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Autore: AsanoLight    23/08/2013    1 recensioni
Una raccolta di Drabbles e Short-Fic, alcune basate sulla pairing HiratoxAkari.
Vari inserti con Tokitatsu, Gareki e Yogi.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Akari, Altri, Hirato, Tokitatsu, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie '♣ Karneval Parade'
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Nota dell'autrice: Questa Flash-Fic è un seguito a Broken, Pessimistic e Patience.



«Per favore»

«No»
«Solo una passeggiata, rapida rapida»
«Ti ho detto di no»
«Ma-»
«Sei sordo?»
 
Sospirò e guardò annoiato fuori dalla finestra. Il sole splendeva alto sul cristallino mare, che rifletteva le tonalità azzurre del terso cielo. Aveva oramai smesso di contare il tempo che aveva trascorso in cura alla Torre di Ricerca.
Avvertiva davvero un disperato bisogno di uscire, di fuggire da lì e tornarsene ai propri doveri di Secondo comandante.
Voleva sentire la brezza accarezzargli il viso mentre volava libero all’orizzonte, lasciarsi sfiorare il volto dal fresco vento del mattino.
Gli mancava tutto.
La battaglia, il suo ufficio, il suo lavoro, i ragazzi del Circus.
La libertà.
 
«Non è da te essere così silenzioso», borbottò Akari, porgendogli una mela appena sbucciata, turbato e riluttante, «Oggi non mi hai ancora dato un motivo per detestarti. A cosa stai pensando?».
 
Lui.
Lui gli mancava terribilmente.
Giorno dopo giorno, era costretto a restare in quel letto d’ospedale, parcheggiato come una nave al porto, dannandosi per quella distrazione in campo di battaglia che l’aveva ridotto in quel pietoso stato.
 
Non ripudiava le cure di Akari –inizialmente ne era addirittura felice- ma da tempo quelle attenzioni erano diventate irritanti. La pietà che Akari aveva per lui era irritante, metteva a dura prova la sua pazienza.
 
Quegli occhi, che in passato avevano usato guardarlo ora con distacco, ora invece con desiderio o amore, non erano divenuti altro che due lucide pietre, intrise di compassione, dalle quali pendevano costantemente pesanti borse, segni di chissà quante ore di sonno arretrate e di certo non dovute a straordinari.
 
Non era così che doveva andare.
Non era Akari a doversi prendere cura di lui.
O, meglio, non si sarebbe dovuto lasciar andare in quella maniera.
Avrebbe dovuto indossare la sua fredda maschera fino alla fine, proprio come stava facendo lui.
 
«Che fai, non mi rispondi?»
Akari lo guardò distrattamente, con un tono di voce tuttavia tediato, mentre gli afferrava una mano stringendogliela.
Hirato restò con la testa poggiata sul cuscino, lo sguardo immerso nel lontano mare.
 
Se fosse stato possibile, avrebbe voluto essere un pesce, uno qualunque, per nuotare libero e distante da quella rete nella quale era accidentalmente finito.
Percepì la stretta di Akari ma non accennò reazione a quel tocco.
 
I suoi occhiali erano ancora poggiati sopra il comodino.
Erano lì da forse tre o quattro settimane e, nonostante ciò, non avevano mai avuto il tempo di fare la polvere.
 
Akari, tutti i giorni, li lucidava diligentemente e glieli faceva indossare.
Poco importava se lui, come un testardo bambino, cacciava le motivazioni più futili per levarseli.
 
Non c’è nulla di nuovo che debba vedere”, usava spesso dire in un sorriso assai forzato, “E la faccia di Akari è un qualcosa che conosco bene. Non ho bisogno degli occhiali per vedere qualcosa che posso comodamente vedere con il cuore”.
Cercava di stregarlo con quelle parole e di illuderlo ma da giorni quelle frasi sembravano aver perso la loro efficacia.
Akari pareva trattarlo come un uomo che aveva vissuto la sua vita, a cui non rimaneva altro che attendere la morte.
 
«Voglio scendere da questo letto»
«Ti ho detto che non puoi»
 
Aggrottò le sopracciglia, Hirato, cercando di mantenere la compostezza, senza riporre la sua maschera.
 
«Akari. Ti ho detto che sono stufo di-»
«Tu non vai da nessuna parte finché non ti riprendi completamente. Se ti vedessero in giro penserebbero che tu ti sia ripreso e farebbero di tutto per rispediti a lavorare. Ma, te lo dico io, tu non ti sei ancora ripreso! Se ti attaccasse un Varuga potresti-!».
«Fottiti», replicò secco Hirato, incenerendolo con il solo sguardo, «Tu ed il tuo Varuga».
Non c’era traccia di ironia. Solo una rabbia, sedata e piuttosto radicata nel suo animo.
Una reazione che lasciò tuttavia spiazzato il dottore.
«Smettila di trattarmi come se fossi una causa persa, Akari. Sono qui, vivo e vegeto. Ho solamente preso una brutta botta alle gambe, tutto qui. Ciò non significa che stia per morire. Le mie ferite guariranno, forse ci metteranno più del solito ma guari-».
 
Si interruppe.
 
Ci avrebbe messo la mano sul fuoco, che il dottor Dezart gli stava piangendo proprio davanti agli occhi.
Poco gli importava di mostrarsi spettinato, con il viso amaranto e gli occhi consunti dalle lacrime.
Stava dannatamente piangendo.
 
«S-Su allora», lo incitò Akari digrignando i denti nel vano tentativo di fermare il flusso imperterrito delle sue lacrime, «Metti in piedi, bastardo! Guarda con i tuoi stessi occhi la realtà! Se non fosse stato nulla per cui preoccuparsi, non avrei avuto motivo di starti con il fiato sul collo giorno e notte, non pensi?!».
 
Hirato piegò la testa verso di lui. Si sentiva una scatola, un contenitore vuoto.
Quella vacua solitudine nella sua anima lo stava lentamente logorando.
Non la sopportava più. Non sopportava più nulla. Neppure la sua vita.
Anche quella era diventata un vuoto peso.
 
«Su, alzati! Che aspetti?!»
 
Sofferenza. Akari stava veramente soffrendo.
Era collassato. Lui, che si era sempre mostrato forte di fronte alle disgrazie, lui era collassato.
Lui, che era tuttavia così pieno, ed Hirato... completamente vuoto.
 
Akari, che tutti i giorni si disturbava per venire a riempirlo con amore, affetto, cure, attenzioni.
E lui che, non importava quanto ricevesse, continuava ad essere un pozzo senza fondo.
Si sentiva annullato. Annichilito. Se la morte gli si fosse mostrata in quell’istante davanti agli occhi, non avrebbe battuto ciglio e le avrebbe stretto la mano.
Sarebbe stato meno doloroso del vedere Akari soffrire.
Abbassò lo sguardo e strinse nei pugni il copriletto sterilizzato di cotone.
 
Poggiò lo sguardo sulle piastrelle del pavimento ed espirò silenziosamente.
 
Se avesse fallito, se fosse caduto, sarebbe stata la fine.
Akari sarebbe morto di dolore, l’avrebbe ucciso dove era più debole, nel suo cuore.
Gli avrebbe dato una terribile pugnalata per colpa del suo egoismo e della sua pervicacia.
 
«Che è successo al tuo sorriso da bastardo, Hirato?», gli domandò imperterrito il dottore, prendendogli affettuosamente le guance, ma la voce era chiaramente spezzata dalla disperazione, «Non ridi più adesso, eh? L’hai capito anche tu che non c’è più nulla per cui valga la pena di sorridere».
 
«Non dire stronzate, Akari»
Non avrebbe tollerato a lungo quella situazione.
 
Quella camicia da malato lo soffocava.
Quelle bende sul torace cominciavano a stargli strette.
L’atteggiamento di Akari lo stava snervando, gli logorava l’anima.
 
Livore, rabbia, tensione.
Gli avevano insegnato a nasconderle dietro un sorriso.
 
Ma se, a detta di Akari, oramai non era più tempo di sorridere, allora, per lui, avrebbe rinunciato alla sua maschera, proprio come il dottore aveva fatto a sua volta precedentemente.
 
Si liberò della sua presa allontanandogli le mani dalle proprie gote e suscitando lo stupore del medico. Si mise seduto sul letto e guardò il pavimento.
 
Un metro lo separava dalla sua vita.
 
Un metro lo separava da Akari.
   
 
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