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Autore: _Frame_    23/08/2013    6 recensioni
I piccoli difetti che ce li fanno amare diventano delle vere e proprie patologie.
Otto pazienti rinchiusi in un ospedale.
Un ospedale da cui non si potrà più uscire.
Benvenuti alla clinica Welt di Berlino.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO 11

 
Il disco arancione si abbassa, lasciandosi trascinare dentro al boschetto scuro, disegnato come un’enorme sagoma nera davanti al cielo roseo. La sua luce mi colpisce gli occhi in pieno, ma riesco a tenere aperte le palpebre senza troppa fatica. Sono quasi accarezzate dai tenui raggi solari che schizzano all’orizzonte, diramandosi su tutto il prato, allungando le ombre degli alberi sul manto d’erba.
Antonio si appoggia alla ringhiera della terrazza, buttando tutto il peso sulle braccia incrociate sulla barriera di legno. Ruoto il capo verso di lui, stringendo le dita attorno alla colonna per evitare di scivolare giù dalla ringhiera. Annodo le gambe attorno al legno, caldo, quasi bollente, rimanendo in perfetto equilibrio con la schiena ben dritta.
Antonio socchiude le palpebre, affondando il viso nella luce rossastra che gli fa brillare la pelle come bronzo. Una bava di vento gli scosta una ciocca castana, spostandogliela davanti all’orecchio.
“Sai, Lovino, ero convinto che...” Mi dice, ruotando gli occhi che si incrociano con i miei. “Ero convinto che tuo nonno ti avesse impedito di tornare qua da me. Dopo la sfuriata dell’altro giorno, pensavo che ti fossi preso una bella strizza e che non ti saresti più fatto vedere.”
Io abbasso le sopracciglia, deformando la bocca in una smorfia. I nostri occhi non si scollano.
“Non m’importa un accidenti di quello che pensa quel vecchio. Io faccio quello che mi pare, con o senza il suo permesso. E poi...”
Ruoto il busto, appoggiandomi con il petto sulla colonna di legno, premendoci sopra con la spalla. Allungo il braccio, tuffandolo dentro alla cesta in bilico sulla ringhiera. Navigo con la mano tra i pomodori lisci e morbidi, ancora con la buccia tiepida e umida. Ne stringo uno tra le dita senza schiacciarlo troppo e raddrizzo nuovamente la schiena, portando subito l’ortaggio rosso come il fuoco davanti alle mie labbra.
“Quei due bastardi a casa mi fanno morire di fame. Almeno qui...” Spalanco le fauci, e addento il pomodoro con avidità, spremendolo sotto i denti. “Almeno qui posso mangiare in santa pace.” Concludo, con la bocca ripiena di poltiglia succosa.
Una goccia mi schizza fuori dalle labbra, piovendomi sulla gamba.
Antonio sorride, e le guance gli si velano di rosso.
“Oh, ma come sei gentile.” Mi dice con tono scherzoso. “Allora tu mi vieni a trovare solo per mangiarti i miei pomodori. Ah, che delusione.”
Lascia ciondolare la testa in mezzo alle spalle, e la frangia gli cade sulla fronte, sfiorando le braccia appoggiate al cornicione.
Io mando giù il boccone, che mi scivola nella gola rinfrescandola come un balsamo. Addento un altro morso, più piccolo, e inizio a masticarlo lentamente. Una guancia mi si gonfia, ripiena della sua polpa.
“Direi di sì. Sarai anche un inutile bastardo, ma i pomodori ti riescono proprio bene, devo ammetterlo.”
Deglutisco, poi socchiudo le palpebre, abbassando gli occhi sulla sua figura ancora china, abbagliata dal riverbero solare.
In fondo, è un bravo bastardo. Non riesco a capire di cosa si preoccupi tanto, il nonno.
Socchiudo le labbra, avvicinando il pomodoro mezzo mangiato alla bocca, già distendendo la lingua per avvolgerlo. Poi ci ripenso, e abbasso il braccio appoggiandolo sulla gamba. Stringo le dita attorno alla sua buccia, e spremo involontariamente qualche goccia che rotola su ginocchio.
“Sai, credo che il nonno ti abbia detto delle cose strane, l’altro giorno.” Mormoro, arricciando la bocca.
Antonio solleva il capo e aggrotta la fronte, squadrandomi con due occhi attenti. Una scintilla luccica attraverso i suoi iridi smeraldini.
Io scosto lo sguardo, ruotandolo sui miei piedi ciondolanti.
“Ecco, Feliciano mi ha detto che il nonno crede che tu possa farmi del male, per questo non vuole che io venga qui. Ma quel vecchio è stupido.” Traggo un respiro profondo, imbronciandomi in viso. “Ha detto che è pericoloso, il fatto che io resti tutto il giorno insieme a te. Spiegami cosa diavolo possa esserci di male. Insomma, di cosa dovrei avere paura? Che tu mi metta in catene e che mi obblighi a lavorare nel campo? Beh, in fondo lo hai già fatto, ma se...”
“Farti del male?” Mormora Antonio, raddrizzando la schiena.
Io annuisco, senza scollare gli occhi dal suolo. Lui fa scorrere le braccia nella ringhiera di legno, e solleva il naso al cielo, tuffandolo nella luce arancione del sole che ormai è già stato inghiottito quasi completamente dalle chiome degli alberi.
“Ah, oddio, ora capisco.” Mi dice, ridacchiando.
Ma è una risata seria, strana. Non mi piace come suona.
Si riappoggia con tutto il peso sul cornicione, ma ora è lui ad allontanare lo sguardo da me.
“Lascia stare, Lovino. Non è il caso che un bambino sappia queste cose.” Dice, scuotendo la testa.
Io alzo il capo, sollevando un sopracciglio. Pianto un broncio che mi scurisce tutto il viso, già coperto dall’ombra del tetto che si sta allargando su di noi.
“E perché no? Guarda che io sono già grande abbastanza. Se è una cosa che mi riguarda, allora ho il sacrosanto diritto di sapere su cosa stiate confabulando tu e il nonno di così segreto.” Sbraito.
Antonio si stringe le spalle, sempre nascondendo lo sguardo, e si sfrega la nuca con un gesto nervoso.
“No, Lovino. Non spetta a me dirti queste cose. Sei ancora piccolo e...”
“Tutte balle!” Ringhio.
Sollevo la mano annaffiata dal succo di pomodoro e mi lancio quel che è rimasto dell’ortaggio direttamente tra le fauci, buttandolo giù senza nemmeno masticarlo. Incrocio le braccia davanti al petto, arricciando il naso in una smorfia.
“Avanti, spiegami tutto quello che sta succedendo. Ora!”
Antonio fa scorrere le dita tra i capelli, emettendo un profondo sospiro. Volta il viso paonazzo davanti a sé, nascondendo l’imbarazzo con un risolino tirato.
“Beh... vedi... a volte capita che gli adulti facciano... certe cose, e... e va bene, certo, se sono gli adulti a farle. Ma... se vengono fatte sui bambini, allora diventano sbagliate.” Socchiude le palpebre, facendo tornare seria la sua espressione. “E imperdonabili, a parer mio.”
Rilasso i lineamenti del viso, ruotando gli occhi all’orizzonte. Stringo i pugni attorno alla ringhiera, e il mio respiro rallenta.
“Ah, ho... ho capito.” Mormoro, anche se non sono del tutto sincero. “Centra per caso con quelle cose che fanno i grandi nei film?” Aggiungo, arricciando le labbra.
Inarco un sopracciglio e lascio cadere la punta della lingua su un angolo delle labbra. “Insomma… quando si abbracciano, si baciano, poi una volta un tizio ha tolto la maglia all’altra tipa e si è messo a…”
“S-sì… ho… ho afferrato il concetto, Lovino.” Mi interrompe Antonio.
Strizza le palpebre, e il suo sorriso inizia a tremare, come se stesse per esplodere in una risata. Si nasconde il capo tra le spalle, continuando a grattarsi la nuca come un cane pulcioso.
“Più o meno è così.” Socchiude un occhio con gesto lento e timido. “Resta il fatto che non dovresti sapere queste cose.”
Io alzo le sopracciglia, abbassando le palpebre. Sollevo il naso al cielo, e il sole mi fa prudere la punta.
“Tanto mi fanno schifo. Non mi passa nemmeno per la testa di interessarmi di robe simili.” Scuoto la testa, aggrottando la fronte. “Io da grande non le farò mai.”
Antonio sorride, piegando la bocca in un’espressione dolce. I suoi occhi brillano di una luce calda e avvolgente, che sembra quasi accarezzarmi.
“Bravo. Ma ora non ci pensare più.” Dice, sospirando. “Tu pensa solo a essere ubbidiente e a non fare più arrabbiare tuo nonno. So che ora potrebbe non sembrarti vero, ma lui ti vuole bene, Lovino.”
Io torno scuro in volto, e getto il capo di lato con un gesto deciso. Stringo i denti, e lo smalto stride come un violino scordato.
“Non è vero. Smettetela di dirlo. Lui e Feliciano mi abbandonerebbero anche subito, se ne avessero l’occasione.” La voce mi trema, diventa più cupa.
Antonio si avvicina, facendo strisciare le braccia sulla ringhiera. Il suo sguardo è sempre incollato al sole che tramonta.
“No, Lovino, sei tu che stai abbandonando loro, venendoti a rifugiare qua da me ogni giorno. Sai, se solo tu provassi ad avvicinarti un po’ di più...”
“Stai dicendo che vorresti lasciarmi solo pure tu?” Gli ringhio, dilaniandolo con due occhi infuocati.
Lui scatta, poi torna a sorridere, addolcendo lo sguardo.
“Ma cosa dici? Sai che non ti abbandonerei mai, Lovino.”
Allunga una mano verso di me, posandola delicatamente sulla testa. Fa scorrere le dita tra i capelli, arruffandomi la frangia.
“Te lo prometto.” Mi dice.
Sento le guance andarmi a fuoco. Nascondo il rossore imbronciando il volto e gonfio le guance come quelle di un rospo, arricciando la bocca.
“Non mi toccare, bastardo. E smettetela tutti di promettermi stupide cazzate, va bene?”
Antonio abbassa la testa, senza sciogliere il sorriso, e lascia scivolare le dita giù dalla mia fronte. Si porta la mano vicino al petto, incrociando di nuovo le braccia sul cornicione.
“Hai ragione, Lovino. Perdonami.”
“No che non lo faccio.” Sbotto, tornando a posare gli occhi sulla palla di fuoco che si sta lentamente spegnendo, divorata dal blu della notte.   
 
“Lovino, fermati! Dove stai andando?”
Feliciano si appiglia al bordo della mia maglia, la tira verso di sé strattonando la stoffa che mi avvolge la pancia. I suoi piedi tracciano il solco sulla ghiaia della stradina, i sassolini sotterrano la punta delle scarpe.
Io stringo i denti e continuo a camminare, non mi interessa se la maglia si strapperà.
“Smettila, Feliciano. Vai al diavolo, maledizione!” Gli urlo senza nemmeno voltarmi.
Affondo le unghie nella carne delle sue mani che stringono attorno alla stoffa, ma la presa non cede. Feliciano piagnucola, soffocando i singhiozzi a denti stretti. Inizia a farsi pesante da trascinare.
“Non posso lasciarti andare, Lovino. Se tu vai, poi il nonno si...”
“Non mi frega niente, hai capito?!” Sbraito.
La mia testa scatta all’indietro. I miei occhi, oscurati dall’ombra della frangia, fulminano Feliciano già quasi in lacrime. Le sue ginocchia sono quasi del tutto piegate, il suo naso mi sfiora la coscia nuda, coperta dai pantaloni solo fino alla natica.
Il sole pesta su di noi, ma sembra abbia una particolare predilezione per mio fratello. Il viso latteo di Feliciano brilla, affogato nei suoi raggi che gli coronano i lineamenti come un’aureola. Feliciano risponde al mio ringhio furibondo con una smorfia sofferente. Il labbro inferiore gli trema.
“Lovino, ascoltami. Resta a casa, non voglio che tu ti metta nei guai.”
“Ma stai zitto, ipocrita!” Ruggisco, strizzando le palpebre. “Tu... tu non...”
Sollevo il ginocchio e ruoto la caviglia verso di me, scaricando tutta la rabbia che mi bolle dentro al petto solo nel piede alzato. Sprigiono tutta la furia accumulata in un calcio che vola dritto su Feliciano. Gli piomba in pieno petto, e mio fratello emette un gemito strozzato, quasi un tossito. Le sue dita sciolgono la morsa e graffiano l’aria, cercando un appiglio invisibile per parare la caduta.
Feliciano sbatte la testa nel terreno ricoperto dai sassolini aguzzi. Strizza le palpebre e i denti gli si serrano. Sta inutilmente provando a trattenere tutto il dolore in gola.
Io arriccio il naso.
“Ti sta bene.” Gli dico, strofinandomi la fronte già imperlata di sudore.
Serro i pugni sui fianchi e Feliciano si rimette seduto, raddrizzando la schiena con un movimento arrugginito. Ha solo un occhio aperto, gonfio e lucido, e con una mano si strofina la nuca impolverata. Una lacrima gli fiorisce dall’angolo della palpebra ancora chiusa.
“Perché fai così, Lovino?” Mi chiede con tono vacillante, già sull’orlo del pianto.
Io aggrotto la fronte, alzando le spalle fino a che non toccano i lobi delle orecchie.
“Perché io... io...”
Mi mordo un labbro, e i denti affondano nella carne. Una goccia di sangue mi scivola sulla lingua, il sapore del ferro si espande a macchia d’olio in tutta la bocca.
Feliciano continua a guardarmi con quell’espressione innocente, con la testa piegata di lato e le sopracciglia alzate.
Io sbuffo, poi volto i tacchi, facendo scricchiolare le suole delle scarpe sulla stradina.
“Bah, al diavolo.” Mormoro tra i denti digrignati.
Abbasso la testa e mi addentro nell’ombra del boschetto a passo pesante, macinando il terreno come a volerlo frantumare dietro di me.
Le cicale gridano come se le stessero sgozzando.
 
Bugiardo.
Schifoso, lurido, dannato bastardo di un bugiardo.
Antonio ride. Ride come se avesse il sole in bocca. Il sole vero, invece, mi sta divorando alle mie spalle. Mi brucia la pelle prendendola a scazzottate, alto sulla mia testa. Le foglie immobili, mezze secche e metà cadute morte, riparano ben poco da quella feroce palla gialla.
La poca ombra proiettata basta solo per nascondere il mio viso, buio e affossato sotto le frangia sudaticcia. I capelli si sono incollati tra di loro, raggruppandosi in grosse ciocche scure.
Il cuore mi si ferma in mezzo al petto, frantumando la cassa toracica con un unico, ultimo battito. I miei occhi spalancati sono irremovibili, l’iride ristretto trema come scosso da spasmi.
Le labbra di Antonio si muovono, ma il suo sguardo continua a sorridere. Inclina il capo alla sua destra e arrosisce, alzando le spalle con un gesto timido.
Io striscio le unghie sulla corteccia dell’albero, una scheggia mi penetra nella carne. Mi riparo dietro al tronco lasciando scivolare i piedi tra le radici, ma i miei occhi continuano a guardare.
La veranda è ben ombreggiata. Sembra fresca, adatta ad una giornata soffocante come questa.
Tre gocce di sudore mi rotolano sul collo, infilandosi dentro alla maglia. Quando arriva in fondo alla schiena, un brivido mi scuote la spina dorsale.
Le labbra di Antonio si muovono. Balbettanti, impacciate, ma non mi arriva alcun suono. Sono troppo distante. Oppure, semplicemente non ho voglia di ascoltare. Antonio solleva il braccio sopra la testa, poi lo lascia cadere, leggero come una piuma, attorno alle sue spalle. Gliele avvolge in un morbido abbraccio, lei ride a sua volta, lasciandosi trasportare vicino al suo petto.
Troia.
Antonio le passa una mano tra i capelli fulvi, quasi castani sotto quell’ombra, e inizia a giocherellare con i nastri che le legano le ciocche, sopra le orecchie. Lei arriccia il naso, e trattiene una risata cavallina portandosi una mano davanti alle labbra. Si squaglia come burro sotto il sole, in quell’abbraccio, cadendo tra le braccia di Antonio come colta da un sonno improvviso. I due arricciano i nasi, le punte si avvicinano sfregandosi tra loro.
Lei ride un’altra volta, abbandonata sul petto di Antonio, protetta dalle sue braccia che le cingono i fianchi. Lo guarda inclinando il capo all’indietro, e Antonio abbassa la fronte, avvicinando il viso al suo.
Io arretro di un passo, l’erba secca si strofina come paglia sotto le scarpe. Il sangue mi si ghiaccia nelle vene e il mondo comincia a girare.
Le cicale continuano a gridare. Mi assordano, e il cerchio attorno alla mia testa si stringe, spappolandomi le tempie.
“Ma cosa dici? Lo sai che non ti abbandonerei mai, Lovino.”
Bugiardo. È solo un bugiardo.
Do le spalle alla casa che dà sull’orticello, ma le scintille bianche mi ostruiscono la vista. Chissà se mi sono voltato verso la via di casa?
“Te lo prometto.”
Tutte cazzate.
Piego la schiena, pesante come se stessi trasportando un macigno sulle spalle, e mi appoggio le mani sulle ginocchia. Gli occhi puntano nel vuoto. Provo a socchiudere le labbra serrate, ma non riesco a farci passare nemmeno un filo d’aria.
Un uccello mi zampetta davanti, poi svolazza via, decollando a rasoterra.
Il groppo in gola si scioglie, e io divoro l’aria boccheggiando come un cane accaldato.
Le cicale continuano a gridare.
 
“Lui... lui me l’aveva promesso.”
Affogo la faccia tra le mani bagnate dal sudore che si spalma sulle palpebre, facendole bruciare come un urticante. Appoggio la schiena al tronco di un albero e piego le spalle in avanti, richiamandole vicino al viso. Scuoto la testa, le dita si sfregano tra i capelli umidi e appiccicosi.
“Perché tutti mi abbandonano? Cosa ho fatto di...”
Sollevo la faccia dalle mani, le guance mi si saranno arrossate come pomodori. Mi strofino il naso con il braccio, ostruito dalla soluzione salmastra che spurga dalla mia pelle. Dio... questa umidità mi mozza il fiato.
“Sono tutti dei bugiardi.” Ringhio, aggrottando la fronte. “A nessuno importa di me. Né al nonno, né a Feliciano, né tantomeno ad Antonio. Se penso... se penso solo a quanto sono stato stupido a fidarmi di lui, io...”
Sbraito una maledizione a mezz’aria. Uno stormo di uccelli si spaventa e fruscia via dalla chioma di un albero.
Traggo un respiro profondo e appoggio la nuca alla corteccia, ruvida, che mi gratta la pelle come una roccia acuminata. Socchiudo le palpebre, riparando gli occhi dai raggi solari che si insidiano tra le foglie.
“Se solo ci fosse un modo. Un modo per fargli capire che ha fatto un’enorme cazzata ad abbandonarmi. Del nonno e di Feliciano non m’importa, loro possono anche andare al diavolo. Ma lui me l’aveva promesso!”
Strizzo le palpebre, mordendomi il labbro solo con la punta di un canino.
“No, non può passarla liscia. Non s’infrangono le promesse in questa maniera. Gliela farò pagare.” Stringo un pugno, alzandolo al petto. “Sarà lui che verrà a chiedermi scusa in ginocchio, poi. E ci penserà due volte prima di abbandonarmi un’altra volta. Più ci penso e più mi viene voglia di prenderlo a pugni con le mie stesse mani, quel bastardo.”
Distendo i lineamenti del viso, le mie palpebre e la fronte si rilassano. I raggi del sole mi solleticano il naso, arrampicandosi come radici su tutta la pelle del viso.
“Ma come faccio a fargli capire che l’ha combinata grossa? Forse, se lo mettessi in imbarazzo davanti a tutti, allora verrebbe a supplicarmi di non spargere più in giro queste voci. E allora capirebbe che la colpa in realtà è solo sua, perché mi ha lasciato solo, che diavolo! Magari potrei dire che l’ho visto sbaciucchiarsi con quella là, io mi vergognerei tantissimo se...”
Il mondo intorno a me si ferma, l’aria ristagna come una nube bollente, intrappolandomi nel sua abbraccio rovente. Una vampata m’investe in piena faccia.
Un angolo della bocca mi si piega verso l’alto, deformandomi la guancia in un ghigno. Gli occhi mi si accendono come braci incandescenti.
“Ma certo!”
Le cicale continuano a gridare.
 
Il nonno è seduto vicino alla finestra, abbandonato con tutto il peso sullo schienale della sedia, quella sistemata a capotavola. L’odore della cucina m’inebria i sensi. Mi fa venire voglia di chiudere gli occhi e assaporarmi quel vortice di aromi e spezie.
Il nonno ha le palpebre socchiuse, sul viso ha stampato un sorriso da ebete, e si regge la guancia con un palmo della mano completamente affondato sulla metà del viso. Il gomito appoggiato sul tavolo slitta leggermente in avanti, rischiando di fargli sbattere il mento sulla superficie di legno.
Sta fantasticando. Lo fa spesso, e io mi sono sempre chiesto cosa gli passi per la testa in quei momenti.
Il sole basso lo avvolge con i suoi raggi arancioni proiettati dal vetro della finestra.
Io faccio un passo in avanti, spostandomi dall’architrave dell’entrata della cucina, e il rumore del mio piede che ricade sul pavimento lo scuote.
Si sveglia subito dal suo sonno mistico, e strabuzza gli occhi, ruotandoli verso di me con aria interrogativa.
“Lo... Lovino, da quanto sei lì?” Mi chiede, inarcando un sopracciglio.
Io non rispondo, e avanzo a passo felpato verso di lui. Le mani incrociate dietro alla schiena e la fronte bassa. I miei occhi, però, sono due lanterne ancora più abbaglianti del sole di mezzogiorno, puntate solo su di lui.
Davanti al mio silenzio, il nonno si allarma e ruota il busto sulla sedia, guardandomi con un’espressione seria.
“Va tutto bene, Lovino? Ti senti male?”
Io scuoto la testa.
“No, ma devo dirti una cosa.” Gli rispondo.
Il nonno esita e sgrana gli occhi, attraversati da una luce strana. Arriccia le labbra, poi si schiarisce la gola.
“D’accordo, dimmi pure.” La sua voce è ferma e decisa, ma il suo sguardo lo tradisce e inizia a vacillare.
Io mi avvicino ancora di più, aggrappandomi al suo ginocchio. Alzo la fronte, incrociando quei suoi occhi attenti.
“Posso dirtelo nell’orecchio?” Gli mormoro e lui aggrotta la fronte.
Il nonno mi cinge la schiena con un braccio e si abbassa, tendendomi l’orecchio come gli ho chiesto. Il suo respiro si appesantisce, e le sue dita stringono sulla mia pelle.
“Certo. Coraggio, Lovino.” Mi dice, abbassando anche lui il tono come me.
Io mi lascio scappare un sorrisetto senza farmi vedere, poi rilasso nuovamente le labbra, avvicinandole alla sua testa. Apro il palmo di una mano, coprendomi la guancia con un gesto lento, quasi timido.
“Devo dirti una cosa che mi ha fatto Antonio.”
 
Ora sto aspettando. Non devo fare altro.
Il cuscino spacca-schiena del mio letto mi avvolge l’intero collo, la testa sprofonda dentro alla sua stoffa rigida come il marmo. Ma ora non m’importa.
Abbasso le palpebre lentamente, rilassando le gli occhi, e distendo un lieve sorriso sotto le guance. Accavallo le gambe sul materasso, lasciando ciondolare un piede sul ginocchio dell’altra gamba.
“Ora voglio proprio vedere con che faccia si presenterà qui a chiedermi scusa.” Ridacchio, lasciando scivolare le mani dietro alla nuca.
La schiena distesa sul materasso inizia a farmi male.
“Credo che sarò disposto a perdonarlo solo se mi supplicherà in ginocchio. Anzi...” Continuo, alzando il naso verso il soffitto. “Mi aspetto come minimo la scorta dei suoi pomodori per un anno intero. Gratis. Beh, in fondo li ho sempre mangiati gratis, ma questa volta sono sicuro che avranno un sapore diverso. Il sapore della giustizia, sì!”
Ruoto il capo verso la finestra della camera, affogando l’orecchio dentro al cuscino.
Il sole è sparito. Anche l’estate sta giungendo al termine. Un cupo cielo plumbeo, carico di nuvoloni grossi e gonfi di pioggia brontola sopra il boschetto. La fioca luce grigiastra riesce a malapena a filtrare dal vetro, e illumina solo un piccolo angolo del pavimento, ricoperto da una sottile pellicola di polvere. Le nuvole si contorcono e si divorano a vicenda, brontolando e ruggendo come animali.
Io sollevo un sopracciglio.
“Tanto ora potrà avere tutti i pomodori che vorrà. Con questa pioggia imminente, l’orticello non riuscirà nemmeno a contenerli, di tanti che ne cresceranno.” Chiudo gli occhi, sorridendo con aria soddisfatta. “Le cose iniziano a girare bene. Sì, davvero bene.”
Un rullare di passi mi trascina fuori dai miei deliziosi pensieri. Socchiudo una palpebra e resto in ascolto, ma sempre con lo sguardo puntato sulla finestra. Il rombo si avvicina, poi si arresta dando un colpo secco proprio dietro di me. Il rumore dei passi scompare, sostituito dal respiro pesante di Feliciano.
Io mi volto lentamente, lasciando rotolare il busto sul materasso. Feliciano ha appoggiato una mano sull’architrave, che sta lentamente scivolando verso il suolo. L’altra è stretta attorno al ginocchio piegato, tremante come scosso da una scarica di spasmi. Tutto il suo corpo trema.
Non riesco a vedere i suoi occhi, sono nascosti dalla frangia che gli è caduta sulla fronte. Il busto di Feliciano si gonfia e si sgonfia come un palloncino, riempiendosi d’aria boccheggiata a fatica. Il respiro gli sprofonda nella gola mescolandosi a rantolii confusi.
“Lo... Lovino... devi...” Le parole gli si inceppano in bocca, come incise su un disco rotto.
Io alzo la schiena dal letto, chinandomi verso di lui. Tendo il collo, aggrottando la fronte con aria imbronciata.
“Che cosa vuoi, Feliciano?” Grugnisco, gonfiando le guance.
Feliciano solleva il capo. I suoi occhi lucidi s’infossano dentro al viso sciupato dalla fatica. Gli angoli delle labbra si piegano verso il basso e le sopracciglia s’inarcano in un’espressione sconvolta.
“Lovino... devi... devi correre subito. Stanno... stanno...”
Salto giù dal materasso con un solo balzo. “Riprendi fiato, maledizione!” Gli sbraito.
Pesto un paio di passi al suolo e abbasso lo sguardo sulla sua figura china.
“Si può sapere cosa diavolo sta succedendo?”
Feliciano sgrana gli occhi e il fiato gli si mozza in gola.
“Stanno portando via Antonio. Ci sono delle auto a casa sua e anche il nonno. Non so cosa stia succedendo, ma devi venire subito!”
Silenzio. Non sento arrivare più nessun altro suono dalla bocca di mio fratello.
Una morsa rovente mi stritola il cuore, squagliandolo dentro al petto. Sbianco in volto, la mia pelle diventa gelida e pallida come ricoperta da una maschera di neve. La gola è secca, ogni goccia di saliva evapora, lasciandomi la lingua all’asciutto e incapace di muoversi.
Provo a socchiudere le labbra, ma non succede nulla. Feliciano è sempre spiaccicato contro l’architrave, immobile, con i suoi occhi da cerbiatto puntati su di me.
Io arretro di un passo, le gambe arrugginite sembrano cigolare. Una scossa mi trafigge le tempie.
“Ma... cosa stai dicendo?”
 
Una goccia di pioggia, pesante come una lacrima di piombo, mi centra in pieno la fronte. Un’altra mi sfiora l’orecchio, sfrecciandomi di fianco al viso.
Alzo il naso al cielo. Le chiome degli alberi si muovono, scorrono come una pellicola sopra di me. Il cielo romba, tuona furioso. Le cicale hanno smesso di gridare.
Stringo i denti, senza smettere di correre, divorando il terreno a falcate feroci, che macinano la ghiaia sotto le suole. Butto la coda dell’occhio alle mie spalle e tendo l’orecchio. Feliciano è rimasto indietro e si trascina dimenando le braccia ai fianchi, come sperando di spingersi più avanti.
 Traggo una boccata d’aria, raccogliendo tutto il fiato che mi avanza nella gola. “Nessuno ti ha chiesto di seguirmi!”Gli urlo.
Feliciano fa una smorfia di fatica, piegando le spalle in avanti per correre più velocemente.
“Guarda che... che anche io... anf... sono preoccupato. Quegli uomini che sono scesi dall’auto facevano davvero paura, e anche il nonno era arrabbiatissimo. Non l’avevo mai visto così, Lovino. Ho avuto davvero paura. È successo qualcosa di strano?”
“E io... io cosa ne posso sapere, mi spieghi?”
“Pensavo... visto che tu e Antonio siete sempre insieme... magari tu potresti...”
“Ti ho detto che non ne so nulla, va bene?!” Esclamo, ruotando gli occhi davanti a me.
Non riesco ancora a vedere la casa, e nemmeno il pozzo. Solo scuri tronchi che si allungano verso il cielo come spettri ululanti.
“Piuttosto...” Borbotto, ripulendomi la faccia dalla pioggia.
Le nuvole iniziano a scaricare l’acqua su tutto il boschetto, le foglie tremano sotto le gocce che picchiano su di loro. La ghiaia comincia a impantanarsi, rimanendo incollata sotto le scarpe come calce fresca.
“Tu che cosa ci facevi là, Feliciano? Come hai fatto a scoprire che il nonno era andato a casa di Antonio e che delle macchine lo stavano prendendo, eh?” Tuono, digrignando i denti.
Feliciano esita, e rallenta il passo abbassando gli occhi sui suoi piedi.
“Ecco... io, veramente... stavo...” Non conclude la frase, le sue parole si spengono in un mormorio confuso che gli muore tra le labbra.
Io dilanio la bocca in una smorfia feroce, e volto di scatto il capo davanti a me, infischiandomi di lui. Lo butterei tra gli alberi con una spinta, ma non ho tempo da perdere.
Scarico tutta l’energia che mi rimane solo nelle gambe, facendo mangiare la polvere a quella mammoletta di Feliciano che non riesce a stare al passo.
“Lovino, aspetta! Non correre!”
Il rumore dei miei passi e lo scrosciare della pioggia coprono le sue parole, inghiottite dal bosco che mi sto lasciando alle spalle. Poi, finalmente, i tronchi degli alberi si aprono, la foresta scompare dietro di me.
Il cielo grigio, quasi nero, avvolge la piccola casetta come a volerla divorare in un solo boccone. La terra incrostata sulle ruote dell’auto bianca e blu sta scivolando via, annaffiata dalla pioggia.
Io mi nascondo dietro all’albero proprio come l’altro giorno ma, questa volta, è lo scrosciare del diluvio a tapparmi le orecchie. Le gocce gelide mi inzuppano i vestiti già incollati alla pelle, freddi e pesanti come una morsa di ghiaccio. I capelli grondanti mi rimangono appiccicati sulla fronte, inondata dallo scorrere dell’acquazzone. I rivoli diramano sulla pelle, rinchiudendo la faccia in una fitta rete d’acqua.
Solo pioggia, non sento nient’altro.
Nemmeno i due uomini che continuano a muovere le labbra, con i visi curi e gli sguardi di pietra che fissano Antonio dall’alto in basso. Antonio è chino sulle ginocchia, seduto sulla panchina con le mani tra i capelli. Il suo viso è sciupato, pallido come un lenzuolo. Gli occhi infossati nelle palpebre si gelano mentre guardano i suoi stessi piedi. Scuote la testa un paio di volte, balbettando qualcosa che non capisco.
La pioggia continua a cadere, trascinando le loro parole in un vortice scrosciante.
Un’altra figura sbuca da dietro la colonna. Prima non l’avevo vista, è rimasta lì dietro fino ad adesso. Quando quella sagoma assume i lineamenti del nonno, il sangue mi si gela nelle vene.
Pensavo fosse una balla. Pensavo che Feliciano me lo avesse raccontato solo per mettermi paura, invece il nonno c’è per davvero!
I suoi occhi sono spirali di fuoco, che vorticano nel viso livido di rabbia come mai l’avevo visto prima.
Io scuoto la testa. No... il nonno non si arrabbia mai, non l’ha mai fatto, non mi ha mia sgridato in quel modo. Perché... perché sta urlando in quella maniera contro Antonio?
Antonio inarca le sopracciglia, ruotando le pupille vacillanti verso di lui, ma continua a tenersi nascosto tra le spalle. Muove le labbra, ma riesce a comporre solo qualche sillaba.
Il nonno s’irrigidisce come una statua di pietra. Inarca le braccia, e le vene gli pulsano sulle mani, facendogli contorcere le dita. Si fionda su Antonio con uno scatto feroce, agguantandolo per la maglia come se lo volesse fare a pezzi. Ne sarebbe capace. Potrebbe trucidarlo come farebbe con un foglietto di carta straccia.
Ma non voglio che lo faccia. Perché sta succedendo questo?
Una vena pulsa sul collo del nonno, e lui continua ad aggredire Antonio che non fa altro che strizzare le palpebre, senza reagire.
Di nuovo una scossa mi fulmina il cervello. No... non può essere. Non possono aver fatto questo solo per... per...
I due uomini allontanano il nonno spingendolo in un angolo, ma ci pensano loro ad afferrare Antonio. Uno di loro lo prende per una spalla e lo inizia a trascinare verso i gradini della terrazza. L’altra persona è occupata a trattenere il nonno imbufalito in un angolo.
Il cuore mi martella nel petto, il ghiaccio nelle vene si scioglie, e il sangue inizia a ribollire.
Antonio è chino, la fronte nascosta dalla frangia e gli occhi bassi. L’uomo mastica qualche parola tra i denti, come se stesse abbaiando, ma Antonio non fa nulla.
Poi, accade qualcosa.
Una scintilla sotto i suoi capelli, un luccichio verde si alza, scivolando verso di me. Basta quello. Basta solo un secondo. E durante quel misero secondo i nostri occhi s’incontrano, fermando il tempo attorno a noi. Un solo suo occhio in mezzo alle ciocche castane, un solo mio occhio da dietro la corteccia bagnata. Sul mondo cala un drappo grigio che avvolge tutto ciò che ci circonda.
Sbianchiamo tutti e due, le nostre pupille quasi scompaiono dentro all’iride. La pioggia, però, riprende a scorrere.
Antonio si abbandona tra le braccia dell’uomo, piegandosi come un salice piangente. Non fa nulla per opporsi, ma lui sa che...
Socchiudo le labbra, lentamente. “No... fermi... lui...” Il mio sussurro si perde nel bosco.
La macchina lo inghiotte, ed entrambi gli uomini ci saltano sopra a loro volta. Il motore si accende, rombando, e l’auto mi passa di fianco con i tergicristalli al massimo. Una ruota sprofonda in una pozzanghera, annaffiandomi con quella sudicia acqua fangosa.
Il mio collo si gira, seguendo la corsa dell’auto.
È colpa mia.
“Fe... fermi!” Tuono.
Scatto come un cervo, iniziando ad inseguire le strisce delle ruote solcate sulla stradina. La pioggia mi martella sulla faccia e sul petto, le ciglia grondano, annebbiandomi la vista.
“È stato un incidente! Lui non centra nulla, è mia la colpa! Ho detto una bugia. Una bugia, avete capito?!”
Il mio corpo trema, ma non capisco se sia per il freddo o per la rabbia che mi bolle in ogni singola fibra.
“Portatelo indietro, bastardi! Non ha...!”
Il piede mi finisce in una buca, la caviglia si piega sotto il mio peso. Cado come uno stupido imbranato, parando il colpo con le mani che affondano nella poltiglia di sabbia e acqua. Le ginocchia strisciano per terra e i sassi aguzzi le graffiano come artigli. I palmi delle mani mi bruciano.
La pioggia continua a picchiarmi sulla schiena, le gocce cascano dalle punte dei miei capelli grosse lacrime.
“È stato un incidente. È stato un incidente. Io non volevo... non doveva finire così. No... non così...”
Stringo le dita attorno alla ghiaia e alzo la testa al cielo, lasciando che la faccia affoghi sotto la pioggia.
Riportatelo indietro!
Le nuvole continuano a tuonare.
 

***

 
C’è silenzio. Nessuno osa respirare, nessuno riesce a distogliere lo sguardo da me. Sei occhi che mi fissano.
Gilbert si piega in avanti, con le mani appoggiate sulle ginocchia e il collo teso verso di me. Inclina la testa di lato, come a voler cercare il mio viso, ancora sciupato dal brusco risveglio. Feliciano geme, deglutendo un grosso boccone di saliva che scivola a fatica giù per la gola secca. Stringe le dita attorno al corpo del fratello, se lo avvicina al petto fasciandogli le spalle con le braccia tremanti. La testa di Lovino ciondola, totalmente abbandonata tra le mani di Feliciano. La sua espressione non è mutata, ma ora i suoi capelli grondano di sudore gelido.
Butto la coda dell’occhio alle mie spalle, a capo chino, con i fili del Transfert che mi cascano sulla fronte e dietro le orecchie. Sbatto le palpebre un paio di volte, la vista è ancora annebbiata.
Il mio sguardo e quello di Carriedo si incrociano. Il mio da sotto la fascia di stoffa nera, il suo da sotto le ciocche scompigliate della frangia. Il ragazzo è immobile, con la testa allungata verso di me e gli occhi lucidi, pietosi. Dentro di sé sta tremando come una foglia.
“Allora, cos’hai scoperto?” La voce ansiosa di Gilbert mi coglie alla sprovvista, svegliandomi da quel trans.
Ruoto nuovamente la testa davanti a me e lui si è già scurito in volto. Stringe i pugni sulle ginocchia, facendo raggrinzire la stoffa dei pantaloni. Le nocche gli diventano bianche.
“Dai, non tenerci sulla spine.” Continua, aggrottando la fronte. “Dobbiamo linciarlo, oppure no?”
Tutto il viaggio nella testa di Lovino Vargas torna a scorrere nella mia mente come il nastro di una pellicola. Chilometri di diapositive che sfrecciano, accerchiandomi la fronte con una anello ancora più stretto e pesante del Transfert.
Mi poso una mano sul petto, stringendo le dita attorno al camice. Il cuore sta ancora martellando, lo sento pulsare sotto la mia pelle. Mi inumidisco le labbra, secche e asciutte, e una goccia di sudore mi scivola dietro alla nuca, bagnandomi il collo già umido.
“Sicuramente, è stata in assoluto l’esperienza più traumatica che io abbia mai vissuto grazie all’aiuto del Transfert, fino ad ora.” Dichiaro con voce ferma.
Gilbert sgrana lo sguardo, dilaniando la bocca in un ghigno di disprezzo. Ruota le pupille mirando il muro dietro di me, due fiamme roventi puntate contro Carriedo.
“Tu, bastardo...”
“Quello che voglio dire...” Lo blocco subito, alzando il tono.
Mi appoggio una mano gelida e sudata sulla gamba, voltandomi verso Carriedo. Sollevo le sopracciglia, e il mio viso si distende.
“Quello che voglio dire è che la vostra storia è forse ancora più assurda di quella di Jones e Kirkland, per quanto mi riguarda.”
Carriedo inarca un sopracciglio. Ovviamente, non può sapere di cosa io stia parlando.
Gilbert s’irrigidisce, poi si mette al mio fianco guardandomi dall’alto. Si sposta con movimenti rigidi e meccanici, come se avesse le articolazioni arrugginite.
“Cosa stai dicendo, Lud? Cosa centrano loro due, adesso?” Mi chiede con voce impastata.
Io aggrotto la fronte, senza smuovere lo sguardo dallo spagnolo.
“Carriedo, hai almeno una minima idea di tutte le sofferenze che vi sareste risparmiati entrambi, se solo uno di voi due avesse detto la verità?”
Carriedo spalanca le palpebre e il fiato gli si mozza in gola. Feliciano piagnucola alle mie spalle, dopo infiniti attimi di silenzio.
“Che... che cosa vuoi dire, Ludwig?” Domanda con voce vacillante. “Che nemmeno Lovino ha detto la verità? Che era un bugiardo?”
Io mi porto una mano sotto il mento, massaggiandone la punta.
“Non esattamente.” Rispondo. “Riguardo tuo fratello, si tratta più specificatamente di quello che non ha detto, perché l’ha dimenticato. Tutto quello che ho visto durante il processo del Transfert non era mai emerso durante le normali sedute, e questo è avvenuto proprio a causa di uno dei sintomi principali dell’isteria.”
Feliciano arriccia lo sguardo, piegando la testa di lato. Sembra quasi che debba spuntargli da un momento all’altro un punto di domanda dipinto sulla fronte. Gilbert aggrotta le sopracciglia, piegando gli angoli della bocca verso il basso.
“Spiegati meglio. Non ci sto capendo nulla.” Ordina.
Io mi schiarisco la voce.
“Certo. Vedete, prima, se non sbaglio, vi avevo già detto che una delle cause principali dell’isteria è il trauma rimosso che s’insinua nel subconscio del paziente per poi emergere sotto forma di lapsus e attacchi violenti.”
“Sì, sì, va bene. E poi?”
“Lasciami finire, Gilbert. Nascondendosi in quella determinata zona del cervello, il ricordo viene dimenticato, ma solo superficialmente. È per questo che Lovino non ricordava nulla di questi episodi ed è per questo che non ha riconosciuto Carriedo quando lo abbiamo fatto entrare.”
Sollevo le mani verso la fronte, affondando le dita tra i capelli in cerca della chiusura della fascia.
“Noi pensavamo che...” Proseguo con voce più ferma. “Pensavamo che il trauma in questione fosse proprio l’abuso fisico e psicologico da parte di Carriedo. A sostenere la tesi, poi, c’è anche il fatto che i due casi sono tutt’ora collegati.”
Strappo il velcro, lasciando che il Transfert scivoli in mezzo alle mie gambe trascinandosi dietro i cavi che si raggomitolano ai miei piedi.
“Ma non è stato quello, il nostro trauma. Dico bene, Carriedo?”
Lui abbasso lo sguardo, nascondendolo sotto i capelli. Stringe le unghie attorno alla stoffa dei pantaloni che gli fasciano le gambe ancora incrociate.
“Tu non hai mai toccato Lovino.” Dico con voce morbida.
Lui singhiozza, e la sua schiena si alza come attraversata da una leggera scossa.
“Non ne saresti stato mai capace.”
Carriedo stringe i denti, lo stridere dello smalto è udibile fino a qui. Inarca ancora di più la schiena verso le ginocchia e soffoca a fatica il pianto nella gola. Affonda il viso nel palmo della mano, tuffandola nei capelli che cascano dalla fronte. Le lacrime iniziano a scivolare tra le dita, sgorgando come acqua di sorgente appena sciolta dal ghiaccio. La mano è zuppa, grondante del suo pianto amaro.
“Io... io pensavo...”
Carriedo guaisce come un cane bastonato, liberando tutta la tensione che si è accumulata in undici anni dentro alla sua mente, dentro al suo cuore. Undici anni di sofferenze e di angosce che si sciolgono in questo unico attimo.
“Io non... non potevo confessare. Avevo capito... io avevo capito com’erano andate le cose, ma... ma se lo avessi incolpato, allora Lovino avrebbe passato guai ancora più seri. Non potevo permettere di...”
“Guai ancora più seri?” Intervengo, aggrottando la fronte. “Ti ricordo che Lovino Vargas si trova rinchiuso in questa clinica da tre anni, e tutto a causa del tuo silenzio.”
“Non potevo addossare la colpa su di lui!” Tuona Carriedo. L’eco della sua voce rimbomba sulle quattro mura della stanza.
“Ne passava già tante...” Continua, scuotendo la testa. “Sarebbe stata l’ennesima bastonata che avrebbe ricevuto dal mondo. Io non potevo, non potevo, capisce?”
Io resto in silenzio e il mio respiro rallenta. Una morsa mi stringe il petto.
C’è più umanità in queste otto stanze che in tutto il mondo messo assieme.
“Perché non hai detto nulla, quando ho dato inizio all’operazione col Transfert su Lovino?” Gli domando. “Eppure, prima di cominciare, ti avevo chiesto una conferma, e tu saresti stato libero di smentire tutto. Avresti potuto spiegarci i fatti com’erano realmente accaduti, e tutto si sarebbe risolto.”
“Francamente, non pensavo che avrebbe funzionato.” Mi risponde, assottigliando le palpebre.
Si stringe le spalle, nascondendosi tra le sue stesse braccia.
“E poi, sarebbe risultata una scusa poco convincente, detta dopo anni di bugie. Non mi avreste di sicuro creduto. Ho pensato che il mio silenzio sarebbe stata l’unica arma a favore di Lovino. In ogni caso, lui sarebbe uscito dal Welt. Non mi spaventava l’idea di dover rimanere dentro, perché sapevo che lui sarebbe tornato a casa.”
Io aggrotto la fronte. Sta iniziando ad asciugarsi dal sudore, e il leggero spiffero che entra dalla porta mi fa scorrere un brivido sulla schiena.
“Sei rimasto della stessa opinione anche dopo aver saputo che Lovino si trovasse qui? Capisco il tuo silenzio degli anni passati, ma poi…”
“Sarei stato un vigliacco!” Mi interrompe Carriedo, strizzando le palpebre. “Io ero già accusato, tanto valeva continuare la recita fino in fondo. In ogni caso, che il processo fosse andato bene o male, Lovino sarebbe stato salvato.” 
Gilbert si porta un indice vicino alla tempia, massaggiandosela con la punta del dito.
“Aspettate, volete dirmi che in realtà lo spagnolo non ha mai fatto nulla?” Domanda con voce incalzante.
Carriedo scatta, sollevando il capo dalla mano fradicia. Il suo viso arrossato e umido brilla sotto il riverbero delle lampade. I capelli si sollevano, ondeggiano sopra la sua fronte come mossi dal vento. Gli occhi verdi riprendono a splendere, ma di una luce vera, viva.
Carriedo inarca le sopracciglia, piegando la bocca in un lamento.
“Come avrei mai potuto fargli del male?!” Urla, liberando l’ultimo pianto. Un grido che fa scivolare via tutto il dolore degli ultimi anni,che si è depositato sulla sua pelle come uno strato di polvere grigia.
Gilbert aggrotta la fronte, ruotando gli occhi al cielo.
“Un attimo... fatemi capire. Vuol dire che loro due sono qui perché...”
“Carriedo è qui per una bugia di Lovino.” Intervengo subito, abbassando le palpebre. “Mentre Lovino è qui perché si è ammalato d’isteria a causa di una bugia di Carriedo. È stato proprio quell’amaro senso di colpa, il trauma da noi tanto cercato. Deve essere stato un vero e proprio shock, vedersi portar via la propria figura di riferimento da sotto gli occhi. Per uno sbaglio dello stesso Lovino, poi.”
Chino il capo verso il pavimento, lasciandomi scappare una sbuffata che ha del divertito. È tutto troppo assurdo.
“Sono entrambi rinchiusi al Welt per colpa dell’altro. Anche se involontariamente.”
Feliciano abbassa gli occhi su Lovino, e una scintilla gli illumina lo sguardo. La bocca si distende in un lieve sorriso che gli vela le guance di rosso.
“Questo vuol dire che... che abbiamo trovato la cura? Che Lovino può guarire e tornare a casa?” Esclama di gioia, ma la sua voce è ancora scossa.
Lovino si agita nel sonno e arriccia il naso, gemendo debolmente tra le labbra. La sua mano si stringe attorno alle dita di Feliciano con un gesto lento e stanco.
Io rilasso i lineamenti del viso, scuotendo la testa.
“La cura è già stata messa in atto, Feliciano.” Gli rispondo con un tono quasi paterno. “Vedi, un’altra delle caratteristiche dell’isteria è proprio che, quando il ricordo riaffiora dal subconscio e viene vissuto nuovamente, allora i sintomi spariscono e il paziente può considerarsi clinicamente guarito. Certo...” Proseguo, portandomi una mano sotto il mento. “All’inizio potrà essere doloroso per Lovino, ricordare ciò che è successo. Ma la sua aggressività eccessiva sparirà e lui potrà tornare a condurre una vita normale.”
Feliciano si illumina più del sole. Le sue labbra si distendono in un sorriso che si allarga fino alla guance, rosse come pomodori. Due lacrime di gioia fioriscono agli angoli delle palpebre.
“Quindi... questo vuol dire che... che Lovino può...”
Io annuisco, ancora prima che possa finire la frase.
“Sì, Feliciano.”
Ruoto lo sguardo sui suoi occhi lucidi. È la prima volta che lo vedo piangere dalla gioia. Uno strano calore mi accarezza il cuore.
“Lovino può tornare a casa.”
Feliciano spalanca la bocca, gli iridi gli tremano dalla contentezza, e le palpebre gli si gonfiano di lacrime. Due grosse gocce gli rigano le guance e il pianto non si ferma. Gli inonda tutto il viso, gocciolando anche sulla faccia di Lovino.
Feliciano stringe al petto il fratello, affondando il viso tra i suoi capelli. Annega nei suoi stessi singhiozzi, strofinando la fronte sulle guance di Lovino. I cavi del Transfert si annodano attorno alla punta del suo naso.
“Che bello! Torna a casa... Lovino torna a casa! Io sono... sono davvero... davvero felice!”
Gilbert si tuffa le mani nelle tasche e ruota gli occhi al cielo. Si gira, piroettando sulle piastrelle, e dà le spalle a quella scena fin troppo tenera per i suoi standard.
Io volto lo sguardo verso Carriedo, ancora incollato alla parete bianca. Distende anche lui le labbra sul viso, sollevando gli angoli della bocca. I suoi occhi, una volta nient’altro che due bulbi grigi e spenti, si sono totalmente liberati dalla morsa di quella nebbia. Ora brillano, tremanti di gioia.
“Lo liberate? Lo liberate davvero? Grazie al cielo. Oddio, grazie al cielo!” Esclama, rituffando il viso nel palmo della mano.
Io annuisco deciso, e inizio a strisciare verso Lovino. Seguo la scia dei cavi del Transfert che serpeggiano sul pavimento.
Lo guardo bene in volto, anche se è nascosto in parte dalle braccia di Feliciano strette attorno a lui. È stremato, sciupato, la bocca semiaperta lascia uscire solo un debole respiro. Le sopracciglia inarcate gli danno quasi un’aria triste.
Io abbasso le palpebre, e allungo le dita verso la morsa infernale di quell’oggetto che lo ha appena salvato. Slaccio la fascia del Transfert con un movimento lento e attento, facendo scivolare l’anello di stoffa con delicatezza da dietro la sua nuca. Lo getto sul pavimento, e lì giace avvolto dai cavi.
Avvicino le mani al busto di Lovino e le allungo dietro alla sua schiena, facendomi spazio tra la presa di Feliciano. Ma, sembra quasi che abbia paura di cedere, infatti se lo avvicina al petto come fosse un tesoro da proteggere.
“Aspetta, Feliciano.” Gli dico con voce calma e pacata.
Feliciano molla la presa dalla stoffa, ma sfila a fatica le dita dal fratello. Ha inconsciamente paura che io glielo porti via di nuovo, ne sono certo. I suoi occhi arrossati si sollevano su di me, ma il mio sguardo non si scolla da Lovino.
Stringo la presa, avvolgendo il corpo del ragazzo tra le mie braccia. Me lo avvicino al  petto, e finalmente lui si separa da Feliciano, che rimane con le mani sospese a mezz’aria, rigide come ramoscelli secchi.
Lovino sembra così fragile, sotto la mia morsa. Stringo le mani direttamente attorno alle sue ossa, avvolte solo da un sottile strato di pelle fredda, fasciata dalla divisa del Welt fin troppo larga, oscillante come un lenzuolo. Mi do una spinta sulle gambe, e mi rialzo senza fatica con un solo scatto. Lovino è leggerissimo. Tra le mie braccia non sento altro che una bambola rotta.
Vacillo un paio di volte, quando mi rimetto in piedi. La testa mi gira ancora. Mi avvicino a Carriedo a passo lento ma deciso, appoggiando i piedi sul pavimento con movimenti pesanti. La testa, le braccia e le gambe di Lovino ciondolano a peso morto dal mio abbraccio.
Carriedo solleva la testa, e la inclina di lato inarcando le sopracciglia.
“Dottore, ma che...?” Domanda, socchiudendo un occhio.
Io abbasso le palpebre e mi chino, inginocchiandomi di fronte a lui. Gli lascio scivolare il corpo inerte di Lovino tra le braccia, che Carriedo ha già prontamente portato in avanti.
“Prendilo.” Gli dico con un sospiro.
Il corpo del ragazzo è steso su una sua spalla, con le braccia che gli penzolano sulla schiena. Carriedo volta il capo verso di lui, sistemandoselo più comodamente, in modo da non fargli male. Il mento di Lovino è appoggiato vicino all’incavo del suo collo.
“Portatelo a casa.” Concludo, indicando l’uscita con la punta del pollice e abbassando le palpebre sugli occhi.
Carriedo sgrana lo sguardo, rimanendo a bocca aperta come un pesce fuor d’acqua. Poi, anche il suo viso si rilassa, e le sue labbra si distendono nel sorriso più sincero che io abbia mai visto dentro al Welt.
Abbassa la fronte, e una ciocca di capelli gli cade davanti agli occhi.
“Grazie, dottore.” Sussurra.
Le sue guance si rigano di lacrime.
 
“Allora, è tutto chiaro? Basta che voi usciate dal corridoio, poi torneremo a prendervi.” Dico, schiarendomi la voce.
Nel corridoio si respira decisamente un’aria più fresca e leggera. Un toccasana per la mia voce arrochita.
Carriedo stringe le braccia attorno a Lovino, sistemandoselo sulla spalla. Il ragazzo è ancora steso come uno straccio, ma la sua espressione è più serena. Ora sembra davvero che stia solo dormendo.
Carriedo sorride e chiude le palpebre, voltando già i piedi verso l’uscita.
“Certo, ho capito. Vi aspetteremo fuori, così Lovino avrà ancora tempo per riprendersi.” Risponde con voce incalzante.
Feliciano, alle mie spalle, annuisce subito stringendo i pugni davanti al petto.
“Sì, e poi torneremo a casa tutti insieme. Anche con Kiku, ovviamente!” Esclama raggiante.
Gilbert, dietro di noi, punta già l’occhio verso le altre stanze, per nulla interessato dai nostri discorsi.
“Allora vado.” Dice Carriedo.
Prima di andarsene definitivamente, però, allunga la mano aperta verso di me. Io abbasso gli occhi sul suo palmo, e li ruoto nuovamente verso il suo viso. I suoi occhi ardono di speranza.
“Grazie davvero, dottore. Mi dispiace per tutto quello che ho combinato.”
Io sollevo le sopracciglia. Quando rilasso il viso, le palpebre mi ricadono davanti agli occhi. Piego le labbra in un leggero sorriso e stringo quella mano gracilina in una morsa decisa.
“Vedi di non farti più vedere qua dentro, intesi?”
Carriedo annuisce. “Promesso.”
La nostra stretta si scioglie e lui si volta, iniziando a percorrere il corridoio. La luce bianca lo inghiotte.
Feliciano solleva un braccio, gesticolando per aria come aveva fatto con Kiku.
“Ciao, Antonio! Prenditi cura di Lovino mentre ci aspetti!”
Carriedo si gira un’ultima volta, ricambiando il gesto. Solleva il gomito, scuotendo la mano con un movimento lento. Il suo viso continua a sorridere.
Lovino, ad un tratto, socchiude un occhio e una minuscola scintilla nocciola sbuca tra le sue palpebre. Le sue dita si stringono attorno alla stoffa che fascia la schiena di Carriedo. Lentamente, però. Sono ancora deboli.
Il luccichio ruota verso l’alto, puntando il capo di Carriedo sopra di lui. Le labbra di Lovino si schiudono, lasciando scivolare parole mute, sussurri che non arrivano alle mie orecchie. Carriedo solleva la mano distesa sul fianco e la avvicina al braccio cinto attorno al busto di Lovino. Gliela batte delicatamente sotto la spalla un paio di volte. Lovino piega la bocca in un ghigno, mormora qualcos’altro, inarcando le sopracciglia scure, poi la sua testa torna nuovamente a ciondolare. Cade abbandonata sulla schiena di Carriedo, rimbalzando sotto i suoi passi.
Lovino avvolge le mani attorno alla stoffa, affondandoci il viso. Il ragazzo si addormenta di nuovo ma, questa volta, si sveglierà felice.         

   
 
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