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Autore: Hika86    22/08/2013    1 recensioni
Il Giappone è in subbuglio: le guerre si incrociano sul territorio, i potenti si alleano e si tradiscono ogni giorno, l'amico che ti ha sempre difeso, un giorno potrebbe pugnalarti alle spalle, coloro che ti sostengono potrebbero non farlo la vota successiva e d'improvviso chi ami oggi, domani potrebbe essere il nemico...
Ora, in tutto questo casino: io che ci faccio qui?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazunari Ninomiya , Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Si dice che nei nostri ultimi attimi, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi tutta la nostra vita. Balle.
Se state tirando le cuoia nel nostro comodo lettuccio potrebbe anche darsi, ma se stanno per ammazzarvi senza preavviso no, credete a me. In realtà non so a cosa ho pensato in quel momento, ma sicuramente niente di complesso, anche perché certe cose accadono tanto rapidamente che non fai tempo a pensare “merda!” e succedono altre tre cose diverse.
Sono qui a scrivere, quindi è logico che non sono morto. Non era la mia ora, per fortuna, ma in quel momento gli occhi della persona davanti a me non contenevano quella promessa di sopravvivenza, quindi è possibile che io abbia pensato proprio “merda!”. Non è questo gran pensiero per essere l’ultimo della propria vita, dev’essere per quello si racconta di veder scorrere la propria vita: è più poetico. Del mio avversario vedevo solo lo sguardo, il resto del viso e del corpo era nascosto dall’indumento scuro che lo avvolgeva. Ma anche se gli leggevo nelle pupille il desiderio di uccidermi, non lo fece: calciò senza alcuna pietà il corpo del morto che mi stava in grembo per levarmelo di dosso, quindi mi puntò la lama al petto. «In piedi» mi intimò. Alle sue spalle un collega, imbacuccato di nero anche lui, lo difendeva da un attacco.
Mi alzai lasciando cadere a terra l’arma. Fu quasi doloroso perché il sangue aveva cominciato a coagularsi a contatto con l’aria e aveva reso appiccicosa la mia presa sull’elsa. Però anche tenere la spada in pugno era doloroso, perché il cuoio dell’impugnatura sfregava sulle estremità di pelle del taglio che avevo sul palmo.
Lo sconosciuto passò alle mie spalle e mi puntò la lama al collo. Era alto quanto me, quindi non sarebbe stato impossibile sopraffarlo fisicamente, ma in quel momento speravo solo che si accorgesse che ero disarmato, innocuo e inutile: la mia vita non valeva nulla in quel conflitto, quindi se mi avesse fatto il favore di lasciarmela gli sarei stato più che riconoscente.
«Abbiamo un ostaggio! Andiamo!» gridò agli altri lo sconosciuto. Qualcuno gli coprì la ritirata difendendolo dai guerrieri in armatura, di modo che potesse fare il giro del negozio indisturbato, tenendomi sempre l’arma contro la gola. Con un calcio aprì la porta sul retro.
«Vi raggiungiamo subito» dissero alcuni dei suoi compagni e lasciarono che noi due uscissimo da soli.
Mi spinse bruscamente nel cortile puntandomi sempre l’arma contro. «Cammina» ordinò pungendomi la schiena con la punta della spada. Non mi ferì, ma non fu nemmeno come ricevere una carezza, però non protestai e cominciai subito a muovermi.
Uscimmo dal cortile e girammo a destra allontanandoci dalla strada principale dove Kazuo probabilmente era ancora in compagnia della padrona del negozio. Dopo la seconda svolta ci avvicinammo ad un alto steccato intorno al cortile di una casa. Lo sconosciuto abbassò leggermente la guardia, aiutandomi a eseguire i suoi ordini: avvicinare due casse di legno e impilarle. Dopodiché mi fece salire in piedi e scavalcare la staccionata cadendo malamente nel terriccio polveroso del cortile dall’altra parte. Lui mi seguì, atterrando con l’agilità di un felino.
Pochi secondi dopo sentii dei passi pesanti e delle voci per la strada che avevamo appena abbandonato: gli uomini armati erano usciti dalla bottega e mi cercavano urlando. Mi venne chiusa la bocca con una mano e ascoltai gli uomini parlare tra di loro, dicendo di aver controllato in varie vie senza trovar traccia mia o del mio rapitore. Capii che avevano finalmente compreso che io non ero un ribelle, perché l’attacco era stato dei ribelli stessi e non avrebbe avuto senso auto-prendersi in ostaggio. Ma se non ero un ribelle e non ero nemmeno dalla loro parte, allora ero un Signor Nessuno, quindi decisero di lavarsi le mani della mia sorte e le loro voci svanirono in lontananza.
«Va tutto bene? Ti sei ferito?» mi domandò il mio rapitore. Aveva rinfoderato la spada, ma anche senza quella minaccia mi sembrò di aver perso la capacità di proferire parola. Avrei voluto rispondere, ma non riuscivo ad emettere alcun suono, avevo addirittura l’impressione di non sapere più come si facesse a comandare alla bocca di muoversi e alla gola di emettere suoni. Non ero lucido a sufficienza nemmeno per chiedermi come mai quello che mi aveva minacciato di morte poco prima, ora mi stesse chiedendo se ero integro.
«Ninomiya sama?» domandò ancora.
C’era una sola persona che mi chiamasse così in quel mondo.
Rie abbassò il tessuto che le copriva la parte inferiore del viso ed io la riconobbi. La ragazza posò lo sguardo preoccupato sulla mia figura rannicchiata nel terriccio del cortile. «Quanto di questo sangue è tuo?» chiese ancora, prima di aprirmi il kimono denudandomi il petto senza tante cerimonie. Ma non ero ferito e anche se non le riposi, lei capì che le macchie sulla parte superiore dei miei indumenti erano dovute al tizio che mi era candidamente spirato tra le braccia.
Richiuse il kimono e prese le mie mani tra le sue costringendomi ad aprirle per mostrarle i palmi, cosa che si rivelò dolorosa ed ebbi l’impressione di perdere altro sangue. «Solo questo è tuo?» chiese ancora. «Ninomiya sama, rispondi» mi ordinò con voce dura, guardandomi severamente nel occhi.
Provai ad aprir bocca, ma non emisi alcun suono. Solo quando mi strinse leggermente le mani feci un gemito strozzato chiudendo gli occhi. Feci per tirarmi indietro, ma lei mi trattenne per i polsi. «Ce l’hai la voce, quindi rispondimi: eri da solo? C’era qualcuno dei nostri con te? Queste sono le tue uniche ferite?»
«Kazuo era già uscito prima dell’attacco» dissi infine. «Ho solo queste».
Quando riaprii gli occhi, Rie mi aveva lasciato i polsi e aveva recuperato una borraccia da chissà dove, facendo cadere l’acqua sulle mie ferite. «Guarda, non sono molto profonde» mi disse quando la maggior parte del sangue fu lavato via, lasciando in vista la carne tagliata, viva e rossa. «Hai fatto una sciocchezza vero? Hai preso una spada dalla parte sbagliata» indovinò, mentre frugava dentro una piccola sacca. Era nera quanto i suoi indumenti, ecco perché non l’avevo vista. Tirò fuori una striscia di tessuto, la strappò in due e me la girò intorno alle mani. «A casa te le cureranno meglio, ma intanto vediamo se il sangue si ferma così» mi spiegò con voce tranquilla, quindi chiuse anche il secondo nodo.
«Era pesante» mormorai con gli occhi fissi sulle bende. «Mi è caduto addosso e poi è diventato pesantissimo. Non faceva più alcuna resistenza»
«È così quando le persone muoiono. Da te non muore nessuno?» disse Rie
«Sì, ma tra le mie braccia…» farfugliai sbattendo le palpebre. «Così, nessuno prima»
«Sei stato bravo Ninomiya sama» mi rincuorò la ragazza spingendomi a mettere i palmi delle mani l’uno contro l’altro, tenendomi ancora i polsi, con più gentilezza. «Hai cercato di salvarti con tutti i mezzi a tua disposizione, sei vivo, è questo che conta»
«Non ho ucciso nessuno» le feci notare. Ne ero felice, ma in parte mi sentii in colpa perché tutto sommato ero dalla loro parte e non da quella degli uomini armati, quindi facendo fuori qualcuno li avrei aiutati.
«Meglio così. Non sapevi chi avevi davanti, pensavi solo a salvarti la vita quindi avresti ucciso chiunque indiscriminatamente» spiegò con un sorriso rincuorante. «Sei stato bravo, Ninomiya sama. Ora torniamo a casa».
Forse suonerà infantile, ma sentirmi dire di essere stato bravo mi rese tanto felice che avrei pianto.

Tornammo a casa molto dopo l’ora di cena.
Io e Rie mangiammo nella casa dei padroni del cortile dove ci eravamo riparati: conoscevano i ribelli e ci offrirono volentieri del riso con dell’uovo crudo da mescolare nella ciotola. Contando che all’epoca non esisteva il denaro e che la moneta di scambio era proprio il riso, ci offrirono un pasto regale.
Dal villaggio uscimmo seguendo viuzze secondarie che Rie sembrava conoscere come le sue tasche anche al buio. Io inciampavo ogni tre passi: non erano asfaltate e non c’era illuminazione elettrica notturna, immaginatevi voi…
Solo quando lasciammo il centro abitato per avviarci con più tranquillità lungo i sentieri della foresta, dalle tenebre spuntarono alcuni uomini. Mi accorsi di loro solo perché fu lei ad indicarmeli o perché parlavano o ci salutarono. Dopo una trentina di minuti di cammino, eravamo una nutrita compagnia che si inoltrava per i sentieri del bosco immerso nelle tenebre, roba che nel mio tempo non avrei fatto nemmeno per tutto l’oro del mondo a meno di avere una torcia, cosa di cui ero sprovvisto in quel momento. Si presentarono quasi tutti, ma io non conoscevo nessuno di loro. Non erano frequentatori dei quotidiani allenamenti di Toshinori. Molti non parlavano, camminavano in silenzio e non sembravano nemmeno fare rumore muovendosi, alcuni chiacchieravano a coppie o in piccoli gruppi, ma tenevano sempre la voce bassa.
Quando fummo in vista della casa, la maggior parte di loro salutò Rie e si dileguò nell’oscurità, alcuni ci scortarono fino alla porticina di legno delle mura, ma dopo che la oltrepassammo non li vidi più. Entrammo al sicuro della villa e nello spiazzo c’era un fuoco acceso, davanti ad una delle due entrate ai lati della veranda anteriore della casa. Un piccolo braciere intorno al quale, infreddoliti, aspettavano Toshiaki, Yukino, la governante Haruko, Kazuo e gli altri due ragazzi che avevano cominciato gli allenamenti il mio stesso giorno. Non mi stupii solo di trovare loro (di cui nemmeno ricordavo il nome), ma anche di tutti gli altri.
«Rie!» Toshiaki ci vide per primo e si alzò subito in piedi, attraversando di corsa lo spiazzo
«Toshiaki sama!» esclamò Yukino preoccupata, vedendolo schizzare via.
Il bambino saltò agilmente in braccio alla sorella, stringendola felice e sollevato.
«Kazunari» dissero i miei compagni venendomi incontro. «Sei vivo! Temevamo fossi morto»
«Non me lo sarei mai perdonato» disse Kazuo mettendosi in ginocchio e chinando il capo. «Kazunari, non avrei dovuto abbandonarti. O almeno sarei dovuto rientrare a difenderti, ad aiutarti nella ritirata. Mi sono comportato in modo così disonorevole»
«Kazuo» gli dissi. Mi ero abituato a non usare alcun onorifico con i miei compagni d’arme. «Non sono arrabbiato, ma chiedimi scusa domani» cercai di spiegarmi stancamente
«Kazunari sama, avrete freddo» pigolò Yukino. La giovane cameriera aveva tra le braccia una coperta di quelle che avevamo in camera io e Toshiaki. La ringraziai con un debole sorriso e me la misi sulle spalle, rendendomi conto in quel momento che la stanchezza mi aveva reso temporaneamente inconsapevole del freddo che in realtà mi faceva rabbrividire costantemente.
«Yukino, vai a chiamare mio padre, il nostro ospite si è ferito» ordinò Rie con gentilezza. «Voi ragazzi, spegnete il fuoco e andate a riposare. Domani avrete gli allenamenti e avete bisogno di dormire»
«Sì, Rie sama» dissero i tre con un profondo inchino
«Ci vediamo domani mattina» li salutai io sforzandomi di fare un ultimo sorriso.
Rientrammo in casa e Toshiaki scese dalle braccia della sorella per farci strada verso la camera. «Abbiamo avuto degli ospiti, sai Rie?» cominciò a dire. «Papà era arrabbiato che nostro cugino non fosse a cena con noi»
«Mi scuserò domani» mi affrettai a rispondere. Quando era stato deciso il mio ruolo di cugino, Rie era già partita e l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era far saltare la mia copertura. Ma la ragazza non mi lanciò alcuna occhiata stranita e non cambiò espressione: o le era già arrivata la notizia o aveva una faccia da poker eccezionale!
Yukino venne in camera per avvisarmi che sarei dovuto andare in camera del signor Morikawa per ricevere le cure, così lasciai i fratelli da soli e, sempre con la coperta sulle spalle, mi avviai lungo i corridoi fino alla stanza del padrone di casa. Era mezzo intontito dal sonno, ma il rincoglionimento non fu sufficiente a fargli dimenticare che mi doveva sgridare.
«Da quando sei arrivato non fai altro che ferirti» mi fece notare con voce roca dal sonno
«Sono desolato». Mi trattenni dal fargli notare che per me non era un gran sollazzo continuare a farmi male!
«Tu e Kazuo non arrivavate più e Haruko ha dovuto arrangiarsi per la cena» continuò togliendo le bende e tastando le ferite
«Mi spiace, non era nostra intenzione creare tanti fastidi». Tutto quello era successo solo per delle mutande, maledizione. Avrei dovuto arrangiarmi in qualche altro modo.
«Domani hai l’allenamento vero? Non potrai impugnare alcuna spada per i prossimi sette giorni» mi spiegò pulendo le ferite e spalmandoci su una pappetta strana e dal forte odore, simile a spezie o erbe. «Non impugnare niente con forza, rischieresti di far riaprire le ferite. Terminato questo periodo credo tu possa riprendere gli allenamenti senza alcun problema, magari i primi giorni non esagerare» consigliò in tono dolce.
Il signor Morikawa sembrava bipolare a volte, in lui c’erano due persone: il dottore e il capofamiglia; il primo era gentile e premuroso con chiunque, sorrideva, era paziente ed aveva sempre una parola rincuorante; il secondo era testardo, scorbutico, intransigente e ferreo nelle sue convinzioni.
«Cerca comunque di svolgere i tuoi compiti in maniera impeccabile domani e vedi di essere pronto per la cena. Darò disposizione ai servi di cercare un vecchio kimono di Toshinori che sia adatto all’occasione, un tempo ha avuto anche lui la tua corporatura quindi dovrebbe andarti bene. Dovrai scusarti con gli ospiti per la tua assenza» mi spiegò mentre rifaceva la fasciatura con delle bende pulite prese dai suoi bauli pieni di boccette, tele e altre cianfrusaglie utili alle medicazioni.
«Posso sapere chi sono?» domandai stringendo i denti per il dolore mentre le bende sembravano strizzarmi le mani tanto erano strette
«Te ne ho già parlato credo. Ujie Masamune, è il capofamiglia degli Ujie. Lui e la figlia sono arrivati eri sera»
«Sono i precedenti signori di queste terre, giusto?» chiesi piano
«Hanno mantenuto i loro possedimenti perché non si sono opposti apertamente ai Tokudaiji, ma di fatto non controllano più nulla: riscossione delle tasse, leggi, giustizia… è tutto nelle mani dei nuovi padroni».
Avrei voluto chiedere di più. La discussione che avevo origliato per caso la sera prima doveva essere stata proprio con questo Ujie Masamune, ma qualcosa mi diceva che il signor Morikawa non avrebbe preso bene il fatto che io avessi sentito qualcosa. Si fidava di me e per questo mi aveva accolto, ma era passato ancora troppo poco tempo perché potessi azzardare ad ammettere un’azione simile senza che cominciasse ad esserci qualche sospetto –seppur vago- sul fatto che io fossi una spia. Tra l’altro ero una persona fuori posto, anzi, fuori tempo, quindi cosa fosse venuto a fare il capo degli Ujie in quella casa non era affar mio. Soprattutto se per fare quella cosa era dovuto arrivare nel cuore della notte pur di non essere visto. La cosa mi puzzava, ergo: non dovevo interessarmene.
Quando la medicazione fu conclusa ringraziai e tornai nella mia stanza.
«Come ti stai trovando?» mi domandò Rie quando entrai
«Qui dici?» chiesi richiudendo gli shoji e andando a sedermi sul futon. Lei a aveva già messo a dormire Toshiaki che respirava profondamente nell’oscurità. «A parte che continuo a farmi male -come tuo padre mi ha fatto notare- e che sembro sempre un pesce fuor d’acqua -come Nagatoshi non scorda mai di ricordarmi- direi che…» mi bloccai. Cosa stavo per rispondere? «Non lo so» conclusi senza nemmeno rendermene conto. «Non è che stia male: mangio tutti i giorni, ho un tetto sulla testa, coperte per dormire al caldo e un medico ogni volta che qualcosa non va. Ho anche fatto amicizia con qualcuno dei ragazzi, cioè dei guerrieri» mi corressi. Erano ragazzi anagraficamente, però non facevano niente che per me fosse definibile come “da ragazzi”. «Ma non posso dire di stare bene. Allenamenti massacranti, rischio di morte quotidiano, assenza di norme igieniche, di elettricità, di konbini, del cibo che mi piace, della mia casa, della mia famiglia, dei miei amici» elencai sentendomi sempre più sconfortato
«Ti manca casa» annuì Rie nell’oscurità, c’era solo una candela quasi finita ad illuminare un poco la stanza
«Non voglio che tu pensi che io sia un ingrato» mi corressi, riprendendomi da quel mio elenco devastante. Con lei ero sempre molto sincero, cosa che con suo padre non sarei mai stato, non fino a quel punto. «Anzi, non avrò modo di ringraziarvi a sufficienza per quello che state facendo. Tra l’altro non faccio che combinare guai. Ma se devo essere sincero non so se mi trovo del tutto bene» conclusi con un sospiro. «Almeno ci sono un po’ di persone con cui ho fatto amicizia. Kazuo mi piace. Anche Toshinori è interessante. E Toshiaki è un buon compagno di stanza. È un ragazzo sveglio»
«E’ il mio preferito» fece lei.
Mi trattenni dal farle notare che era l’unico fratello a cui rivolgesse la parola senza problemi. «Ci avrei scommesso» mi limitai a dire. «Certo non poteva essere Nagatoshi. Sfido chiunque ad averlo come favorito: è più acido del latte cagliato e ha la stessa simpatia di una sberla» sbuffai stiracchiandomi.
Da qualche minuto ero tornato consapevole della stanchezza mostruosa che mi intorpidiva il corpo: dire che era stata una giornata schifosa non rendeva l’idea, volevo solo dormire e buttarmela alle spalle. Ma quella camera era stata delle sorelle -Akemi e Rie- il che mi fece sorgere un improvviso dubbio. «Dove devo dormire questa notte?» ebbi la forza di domandare. Avevo gli occhi già chiusi a metà e mi girava la testa per la stanchezza.
Io non avrei avuto problemi: mi bruciavano le mani ed ero maledettamente a pezzi quindi non sarei certo saltato addosso a quella ragazza; ma sarebbe stato molto sconveniente per quell’epoca far dormire un uomo e una donna nella stessa stanza, a meno che non fossero sposati.
«Qui, Ninomiya sama» rise piano lei. «Sei il cugino maschio e nostro ospite. Dormirai con Toshiaki, io andrò da un’altra parte». Aveva ragione, era lei l’ultima ruota del carro, non io. Anche se ero io ad essere estraneo lì dentro, mentre quella era casa sua.
Annuii. «Ah, non ho più quel nome» dissi sbadigliando
«Ninomiya?»
«Ora sono Morikawa Kazunari. Sono tuo cugino, quindi puoi chiamarmi “Kazunari”, penso» spiegai stringendomi nelle spalle
«O “cugino”» aggiunse Rie
«No, quello no. Nagatoshi mi chiama così, e lo fa sempre con un tono che non mi piace. Mi sembra un insulto, più che un nome» spiegai.
La giovane si alzò in piedi dando un’ultima carezza al fratello minore. «Non volergli male» mi disse piano. Il suo tono sembrava avere una nota di tristezza. O magari ero io che me la stavo sognando? «Soffre molto. Per lui è difficile mantenere la sua posizione all’interno della famiglia. Se non puoi essergli amico, almeno non essergli nemico»
«Ehi, è lui che mi tratta come una pezza da piedi» grugnii. Non capivo quel discorso strambo: da quando in qua Rie si preoccupava per Nagatoshi? Ok che non conoscevo ancora bene quella famiglia, ma l’avevo vista parlare con il padre e con Toshinori molto raramente, e solo perché costretta dalle circostanza. Aveva un rapporto vero solo con Toshiaki, mentre di Nagatoshi non aveva mai parlato, né lui aveva mai nominato la sorella. Era un po’ come se l’uno non esistesse per l’altra e viceversa.
«Una cosa?» chiese Rie disorientata andando verso la candela
«Non importa, non importa» scossi il capo. «Mi cambio e vado a dormire, non riesco più a stare sveglio» tagliai corto
«Buona notte, Ninomiya sama» fece divertita soffiando sulla candela
«Non puoi» cantilenai al buio rendendomi conto che non vedevo più un accidenti, quindi non avrei mai trovato il kimono che usavo per dormire
«Non devi dimenticare chi sei, Ninomiya sama. Farò attenzione davanti agli altri se ce ne sarà occasione, ma io continuerò a chiamarti così: è questo il tuo nome» spiegò. Aveva interpretato le mie paure di qualche settimana prima, i pensieri che mi avevano spinto a cominciare a scrivere. Quando mi girai nella sua direzione non vidi più nessuna sagoma. Strizzai le palpebre e scossi la testa.
Mi infilai nel futon senza vestiti, ero troppo stanco per cercare altro da mettere e non sarei entrato nelle coperte pulite con addosso quella schifezza macchiata di sangue rappreso.

Per la cena con gli ospiti mi ero aspettato di indossare chissà quale splendido kimono da cerimonia, elegante e colorato: dopotutto erano una famiglia di guerrieri, avrebbero potuto permetterselo. Ma a quanto pareva, ero finito in una famiglia di guerrieri, sì, ma tirchi, quindi mi ritrovai ad indossare un kimono che mi teneva caldo ed era comodo, ma non era particolarmente sfarzoso. I colori erano scuri e poco appariscenti, ma le cuciture erano ottime e il tessuto era liscio e ben trattato. Lo trovai in camera quando tornai dagli allenamenti di quel giorno, pronto da essere indossato. Quando feci per togliermi i vestiti in cui avevo sudato, mi guardai le gambe martoriate: avevo le ginocchia blu per colpa dei lividi fatti durante la fuga e avevo ematomi e graffi praticamente ovunque, dalle cosce alle caviglie. Ed erano tutti freschi. Quella mattina, Toshinori mi aveva sgridato di fronte a tutti i compagni: aveva detto che non esisteva idiozia più grande dell’afferrare una spada dalla parte della lama. Avrei voluto controbattere con qualche frase sarcastica, ma la pelle sul palmo della mano tirava a sufficienza da farmi pensare che, sì, afferrare una spada dalla parte della lama era l’idiozia più grande. Avrei passato tutto il giorno in castigo: mi avevano fatto mettere in posizione seiza in un angolo del cortile a fissare gli altri che si allenavano, perché il medico mi aveva prescritto assoluto riposo manuale quindi non potevo combattere. Nel mio angolino, da solo, avevo passato non so quante ore, poi avevo visto che nella veranda si stavano accomodando il signor Morikawa e un altro uomo un po’ più in carne che non avevo mai visto: dato che erano seduti allo stesso livello e che lo sconosciuto veniva servito prima del padrone di casa, avevo ipotizzato che potesse essere uno degli ospiti, Ujie Masamune stesso. Non che me ne fregasse qualcosa: non usava la magia, quindi non era utile al mio piano di “Ritorno al futuro”.
Ad un certo punto le gambe avevano cominciato a formicolarmi e avevo anche un discreto freddo perché stare fermo all’aperto in Novembre non è un attività riscaldante e non avevo addosso niente di più pesante rispetto ai compagni che si stavano allenando. Allora ecco Rie venire in mio soccorso: l’avevo vista presentarsi nella veranda con vestiti molto semplici e rivolgere al padre qualche parola, con lo sguardo basso, dopodiché si era inchinata ed era venuta da me intimandomi di seguirla. Da quel momento avevo passato tutta la giornata ad allenarmi con lei. Erano stati tutti esercizi per i muscoli delle gambe: saltelli, salti, corsa, balzi di lunghezze non indifferenti, calci e combattimenti solo con le gambe. Le botte prese quel giorno e i loro segni si erano sommati ai tagli sulle mani e a tutti gli altri graffi, ematomi e ferite precedenti. Potevo denunciarli per violenza domestica?
Guardando quei segni, decisi che mi serviva un bagno. Non che l’acqua li avrebbe lavati via, ma mi sentivo acciaccato e rattrappito dal freddo e dalla stanchezza; se mi fossi rilassato un poco, forse ogni cosa avrebbe fatto meno male, e poi dovevo ancora levarmi di dosso lo schifo che mi era rimasto dalla rissa del giorno prima. Il punto però era che eravamo a metà Novembre, faceva un freddo maledetto e non c’era nessuna doccia, ma solo un’eventuale bacinella di acqua fredda da buttarmi addosso nel cortile, cosa che non avrei fatto, non quel pomeriggio. Il sole era ancora abbastanza alto, quindi chiesi indicazioni ai domestici della casa per arrivare ai bagni termali che si trovavano lì vicino.
Chiamarli bagni termali era certamente eccessivo, non c’era alcuna organizzazione con ingresso, spogliatoi e docce come io ero abituato, era solo una fonte di acqua calda che riempiva parecchi stagni formatisi tra le rocce. Si trovava dall’altra parte della collina rispetto a dove era costruita la villa dei Morikawa e anche dal villaggio ci voleva una buona mezzora a piedi, ma a quell’ora non avrei trovato nessuno: una volta usciti dall’acqua, i paesani ci avrebbero messo svariati minuti a tornare a casa, l’ora sarebbe diventata troppo tarda e non era consigliabile gironzolare per i sentieri dei boschi una volta calate le tenebre.
Si potrebbe quindi pensare che, se non era sicuro per loro, non lo sarebbe stato nemmeno per me; la differenza sostanziale è che loro ci sarebbero andati per puro diletto, mentre io ci sarei andato per togliermi di dosso lerciume, sangue incrostato e cattivi pensieri. Accettavo di rischiare un po’ per tutto quello.
Scelsi una pozza d’acqua piccolina e appartata, con massi alti a nasconderla, di modo da non correre il rischio di essere visto da nessun malintenzionato. Mi spogliai e misi i vestiti in un fagotto che nascosi sul primo ramo di un albero, mentre con me portai solo due panni puliti. Uno lo lasciai all’asciutto, sulle pietre, l’altro lo immersi nell’acqua con me per sfregarmi il corpo, non esistendo ancora alcuna comoda spugna.
L’acqua era letteralmente bollente. Mi ci immersi con cautela e una volta che ebbi anche le spalle sott’acqua guardai il colore del cielo e la posizione del sole: era pericoloso rimanere troppo a lungo in tutto quel calore, ma non avevo orologi per controllare il tempo trascorso, quindi dovevo arrangiarmi con quello che avevo. Mi passai la tela ruvida sulle braccia e sul petto tirando via tanto di quel sudiciume da farmi venire le lacrime agli occhi: mi facevo schifo da solo e non ero abituato ad essere così sporco. Avevo il petto di colore rossastro prima di entrare in acqua, ma mi resi conto che era l’alone del sangue colatomi addosso, quindi bastò passarci sopra la mano e venne via. Trovai del sangue rappreso persino nell’ombelico!
A lavare le gambe ci misi di più perché ovunque toccassi mi facevano male. Per ultime lasciai le spalle di modo da massaggiarle un pochino e potermi poi rilassare appoggiandomi alle rocce. Strizzai il panno, lo piegai e me lo misi dietro la testa prima di rilassarmi contro la pietra, di modo che mi facesse da cuscino. Alzai lo sguardo al cielo, controllando quanto tempo mi rimaneva, quindi feci un sospiro e mi imposi di rilassarmi.
Quella notte avevo dormito forse due ore. Ogni volta che avevo chiuso gli occhi mi era tornato in mente il viso dell’uomo che era morto davanti a me, avevo ricordato l’orribile sensazione del suo corpo teso e pieno di vita che si rilassava completamente tra le mie braccia al sopraggiungere della morte e diventava d’improvviso pesante. Quella notte, più che in ogni altro momento, avevo desiderato ardentemente tornare a casa dove nulla di tutte quelle cose rappresentavano la quotidianità, ma quando avevo riaperto gli occhi la stanza davanti a me non era la mia, non era un camerino, non era casa di mia madre, né di Aiba o di Jun o di Ohno. Affranto e terrorizzato, mi ero chiesto se sarei mai tornato a casa e in quel momento, immerso nell’acqua, me lo domandai di nuovo, anche se con meno angoscia, forse grazie a Rie.
Avevo passato il pomeriggio con lei che, mentre mi allenava, mi aveva riempito di domande sul mio tempo, sul mio Giappone. Parlare di cose a me familiari era stato fantastico: avevo provato una grande nostalgia dei discorsi su programmi televisivi, musica e concerti. Le avevo raccontato della mia famiglia, quella vera, e della mia seconda famiglia, gli Arashi. Rie mi aveva ascoltato piena di curiosità e meraviglia, alcune cose non era stato facile spiegarle, altre probabilmente non le aveva affatto capite, ma mi era stata a sentire e si era interessata ad ogni cosa. Insomma, dopo tanto tempo era stato Ninomiya a parlare, non il mio alter ego, Morikawa. E in quel momento mi sentivo ancora me stesso.
Quando riaprii gli occhi vidi che mancava poco allo scadere del mio tempo, quindi mi staccai dalle rocce e feci per tirarmi fuori dall’acqua issandomi sulle braccia, ma un rumore di voci in avvicinamento mi spinse a tornare ad immergermi. Spostai sul panno asciutto un paio di pietre e delle foglie di bambù secche, di modo da nasconderlo, quindi acchiappai il panno bagnato portandolo con me, andandomi a nascondere in un anfratto, dietro la roccia più alta. Se si fosse scatenato un altro scontro sarebbe stata la volta buona che mi avrebbero ucciso: non avevo armi e nemmeno vestiti. Non che questi avrebbero potuto salvarmi, certo, ma in quella situazione cosa avrei potuto fare? Schizzare i miei avversari con l’acqua? Sai che paura...
Con sollievo mi resi conto che le voci erano solo due e il cielo si stava facendo via via più scuro: se fossi riuscito a non farmi scoprire, avrei potuto filarmela quando fosse stato più buio, a patto di non fare rumore.
«Sei sicuro che questo sia il posto migliore per parlare?» domandò una voce
«Stai tranquillo. È troppo tardi perché qualcuno del paese venga qui» rispose l’altro. Sospirai rilassando i muscoli: era la voce di Morikawa san, ero salvo! «In casa invece a quest’ora tutti gironzolano ovunque per preparare la cena o per prepararsi ad essa, non avremmo pace. Allora, di cosa volevi parlarmi?».
Conoscevo la persona con lui. O meglio, conoscevo la voce: era la stessa che avevo sentito parlare dietro gli shoji due notti prima, quando erano arrivati gli ospiti, quindi doveva appartenere ad Ujie.
«Toshiya, ormai siamo una famiglia e sai che ti voglio bene. Rispetto le tue decisioni così come tu rispetti le mie, ma ho una richiesta da farti e so che non accetterai facilmente» cominciò questi.
Perché finivo sempre a sentire discorsi che non era previsto ascoltassi? Ma in quel momento ero ancora Ninomiya Kazunari e non ebbi l’impressione di non dover essere lì, anzi sentivo che quel discorso non mi riguardava affatto e che potevo anche ascoltarlo come avrei ascoltato due persone qualsiasi sulla metro di Tokyo: interessato magari, ma totalmente estraneo.
«So che hai un segreto, amico mio. So chi c’è in casa tua, non credere che non lo sappia»
«Sei sicuro di sapere la verità e di non aver solo ascoltato sciocche voci e pettegolezzi?» lo interruppe Morikawa «So la verità. Combatte per te, nessuno sa chi sia veramente, ma alcuni dei tuoi samurai hanno ormai accettato che sia dei loro» disse, quasi in tono divertito. «So da dove viene, so chi è».
Sgranai gli occhi e di botto Ninomiya Kazunari sembrò sciogliersi nell’acqua calda come se fosse stato un cubetto di ghiaccio. Improvvisamente vidi la mia pelle chiara, lavata dello sporco, sulla quale ora spiccavano colorati tutti i lividi e i graffi subiti fino a quel giorno. Quelli non erano i segni di Ninomiya, erano di Morikawa: lui tornò a pilotare i miei sensi e i miei pensieri, rivendicando il controllo del mio corpo e della mia mente. Parlavano di lui, anzi, a quel punto parlavano di me.
«E qual è la tua richiesta?» domandò Morikawa con voce calma. Se era irritato o diffidente non lo fece intuire dal suo tono, ma non potevo vederlo in faccia. I due uomini si erano immersi in una pozza d’acqua alle mie spalle. In quell’epoca il silenzio era tale che mi ero trovato spesso a dover ricalibrare la mia idea di distanza in base a quanto chiaramente percepivo i suoni: qualcosa che udivo distintamente, poteva arrivare da una distanza superiore a quella ipotizzata, perché vi erano meno ostacoli e meno rumore di fondo a confondere i suoni.
«Rivela la verità. Fai un annuncio pubblico, smettila di nascondere la sua esistenza»
«Per quale scopo? Non ha alcun senso, anzi sarebbe più pericoloso. È molto più sicuro se continua a rimanere un segreto» si rifiutò Morikawa e lo ringraziai mentalmente.
Cosa voleva quello sconosciuto? Perché voleva che i miei ospiti rivelassero la mia presenza? Io non avevo alcun valore sulla scacchiera di guerra che si stava disponendo in quella regione. Ero come una pedina del gioco dell’oca messa tra un cavallo e un alfiere! Contavo come il due di coppe quando la briscola è denari! Non volevo rimanere coinvolto in niente, volevo solo tornare a casa.
«Per un matrimonio» rispose il compagno di sguazzamenti del signor Morikawa. «Ti ricordi ciò di cui abbiamo parlato stamattina? È un buon partito e noi saremo a legati a doppio filo. I Tokudaiji non potranno ignorare questa unione, così come non potranno opporvisi, perché se lo faranno sarà guerra e a quel punto noi saremmo un gruppo decisamente forte, quindi sono convinto che ci penserebbero due volte prima di attaccarci».
Avrei voluto uscire dall’acqua e tuffarmi all’improvviso nel loro stagno urlando parole per loro incomprensibili (tipo “treno”, “microonde” o “jeans”) solo per il gusto di terrorizzarli. Quell’uomo non solo voleva tirarmi in mezzo alle loro scaramucce storiche, ma voleva pure usarmi per farmi sposare qualcuno! Sarebbe stato il colmo: un idol raramente si sposa e io invece sarei stato costretto a contrarre un matrimonio. Non per amore poi, ma per convenienza. Convenienza altrui!
«Devi ammettere che è la soluzione ideale dal tuo punto di vista: hai detto che non vuoi lo scontro e questa è l’unica possibilità per evitare spargimenti di sangue» concluse l’ospite, trionfante. Strinsi le mani a pugno, con rabbia.
«E’ pericoloso» disse Morikawa dopo qualche secondo di silenzio. «Ma si potrebbe fare» concluse.


Sto pubblicando col pc portatile del mare, ho fatto il codice HTML a mano, quindi può darsi che abbia saltato qualche "a capo". Spero mi perdonerete. Quando arrivo a casa (il 31) risistemo, per ora beccatevi così il nostro Nino-musha.
Mi spiacendo sempre più scrivere questa ff. Teoricamente il capitolo era pensato in un modo diverso, con degli avvenimenti o totalmente diversi oppure non proprio in questo modo, ma sono soddisfatta perché con questa soluzione la trama si è fatta più intricata e sto gettando i primi semi per l'intreccio *-* ->autrice malata
Grazie ancora a WhenItsTime. Anzi, il capitolo te lo dedico: mi sono sforzata di fare il codice proprio per te, senza aspettare di essere a casa XD

  
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