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Autore: hellrid    23/08/2013    2 recensioni
Non era lei. Non poteva essere la mia Annie: come aveva potuto, quella ragazzina dolce e imbarazzata, diventare così cinica e superficiale? Mi trovai, mio malgrado, a sorridere amaramente, mentre la voce dell'inviata di Capitol City, Annabelle Delacourt, rimbombava nella mia mente. «Felici sessantasettesimi Hunger Games!» diceva «Possa la fortuna essere sempre a vostro favore!»
E fu allora che capii: Annie non era impazzita. Non era nemmeno diventata, improvvisamente, una brutale assassina. Cercava di essere forte, perchè sapeva che l'unica cosa che volevo fare in quel momento era distruggere quella dannata carrozza ristorante pezzo dopo pezzo, in lacrime. Istintivamente, mi avvicinai a lei senza dire una parola e la baciai. Le accarezzai le guance, trovandole calde ed umide: non ci dicemmo una parola, quella notte. Semplicemente, restammo abbracciati e piangemmo insieme.

Finnick/Annie, ovviamente! Il rating potrebbe modificarsi mano a mano che la storia si sviluppa.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Heal me with your holy touch.

La bambina continua a sorridermi, mentre io trovo sempre più difficile formulare un pensiero coerente: ovviamente, sto morendo dissanguato. Deve essere così, perchè io non ho mai avuto problemi a parlare con le altre ragazze, a scuola, nemmeno con le più grandi. Improvvisamente, la vedo distogliere lo sguardo dal mio, come se si fosse ricordata di qualcosa di così importante da esigere la sua immediata attenzione. Apro la bocca, come a voler dire qualcosa, ma è lei a precedermi: la sua voce ora è tranquilla e squillante. «Bene, grand'uomo, sei molto fortunato, sai? Già, perchè so esattamente cosa fare, ora. Ma prima dimmi qualcosa di te!» Sgrano gli occhi, sorpreso: ma a che gioco sta giocando?

Lei inarca un sopracciglio, incitandomi a parlare: sono un po' confuso, ma decido di darle retta. Lei sa cosa fare, dopotutto, no? «Mi c-chiamo Finnick, ho sette anni e... Ah, fa piano, che cavolo!» mi lamento, tirando via il braccio ferito dalle sue mani con uno scatto secco della spalla. Non capisco esattamente cosa abbia combinato fino a che non la vedo sventolare trionfante un frammento bianco di conchiglia, lungo almeno quattro centimetri, imbrattato di sangue.

La piccola si avvicina nuovamente a me, con fare incoraggiante. «Non fare quella faccia! Ti ho solo distratto un po' mentre io pensavo alla parte più dolorosa. Beh, forse non proprio la più dolorosa, ma...» «Frena, frena, frena! Cosa vuoi fare, adesso? Lo sai che quando si viene feriti, non si deve togliere l'arma dal corpo? Si può morire dissanguanti!» Mio malgrado, assumo lo stesso tono saccente che ho con mio fratello quando non riesce a capire un concetto elementare. Poi mi ricordo che, probabilmente, alla gente non piace sentirsi parlare in questo modo: perlomeno, a Nate non piace e mi picchia sempre quando “non gli porto il rispetto che un moccioso come me gli dovrebbe”. Ma la piccola è diversa: chiude gli occhi e sospira, quasi spazientita, mentre si porta le manine ai fianchi. «Ti sei tagliato con una conchiglia, dolcezza. Nessuno ha provato ad ucciderti, mi sembra.» Mugugno qualcosa di incomprensibile riguardante il fatto che quella che ho di fronte non è una bambina, ma un piccolo mostro travestito da poppante, ma lei non sembra farci caso, mentre mi afferra la mano ferita. Dopo qualche secondo, si morde il labbro, pensierosa.

«Ehm, scusa se ti interrompo, ma... Non sto morendo, vero?» le chiedo, cercando di assumere un tono neutrale e indifferente: perchè io NON ho paura del sangue. No, assolutamente. E poi rifletteteci: non posso mica essere meno coraggioso di una femmina. Insomma, non ha senso! «No, non preoccuparti!» ridacchia lei, rivolgendomi uno sguardo veloce prima di tornare ad occuparsi della mia mano. «Non stai affatto morendo, ma non vorrei che la ferita si infetti. Dobbiamo disinfettarla, vieni!» A questo sono già preparato: ho visto mio padre farlo centinaia di volte, quando si taglia con il filo da pesca. La mia curatrice si avvicina alle onde, formando una piccola conca con le mani e raccogliendovi un po' d'acqua salata. Che, ovviamente, non esita a rovesciarmi sulla ferita: improvvisamente, il bruciore aumenta d'intensità, ma questa volta riesco a non urlare e ad emettere solo un piccolo gemito. Ripete l'operazione più volte, la piccola, fino a che non pulisce completamente la ferita che, nel frattempo, ha smesso di sanguinare.

Ma non sembra soddisfatta: ha un'aria preoccupata, quasi dispiaciuta, mentre la sua presa piccola ma salda continua a bloccarmi il polso. Non riesco a capirla, dal momento che sembra cambiare umore ogni trenta secondi – insomma, prima fa la saccente, poi la gentile, poi la simpatica, puoi nuovamente la saccente e ora è triste -, ma sento lo strano desiderio di vederla sorridere di nuovo. «Ehi, che ti succede? Dovrei essere io quello preoccupato, ho appena rischiato di morire!» ridacchio, cercando di assumere un finto tono melodrammatico. So che probabilmente, a questo punto, lei mi prenderà in giro come ha fatto prima, ma non mi interessa più di tanto: è sempre meglio che vederla con quell'espressione abbattuta. Lei, comunque, non sembra prestarmi attenzione, perchè non solleva lo sguardo dalla ferita. «Ti fa ancora tanto male?» chiede, con un filo di voce.

È veramente preoccupata per me?” mi ritrovo a pensare, improvvisamente felice. Cioè, voglio dire, sorpreso, perchè uno non può essere felice perchè una conosciuta da nemmeno cinque minuti pensa a lui. Giusto? «No, non preoccuparti, va molto meglio!» mento: in realtà, credo che la ferita mi faccia più male di prima, ma non è colpa sua, è inutile che lo sappia. Le sollevo il mento con due dita, cercando di non spaventarla, per fare in modo che mi guardi. «Dico sul serio! Guarda come la muovo bene!» esclamo, aprendo e chiudendo le dita della mano ferita. Cerco di rimanere impassibile al dolore, ma non devo riuscirci molto bene: non appena la piccola mi guarda in viso, scoppia a ridere, nonostante abbia gli occhi leggermente lucidi. «Allora sono veramente brava!» dice, soddisfatta, prima di cominciare a guardarsi intorno concentrata.

Nemmeno questa volta riesco a capire cosa le passi per la testa, mentre si allontana da me e afferra qualche alga trascinata dalla marea sulla spiaggia. Ne osserva di vari tipi e colori, esaminandole accuratamente, prima di rigettarle tutte al proprio posto. Qualunque cosa stia cercando, la sua espressione corrucciata mi dice che non la trova. Alla fine si osserva le braccia fasciate dal suo bel vestitino rosa e scrolla le spalle. «C-che cosa stai facendo? Non vorrai mica farti un bagno, adesso!» So già che questa qui è un po' strana, ma quando la vedo togliersi il suo abitino di dosso mi lascia senza parole: completata l'operazione, si mette l'attaccatura della manica fra i denti e comincia a tirare con tutte le sue forze. Dopo qualche tentativo, le cuciture, per quanto ben fatte, cedono e la castana si ritrova fra le mani un vestito stracciato. «Perchè l'hai fatto?» chiedo, preoccupato: forse vuole farmi uno scherzo e mettersi a urlare, chiedendo aiuto e richiamando qualche Pacificatore, dicendo che l'ho aggredita. Sarei spacciato: i Pacificatori non sono proprio dei giocherelloni e non mi crederebbero mai, visto che lei è la figlia del Sindaco e, di conseguenza, è una delle poche persone che hanno il compito di proteggere.

Ma lei non urla: si avvicina ancora una volta a me e comincia a fasciarmi la mano con la manica del suo vestito. Incredibilmente, la piccola è bravissima: le sue dita si muovono abilmente intorno al palmo ferito, riuscendo in pochi secondi a creare un bendaggio coi fiocchi. So che, arrivati a questo punto, almeno un ringraziamento sarebbe carino, da parte mia, ma tutto ciò che faccio è rimanere a bocca aperta a fissare la bambina che finisce il suo lavoro e indossa di nuovo il suo abitino, ormai rovinato. Non riesco a capire cosa abbia in mente: insomma, nessuno può essere così gentile e non volere nulla in cambio, quindi decido di essere prudente e cercare di indagare.

«L'ho fatto perchè tu hai avuto la geniale idea di squarciarti la mano con un mollusco. Questo tipo di ferite ha bisogno di una fasciatura, se non vuoi rischiare un'infezione. E ti assicuro, non è un bello spettacolo.» risponde lei, secca, alla domanda che le ho posto qualche secondo fa. Non accenna a porre condizioni, ne a chiedermi di fare qualcosa in cambio, quindi decido che è il mio momento di dire qualcosa. «Grazie, ma... Il tuo bel vestito...» non riesco a terminare la frase, quindi abbasso lo sguardo, imbarazzato: probabilmente i suoi genitori si arrabbieranno parecchio, visto che quello non sembra il genere di abito che una comune ragazzina del Distretto 4 potrebbe permettersi di indossare, in un giorno qualunque. Lei aggrotta un sopracciglio, come se non capisse di cosa parlo, per poi ridacchiare nervosamente. «Oh, beh, non preoccuparti, tanto non mi piaceva tanto...»

Capisco che sta dicendo una bugia: il suo tono è troppo simile a quello che uso io quando, dopo un magro pasto a base di radici, dico a mia madre di essere pieno come un uovo per non farla preoccupare. Mi sto sforzando di trovare qualcosa di intelligente da dirle, quando una presa salda e forte mi afferra la spalla e mi scaraventa all'indietro: cerco di mantenere l'equilibrio, ma la spiaggia sabbiosa non mi aiuta e finisco con la schiena a terra. Cerco di rialzarmi in fretta, ma quando vedo la canna di un fucile a luce solare a due centimetri dal mio naso, capisco che fare movimenti troppo bruschi non sarebbe così intelligente da parte mia. Un uomo che indossa un pesante mantello bianco mi osserva con disprezzo, quasi fossi un criminale fuggito di galera. Un Pacificatore. «Che diavolo stai facendo qui, ragazzino?» Mi dice, avvicinando la sua arma al mio viso: ormai deve essere a pochi millimetri dalla fronte. «I-io... Beh, ecco, io...» “Pensa, Finn, pensa a qualcosa di credibile!” mi dico, cercando di far funzionare il cervello. Non posso dire che sono venuto qui a cercare del cibo, o mi ucciderà. «Posso spiegarle io, signore.» La voce della bambina è rotta dal pianto e solo allora capisco di essere completamente fregato. Non avevo fatto i conti con lei: non è cattiva, ma non ha mai dovuto aver paura dei Pacificatori. Anzi, di sicuro li considera come delle guardie del corpo: racconterà tutto a quest'uomo e io mi beccherò una ventina di frustate in piazza. Se tutto va bene. «M-mi ero arrampicata su uno scoglio. Io credevo che fosse divertente, capisce? Ma arrivata in cima mi sono spaventata e non sono più stata capace di scendere! Io, oh, ho avuto così paura!» esclama, scoppiando in lacrime, abbracciando le ginocchia del Pacificatore.

Non so veramente cosa dire: quasi quasi ho voglia di mettermi a piangere pure io e di gettarmi ai suoi piedi. Ma la canna del fucile è ancora troppo vicina alla mia bellissima faccia per rischiare di muovermi. «Tranquilla, piccola. Ma dimmi, lui cosa c'entra?» Mi stupisco di quanto il tono del Pacificatore sia conciliante, con lei: ma dopotutto, sta sempre parlando con la figlia del Sindaco Cresta. Non esiterebbe a ucciderla, se ce ne fosse bisogno, ma i funzionari di Capitol City ci tengono parecchio alle apparenze. «Questo bambino è arrivato e mi ha trovata là sopra. Allora si è arrampicato anche lui e mi ha aiutata a scendere! La prego, non gli faccia del male, è stato così buono!»

È incredibile: sembra veramente che sia andata così, a giudicare dalla sfumatura di paura che trapela dalla sua voce. Il Pacificatore sembra bersela, perchè allontana leggermente il fucile dalla mia faccia. Ma quando parla, il suo tono di voce è nuovamente duro. «E allora dimmi, piccola, perchè il tuo abito è rovinato?» Sembra una domanda casuale, ma non ci vuole un genio per capire che il Pacificatore non è pienamente convinto della storia. Panico. Anche negli occhi della mia piccola salvatrice, per una frazione di secondo, vedo scorrere una scintilla di terrore. Mi guarda, emettendo un piccolo verso dalla bocca leggermente dischiusa, come se stesse cercando la soluzione di un quesito di cui non conosce la risposta. Sto per confessare tutto: non posso permettere che, dopo quello che ha fatto per me, le succeda qualcosa. Dopotutto, io ho infranto la legge e io ne pagherò le conseguenze. Sto per cominciare a parlare, quando lei mi rivolge uno sguardo assassino: ha capito le mie intenzioni e, silenziosamente, mi sta lanciando un messaggio chiarissimo. “Prova-a-dire-una-sola-parola-e-ti-conviene-sperare-che-i-Pacificatori-ti-uccidano-altrimenti-lo-farò-io”. Senza smettere di guardarmi, la vedo rilassare le guance, prima che ricominci a parlare, con un tono leggermente indispettito. «Ma come, non lo sa? I vestiti asimmetrici sono l'ultima moda di Capitol City. Ma sono sicura che un uomo del suo calibro sia già a conoscenza delle ultime tendenze, vero?» Quella bambina è mostruosa. Davvero, sembra un'adulta, mentre fissa il Pacificatore con circospezione: l'uomo tossicchia, leggermente imbarazzato, borbotta delle scuse incomprensibili e se ne va velocemente. Sono letteralmente allibito, non ho mai visto nessuno sbeffeggiare in questo modo uno di quei tizi: questa deve essere, probabilmente, la bambina più coraggiosa che sia mai esistita in tutta la storia di Panem.

La sento sospirare di sollievo, quando l'uomo si è allontanato così tanto da essere diventato invisibile: improvvisamente, sembra che tutta la sua forza l'abbia abbandonata, mentre si lancia addosso a me e mi abbraccia, affondando la testa nel mio petto. «Sai, gran fusto, adesso sì che puoi dire di essere stato vicino a farti ammazzare.» bofonchia. Non posso fare a meno di scoppiare in una risata liberatoria, mentre, goffamente, le cingo la schiena con le braccia. «Dai, ti riaccompagno a casa!» le dico, slacciandomi dall'abbraccio e prendendole la mano. È un gesto che compio senza pensare e, quando mi rendo conto di ciò che ho fatto, sento nuovamente le orecchie andarmi a fuoco; lei comunque non fa niente per farmi capire che le dispiace, quindi non mollo la presa. «Sai, è un po' inquietante che una bambina della tua età sia così brava a dire le bugie, te l'ha mai detto nessuno?» dico improvvisamente, per rompere un silenzio che si sta facendo imbarazzante. Questa volta è lei ad abbassare lo sguardo, leggermente a disagio. «Non mi piace mentire, ma papà dice che qualche volta è giusto dire le bugie, se la verità può fare male a qualcuno.»

Mi torna alla mente quello che, poco più di un'ora prima, avevo pensato di quella bambina. Viziata, volubile, debole. Scuoto la testa e sorrido, pensando a quanto mi fossi sbagliato. «Qual è il tuo sogno?» mi chiede, interrompendo il flusso dei miei pensieri. La guardo come se fosse una strana creatura con otto braccia. Che domanda è? “Ti ha salvato la vita, Finn, il minimo che le devi è un po' di educazione!” mi dico, mentre cerco di trovare una risposta decente. «Non lo so, non ci ho mai pensato...» dico, semplicemente. Le sue labbra si stringono: la risposta non l'ha soddisfatta. «Il mio sogno è diventare una guaritrice.» dice, all'improvviso. «Sì, insomma, aiutare quelli che ne hanno bisogno, come ho fatto con te prima. Sento che è questo quello che voglio. E dovresti trovarti un sogno anche tu. Sai, mia mamma dice che solo quando si smette di sognare, si comincia a morire.» Lo dice con semplicità: di sicuro è una di quelle frasi che le madri tramandano alle figlie per generazioni. Mia mamma potrebbe scriverci un libro, con tutte queste sentenze. Ma quella mi colpisce particolarmente. Rimango in silenzio a pensare, stringendo sempre la sua mano, fino a che lei non interrompe, per la seconda volta, i miei pensieri. «Beh, io sono arrivata, quindi, beh... Ciao, Riddick!» Roteo gli occhi al cielo, un po' innervosito. «Mi chiamo Finnick, non Riddick!» Nonostante io odi che si storpi il mio nome, questa volta non posso fare a meno di sorridere. La bambina sta già percorrendo il vialetto di casa sua, quando mi rendo conto che devo assolutamente chiederle una cosa. «Ehi, aspetta, non mi hai detto la cosa più importante!» la richiamo a bassa voce, cercando di non attirare troppo l'attenzione degli altri abitanti della casa. Dopotutto, suo fratello è un bestione più grosso di Nate e io voglio abbastanza bene al mio riflesso allo specchio. Sì, insomma, è un tipo forte, mi dispiacerebbe cambiargli i connotati.

Ma lei mi sente e si gira verso di me, curiosa. «Che cosa?» Ancora una volta, il suo sorriso mi colpisce come un cazzotto alla bocca dello stomaco. «Il t-tuo nome.» balbetto senza fiato, distogliendo lo sguardo da quegli occhi verde smeraldo così brillanti. «Annie!» esclama contenta, come se dicendomelo si fosse tolta un peso dalle spalle. Chissà perchè, la cosa mi sorprende. Mi sarei aspettato un nome nobile, altisonante, lungo. Non di certo Annie. “Le sta bene, però!” mi ritrovo a pensare, sorridendo. «Allora, Annie, c'è una cosa che ho bisogno che tu sappia.» Ora non ho più paura. Qui non si tratta più di discorsi personali, ma di orgoglio. Lei non parla, ma la sua espressione mi incita a continuare.

«Sono in debito con te. Sì, insomma, per prima, cioè, sì, hai capito. Ti devo un favore. Forse anche più di uno. Okay, sì.» Non so cosa mi prenda, ma pronuncio questo semplice concetto a scatti, come farebbe un disco che sta per rompersi. Lei scoppia a ridere, come se quello che le ho detto fosse la barzelletta più comica del mondo. Con chiunque altro mi sarei arrabbiato, ma non con lei: la sua è una risata troppo innocente per essere di scherno. Quando si riprende, si appoggia il mento nell'incavo fra il pollice e l'indice della mano destra, assumendo una posa riflessiva. Cammina nella mia direzione, mentre pensa a cosa può ottenere da uno come me. Deve aver capito che non scherzo e che farò ogni cosa che lei mi chiederà. «Adesso che ci penso, sì, ci sarebbe una cosa che vorrei che tu facessi.» La guardo, un po' spaventato da tutto quel mistero: spero che non mi chieda di correre in piazza nudo. Sono veloce, ma se qualcuno mi riconoscesse sarebbe veramente imbarazzante. Ma quello che Annie mi chiede mi coglie ancora più di sorpresa. «Ti andrebbe di essere mio amico? Sì, insomma, ho cinque anni, ancora non vado a scuola e sto sempre a casa da sola! Mio fratello non gioca mai con me e, ecco, se tu ne hai voglia, qualche volta...» Questa volta, è lei a distogliere lo sguardo dal mio, mentre, imbarazzata, comincia a fissarsi le scarpe. E questa volta, sono io a scoppiare a ridere, sollevato. «Certamente, Annie, sarà un vero piacere!» le dico, prima di scoccarle un sonoro bacio sulla guancia, voltarmi, e correre a casa. È strano, solitamente non faccio amicizia con le ragazze, perchè sono noiose e parlano solo di bambole e pony. Insomma, i maschi sono molto più divertenti: si può giocare a calcio con le pigne oppure fare le gare di nuoto. Ma questa volta, non mi è costato niente accettare l'amicizia di una bambina, peraltro più piccola di me.

Perchè quella che mi era sembrata una mocciosa viziata, volubile e debole, è in realtà, la ragazzina più gentile e coraggiosa di Panem. E vuole essere mia amica. Che altro mi serve per essere contento?

 

RID'S MEMOS:
Grazie mille a chiunque abbia recensito la storia o l'abbia messa fra le seguite!
Scrivere di questi due è veramente una cosa esaltante, anche perchè sono troppo belli come coppia. 
Sappiate che qualsiasi recensione, tanto positiva quanto negativa, è assolutamente ben accetta! 
Una domanda: voi chi immaginate come "volti" di Finn ed Annie da bambini? E da adolescenti? E da adulti? 
Fatemi sapere, grazie mille a chiunque abbia avuto il coraggio di arrivare fin qui! ;)

  
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