamente: sarai sempre quell’Alexis che si mette delle magliette da due soldi
comprate alla bancarella; se invece indossi questa,» si alzò, aprendo il mio
armadio e tirando fuori una semplice maglietta bianca smanicata con dei
delicati dettagli argentati e delle perline intorno il collo «beh, se metti questa
diranno: Alexis è davvero una ragazza per bene, rende molto fieri i genitori e
sa comportarsi e vestirsi a modo.»
Deglutii, abbassando lo sguardo. Mia madre infondo aveva ragione: ricordavo
bene cos’era successo a Mathilde Labourdette. Un anno prima, all’inizio delle
scuole superiori, Mathilde aveva cominciato a praticare lo skateboard con dei
ragazzi che vivevano a qualche isolato da casa sua. Le madri di tutte le mie
compagne di classe avevano detto che un tale comportamento era inaccettabile
per una ragazza che un giorno avrebbe voluto compiere il debutto nell’alta
società. Da quel giorno, nessuno aveva mai invitato Mathilde a uscire: né per
andare al cinema, né per una festa di compleanno, né per la cena di classe.
«D’accordo, mamma.» Mormorai, prendendo la maglietta che lei mi porgeva. Lei
sorrise felice: quanto amavo vedere la felicità sul volto di mia madre,
soprattutto in quel periodo in cui lei e mio padre non facevano altro che
litigare tutto il tempo. Se indossare una maglietta anziché un’altra l’avrebbe
resa felice, perché mai non avrei dovuto farlo?
«Ti voglio bene.» Mormorò con le labbra premute contro la mia fronte mentre mi
baciava con dolcezza. «Fra venti minuti usciamo, così ti accompagno a casa dei
De Bruyne.»
Chiusi gli occhi di colpo,
portandomi una mano alla testa e sospirando. Lasciai scivolare il bicchiere di
prosecco, che rimbalzò sul tappeto: mille spade sembravano trafiggere la mia
testa ed il dolore mi fece strizzare gli occhi un paio di volte.
Il ricordo di mia madre scivolò via dai miei pensieri e mi trovai davanti
quello specchio da sola, con Daphne davanti a me che aveva smesso di parlare.
Aprii gli occhi e vidi il suo sguardo preoccupato candidamente posato su di me.
«Tutto bene?» Domandò, posando una mano sulla mia spalla. Guardai un’ultima
volta lo specchio e poi spostai gli occhi su di lei, abbozzando un sorriso. No, non andava tutto bene.
«Sì, certo.» Mentii, sorridendo leggermente. «Ieri sera sono andata a
dormire tardissimo e questa mattina ero su di giri e mi sono alzata presto.»
Continuai, cercando di evitare di incrociare il suo sguardo inquisitore. «Bere
di certo non mi ha aiutata.» Aggiunsi, ridacchiando nervosamente. «Infatti… Io
ora andrei…»
«Ti chiamo un taxi?» Domandò prontamente, afferrandomi per un braccio prima che
potessi allontanarmi. «Ti accompagno a cercare Jacques e gli dico di portarti a
casa se ti senti poco bene.» Insisté.
«Non ti preoccupare.» Ripetei, cercando di mettere più convinzione nel mio tono
di voce. «So cavarmela da sola.» Non ero certa di quanto fosse sincera
quella come frase. «È stato un vero piacere conoscerti.»
Non so come mi allontanai da Dafne, da quell’appartamento.
Ricordo solo che mi precipitai fuori senza dire niente a Jacques, evitando lo
sguardo di Blanche, che mi aveva attentamente analizzata durante la serata.
La voce di mia madre sembrava continuare a rimbombare nelle mie orecchie e la
sua mano era come se fosse lì, sulla mia spalla, cercando di trattenermi nella
casa di Gauthier Dupré.
Come era possibile che apparire appagasse
più Jacques di essere?
Quali certezze potevano dare migliaia di bottiglie di champagne che un’amicizia
sincera ed una relazione onesta non potevano?
Una goccia di pioggia cadde sulla punta del mio naso e alzai lo sguardo al
cielo, lasciando che altre gocce cadessero sul mio viso, sui miei capelli.
Improvvisamente sentii freddo nel mio cappotto e fu come se quel freddo riuscì
a risvegliare ogni sensore del mio corpo.
Mi sentii nuovamente viva, come
quella mattina, quando ero salita in moto con Théo.
Théo…
Per un momento desiderai ardentemente salire nuovamente su quella sella dietro
di lui e domandargli di portarmi lontana, per farmi assaporare ancora la
sensazione del vento che ti gela il viso e ti scompiglia i capelli.
Théo…
Desiderai un’altra colazione come quella che avevo fatto quella mattina.
Théo…
Desiderai essere uno spirito libero,
libero da quelle regole, da quel finto bon
ton.
Théo…
Così diverso da Jacques o, almeno, dal Jacques con cui avevo parlato quella
sera, da quel Jacques spaventato di uscire dagli schemi, spaventato di aprirsi,
spaventato di perdere l’appoggio della famiglia e delle persone di cui si era
circondato chiamandole amici.
Tirai un sospiro di sollievo
non appena lessi Ovington Street: ero
riuscita ad arrivare a casa senza perdermi. Sorrisi leggermente, portandomi poi
una mano alla tempia: sentivo le bollicine in ogni parte del mio corpo, che mi
facevano tentennare. Ecco perché non
bevevo. Mi strinsi nel cappotto, mentre ogni ciocca dei miei capelli si
appiattiva sul mio viso per la pioggia.
Entrai nel palazzo e salii al secondo piano, aprendo la porta principale
dell’appartamento ed entrando nel caldo ed accogliente salone. Chiusi la porta
alle mie spalle e mi poggiai con la schiena su di essa, respirando
profondamente.
Per la prima volta in diciannove anni sentivo che, volendo, potevo scuotermi di
dosso la Alexis che ero diventata per soddisfare le richieste della mia
famiglia, della mia scuola. Potevo fare ciò che volevo, lontana da quelle
odiose feste, lontana dai giudizi… Londra era immensa e c’era spazio per
qualunque personalità, qualunque vestiario. Ci sarebbe stato spazio anche per me.
«Sei forse impazzita?» Alzai lo sguardo di scattò, sentendo quella voce, e mi
ritrovai davanti lo stesso Théo a cui avevo tanto pensato, questa volta in
pigiama. Aveva la voce rotta dal fiatone, i capelli scompigliati e gli occhi
spalancati. Si fermò a due passi da me, afferrandomi per un braccio e
costringendomi a guardarlo negli occhi. «Ripeto: sei impazzita?» Domandò
nuovamente, alzando la voce.
«Io… Non urlare…» Boccheggiai e lui strinse di più il mio braccio. «La tua voce
mi sta facendo frantumare ogni singola parte della testa…»
«Dio, puzzi di alcol: ma non avevi detto che non bevevi?» Lasciò andare il
braccio con forza, facendomi quasi perdere l’equilibrio. «Come Diavolo ti è
saltato in mente di tornare a casa di notte da sola?»
«Théo, viviamo dietro l’angolo.» Provai a giustificarmi ma lui quasi ringhiò, dandomi
le spalle e mettendo le mani fra i capelli. «E… E poi che ne sai che io…»
«Viviamo dietro l’angolo questo cazzo,
Alexis!» Urlò nuovamente. «Mi hai fatto preoccupare.» Aggiunse dopo un minuto,
con voce più bassa. Poggiò le mani sulle ginocchia e si piegò, respirando
profondamente per riprendere fiato. «Mi ha telefonato Daphne, dicendo che hai
avuto un capogiro, sei sbiancata e te ne sei andata, dicendo che avresti
chiamato un taxi. È evidente che tu non abbia preso un taxi considerando come
ti sia ridotta e quanto tempo tu ci abbia messo.» Spiegò, lanciandomi
un’occhiataccia. «Porca miseria, rompi i coglioni
per ogni cosa che ti venga detta o fatta e non ti preoccupi per un solo cazzo di momento che ti possa succedere
qualcosa se esci da sola per strada?»
«Scusami.» Mormorai semplicemente: era realmente preoccupato. Lo percepivo
dalla sua voce spezzata, dalle sue mani tremanti, dai suoi occhi spalancati.
Lui alzò lo sguardo e mi guardò con una tale intensità da farmi tremare le
ginocchia. «Non volevo farti preoccupare.» Aggiunsi sincera. «A dire il vero
non credevo che di potesse interessare.»
Lui tornò a mettersi dritto in piedi e mi guardò dall’alto della sua statura.
Restammo lì, in salone, a guardarci per qualche lungo istante.
Théo restò immobile ad osservarmi: aveva le labbra schiuse, la testa piegata da
un lato, quasi a voler scoprire un difetto d’autore in un quadro. Il suo
sguardo era indecifrabile, come tutti gli sguardi che mi aveva rivolto nelle
ultime ventiquattro ore. Era come se avesse migliaia di cose da dirmi ma non
riuscisse a dirne neanche mezza, neanche per sbaglio.
«Non volevo gridarti contro.» Disse dopo qualche interminabile minuto. Non
risposi, limitandomi a stringermi nel cappotto, ancora totalmente bagnata ed
impaurita. «Cos’è successo alla festa? Non è da Jacques perdere di vista
qualcuno che gli interessa…»
«Io… Io gli ho ricordato che non siamo sempre stati così falsi.» Mormorai, abbassando lo sguardo leggermente in imbarazzo.
Lui inarcò le sopracciglia, sorpreso e al contempo incuriosito da quella frase.
«Mi ha detto che non vale la pena essere realmente se stessi… Uscire dal giro… Il
gioco non vale la candela.»
Arrivò un altro capogiro e sentii le ginocchia tremare. Chiusi gli occhi ed il
braccio di Théo mi sorresse prontamente. Riaprii gli occhi, incrociando i suoi,
preoccupati, che mi guardavano.
«Ti porto in camera, devi ripos…» Provò a dire ma io scossi la testa, posando
le mani sulle sue, guardandolo dritto negli occhi in un momento di lucidità. Odiavo il prosecco.
«Aiutami.» Mormorai. «Aiutami a uscirne.» Aggiunsi.
Lui mi guardò, schiudendo le labbra e guardandomi sorpreso. Non domandò da cosa
volessi uscire, lo capì senza ulteriori spiegazioni, come aveva capito ogni
cosa che era trapelata dai miei sguardi, dai miei sorrisi in silenzio dal
momento in cui ci eravamo conosciuti.
Per l’ennesima volta mi aveva letta come un libro aperto, e per la prima volta
non ne ebbi paura.
Era come se entrambi stessimo cercando di capire i motivi che avevano spinto a me
a fargli quella richiesta e quegli che avevano spinto lui ad affannarsi e
preoccuparsi per me a cause di un pericolo apparentemente inesistente.
La verità è che io volevo essere salvata da lui, salvata in ogni modo da
quel mare che mi stava tirando giù da una vita e di cui avevo preso coscienza
solo incontrandolo. Volevo essere salvata da lui, fatta sedere sulla sua moto e
portata a respirare l’aria piena di vita
che lui respirava ogni giorno. Volevo essere salvata da lui, non quella sera
dalle strade di Londra, ma sempre… da quella che avevo fatto diventare la mia
vita, la mia quotidianità.
Volevo imparare a fregarmene del mondo, a fregarmene della voce di mia madre,
della sua costante presenza accanto a me.
Lo seguii nella sua stanza: inizialmente mi guardò curiosamente, quando varcai
la soglia della sua camera, ma poi si limitò a sorridere leggermente. La stanza
di Théo era grande più o meno quanto la mia, ma le sue pareti erano decisamente
più colme di quelle della mia camera. Le due pareti libere erano interamente
ricoperte di fotografie: grandi, piccole, fototessere. Quelle pareti sembravano
esplodere di ricordi, di sorrisi.
Mi strinsi nel cappotto freddo, non riuscendo distogliere lo sguardo dai
tramonti, dalle montagne, dalle acque cristalline immortalate in quelle
centinaia su centinaia di scatti che rendevano quella stanza così sua.
«Le hai scattate tu?» Domandai, rompendo il silenzio che avevamo lasciato
calare quando eravamo ancora per strada, dopo che mi aveva salvata. «Sono belle.» Aggiunsi, per smorzare la tensione che si
era creata.
«Non tutte.» Disse semplicemente, abbozzando un sorriso. «Molte le ha scattate
mia sorella.»
Lo osservai mentre tornava ad
avvicinarsi silenziosamente a me, sbottonando i bottoni del mio cappotto
bagnato e poggiandolo su una sedia. Quel gesto premuroso mi fece rabbrividire e
ci ritrovammo nuovamente ammutoliti , quasi in attesa che uno dei due dicesse o
facesse qualcosa che potesse spiegare come ci fossimo ritrovati in quella
situazione così assurda ed inaspettata per entrambi. Un momento prima ero a
casa di Gauthier Dupré ed un attimo dopo ero in camera di Théo, attratta a lui
da un fiume di silenziose parole che sembrava essere fra di noi a dividerci.
«Grazie.» Mormorai, affrontando nuovamente il suo sguardo, intimidita. «Io…
Vado a dormire ora.» Aggiunsi, abbozzando appena un sorriso.
Improvvisamente mi sentii piccola e stupida davanti a lui.
Mi sentii un’idiota ad avergli fatto quella richiesta, ad essermi mostrata così
fragile ai suoi occhi.
Mi voltai di colpo, ben decisa ad andare nella mia stanza e rimanerci, quando
sentii la mano di Théo stringersi intorno al mio polso.
«Resta.»
E mi salvò.