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Autore: Alley    23/08/2013    4 recensioni
Capitan America, in realtà, costituisce una categoria a sè stante. Capitan America è l’ossessione. Il servizio di piatti riproducenti la fantasia dello scudo - “La prego, non mi dica che sono in vibranio”; “No, Barton. Semplice porcellana” - resta, al momento, il trauma più grande che abbia mai subito, addirittura peggiore della collezione di farfalle – morte, essiccate o quel che diavolo sono – esposta nell’ufficio di Sitwell.
[post "The Avengers"; pre Clint/Coulson]
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trafitto il cuore dell'ennesimo bersaglio, Clint abbassa l’arco e fa vagare lo sguardo sulla fila di sagome infilzate, godendosi la serie di centri inanellati nelle ultime--
Non ha idea di quanto tempo sia passato. Sa soltanto che, quando ha messo piede al poligono, fuori era giorno e adesso la luce ha ceduto il passo al buio. Questo – insieme ai calli sulle dita, ai graffi sui palmi e alle palpebre pericolosamente sul punto di calare – è il segno che la risposta è parecchio e, davanti a queste avvisaglie, una persona normale riporrebbe l’arco e se ne tornerebbe a casa; sfortunatamente, Clint Barton non è mai rientrato nella categoria.
Nell’ultimo mese, ha trascorso la metà dei propri giorni e un numero imprecisato di notti al poligono di tiro e niente - né il sonno né la stanchezza né gli ammonimenti della Hill né le minacce di Natasha (oltre a non essere normale Clint non è nemmeno dotato di giudizio, visto che chi ignora le minacce della Vedova Nera ha ottime probabilità di ritrovarsi, nella migliore delle ipotesi, con qualche ossa rotta o una pallottola infilata nei posti più impensabili) - lo convincerà a smettere, non fino a quando il poligono sarà l’unico posto in cui sente d’avere tutto completamente sotto controllo.
L’arco è stabilità a fronte di una terra che troppe volte gli è tremata sotto i piedi, è padronanza in una vita in cui si è ritrovato a subire puntualmente decisioni prese da altri. L’abbandono, l’orfanotrofio, il circo e poi--
Troppe volte non ha potuto opporsi o non ha saputo farlo. La differenza è sostanziale ma, in questo momento, non ha le energie mentali necessarie per individuare la linea di demarcazione.
Ecco il vantaggio delle notti trascorse al poligono: gli effetti collaterali – la sonnolenza, lo sfinimento – inibiscono il pensiero e se c’è una cosa di cui Clint ha bisogno è un anestetizzante. La strizzacervelli dello S.H.I.E.L.D. – quella che Fury lo ha obbligato ad incontrare non una, non due, ma ben tre volte la settimana - gli ha prescritto dei sonniferi, ma lui non ha nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di prenderli: il sonno non è la soluzione, il sonno annienta le difese e consente ai pensieri di penetrare in profondità e trasformarsi in incubi.
Concentrarsi su altro – sulle mani che bruciano, sullo sforzo di vincere il sonno, sul bersaglio da centrare – non dirada le ombre ma, almeno, impedisce loro di schiacciarti.
Del tutto insensibile alle preghiere delle sue dita, Clint tira fuori un’altra freccia dalla faretra, la incocca, tende il braccio, assottiglia lo sguardo per prendere la mira e--
“Barton.”
La voce risuona un istante prima che la freccia parta e ormai è troppo tardi per fermarla. La punta penetra nel legno ben quattro millimetri e mezzo più in basso del centro e no, non si tratta di una stima approssimativa, sono esattamente quattro millimetri e mezzo e Clint vede infrangersi la speranza di battere il record – da lui stesso detenuto – di centonovantasette bersagli consecutivi infilzati. Malgrado ci tenesse a migliorare il primato, non è quello l’aspetto peggiore della situazione. Non ha la pazienza nè la voglia di sopportare l’ennesima predica - sa che passare lì le notti non risolverà le cose, non c’è bisogno che glielo ricordino ogni santo giorno – condita dalle ennesime, stucchevoli rassicurazioni – "non è stata colpa tua", "non potevi farci nulla" – e nemmeno quella per reprimere le risposte sgarbate che già prendono forma nella sua mente.
Non vuole prendersela con Coulson. Non vuole avere qualcos’altro da farsi perdonare da lui.
I passi riecheggiano leggeri nel silenzio del poligono e Clint scaglia un’altra freccia.
Centro.
Altre centonovantasette frecce e batterà il record. Non sono poche, ma ha tutta la notte a sua disposizione.
“Posso fare qualcosa per lei, signore?”
Altra freccia, altro centro.
Meno centonovantasei
“Il rapporto che hai consegnato è monco.”
I rapporti sono una delle ossessioni di Coulson. La lista è piuttosto lunga e alquanto bizzarra. Si va dai tre cucchiaini di zucchero nel caffé – ed è inutile provare a fregarlo, perché a lui basta saggiare l’aroma per rendersi conto di quanto ce ne sia – passando per i reality show – più trash sono meglio è e, da quando l’ha scoperto, la prima preoccupazione di Clint durante le missioni è quella di impossessarsi del telecomando – fino a Capitan America.
Capitan America, in realtà, costituisce una categoria a sè stante. Capitan America è l’ossessione. Il servizio di piatti riproducenti la fantasia dello scudo (“La prego, non mi dica che sono in vibranio”; “No, Barton. Semplice porcellana”) resta, al momento, il trauma più grande che abbia mai subito, addirittura peggiore della collezione di farfalle – morte, essiccate o quel che diavolo sono – esposta nell’ufficio di Sitwell.
I rapporti, comunque, occupano una posizione molto alta in graduatoria.
Clint ricorda come se fosse ieri la volta in cui, dopo la sua prima missione, gli venne gettato davanti un fascicolo bianco e lui osservò baldanzosamente che “aveva accettato di fare il cecchino, non lo scolaretto”. Coulson non s’era scomposto minimamente. Aveva raccolto il fascicolo e indicato con un cenno del capo l’uscita del proprio ufficio.
Quella è la porta, agente Barton. Se non le piacciono le nostre regole, è libero di andarsene.
A Clint sembra strano che al suo rapporto manchi qualcosa – insomma, è stato addestrato da Coulson stesso a compilarli, ed è diventato così bravo da suscitare l’invidia della Hill - ma quell’obiezione, giusta o sbagliata che sia, è di gran lunga preferibile alla paternale che si aspettava.
Altro tiro, altro centro.
Meno centonovantacinque
Ignorarlo gli spiace tanto quanto trattarlo in malo modo, ma è il miglior deterrente al fine di evitare discussioni che non sarebbe in grado di sostenere. Inoltre, ha la netta sensazione che tenere gli arti in movimento e concentrarsi sul bersaglio sia l’unico modo per non crollare sul pavimento.
“Riguardalo.”
Clint scocca un’altra freccia – meno centonovantaquattro – e intravede Coulson poggiare il fascicolo sulla panca al lato della fila di bersagli.
“Ai suoi ordini.”
Continua a fissarlo di sottecchi e vede comparirgli al centro della fronte la ruga appena accennata che sta per apprensione e che è diversa da quelle che esprimono concentrazione o dissenso - Clint le conosce tutte, come se le avesse disegnate lui stesso, e riesce a notarle e discernerle anche nella penombra.
Quando fa per incoccare l’ennesima freccia, capisce a cosa sia dovuta quella grinza improvvisa: il taglio sul palmo si è aperto – doveva succedere proprio adesso, naturalmente – e il sangue stilla copioso fino a macchiare il polso.
Si aspetta un rimprovero, una recriminazione o una domanda e, invece, riceve soltanto un educato saluto di congedo.
 
*

Mancano novantanove bersagli quando la porta viene spalancata nuovamente e la freccia manca il centro di due millimetri.
Questa volta Clint ha tutta l’intenzione di mandare a quel paese il molestatore perché, maledizione, novantanove bersagli per lui sono una bazzecola, aveva il nuovo primato già in tasca. Decide di constatarne l’identità dell'intruso prima di cominciare ad ingiuriarlo – in modo da poter scegliere con criterio gli insulti da utilizzare – e per fortuna, perché si tratta di Coulson e Clint è sicuro che, a dispetto della flemma che ostenta, quell’uomo abbia ucciso per molto meno.
“Mi dispiace, signore, ma non ho ancora revisionato il rapporto. Le prometto che domattina sarà sulla sua scrivania.”
L’unica risposta che ottiene è un leggero clangore metallico. Clint abbassa l’arco, volta appena il capo e vede Coulson, chino sulla panca dove giace ancora il dossier, aprire quella che pare una cassetta del pronto soccorso e armeggiare con delle strisce che hanno tutta l’aria di essere garze. Ne afferra una manciata, richiude il coperchio e si avvicina, senza proferir parola, e Clint poggia meccanicamente l’arma sul pavimento.
Coulson si ferma ad un passo da lui, gli prende una mano e avvolge un pezzo di stoffa attorno al polso gonfio e screpolato, poi fa lo stesso con le dita. Clint lo fissa muto e imbambolato, sbatte le palpebre per assicurarsi che non si tratti solo di un’allucinazione – viste le condizioni in cui versa, non è da escludere. Quando mancano all’appello soltanto il pollice e l’anulare solleva appena lo sguardo e adocchia l’espressione assorta di Coulson, la fronte appena aggrottata e gli occhi vigili e attenti; sembra il volto di chi sta facendo qualcosa di importante, qualcosa a cui tiene, e Clint sente lo stomaco contrarsi nel constatarlo - dev’essere la fame. Si è dimenticato di cenare e forse anche di pranzare.
Nel frattempo, Coulson è già passato all’altra mano, sul cui palmo campeggia il graffio che prima ha preso a sanguinare davanti ai suoi occhi. Increspa ulteriormente la fronte e sfiora piano la pelle arrossata attorno al taglio, indugiando per un istante infinito prima di apporvi la garza. Clint pensa che quella sia la cosa più vicina ad una carezza che abbia mai ricevuto e deglutisce tanto forte che teme che l’altro se ne sia accorto. Se è così, Coulson non lo dà a vedere; continua a fasciargli le dita, con cura e attenzione quasi maniacali, e quando ormai manca solo il pollice Clint ha la tentazione di disfare tutto solo per poter cominciare da capo.
“Entro le otto.”
Clint alza la testa con uno scatto e, quando incrocia lo sguardo di Coulson, sente un pungente tepore pizzicargli le gote – sarà il caldo, deve essere il caldo, perché è assolutamente impossibile che stia arrossendo come una liceale.
“Cosa?”
“Il rapporto. Lo voglio sulla mia scrivania entro le otto” precisa Coulson e stringe l’ultimo nodo “Chiaro?”
Clint annuisce con qualche secondo di ritardo – la stanchezza infiacchisce i riflessi, sì – e, quando Coulson ritrae le mani, deve sforzarsi per reprimere l’impulso di afferrarle e trattenerle.
“Bene” commenta Coulson, per poi voltarsi e dirigersi verso la panca. Afferra la cassetta del pronto soccorso e sposta lo sguardo dall’arco a Clint, il che significa non utilizzarlo almeno per le prossime ventiquattro ore.
“Buonanotte, Barton.”
“Buonanotte.”
Gli occhi di Clint saettano dalla fasciatura alla schiena di Coulson che procede verso la porta.
Il grazie gli rimane incastrato in gola.
















Note
La colpa è di Restless della Will in cui si allude ad una scena simile e di A Shame For Us To Part della mia consorte Nemeryal, perchè questo è il modo in cui ho sfogato il dolore che mi ha arrecato.
Nella mia mente era molto più fluff - era solo fluff - ma, vabbeh, quando mai le storie son venute come le avevo progettate *sospira*
  
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