Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: SAranel    24/08/2013    8 recensioni
John è un bambino che di crescere non ha proprio nessuna fretta. Sherlock, invece, è già diventato adulto. Forse, tutto ciò che gli occorre, è avere John accanto a lui. Anche solo per un giorno.
"Dicevo che è inutile" improvvisamente dice e John sussulta per la sorpresa. Non si aspettava che avrebbe parlato di nuovo.
Lo osserva bene in viso, cercando di notare tutto quello che aveva immaginato ci avrebbe trovato, pensando ad un loro ipotetico incontro. Tutto ciò che vede è un viso niveo, un naso importante, labbra forse troppo pallide e un paio di strani occhi azzurri. Si sente stupido.
"È inutile cosa?" chiede, sperando di non sembrargli idiota come invece sente di essere. Sherlock alza le spalle, indicando la bestiola che John ancora tiene tra le mani. Quella cinguetta, come avesse capito di essere al centro delle loro attenzioni.
"Quella cosa che hai fatto" Sherlock risponde, con un tono che a John non piace proprio. "Quel cosino morirà lo stesso".[...]
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera insostituibile fandom del mio cuore!
Questa ho cominciato a scriverla sul mio cellulare almeno un paio di settimane fa. Ieri sera l’ho ripresa e, inaspettatamente, completata senza nemmeno accorgermi del tempo che passava.
Mi auguro con ogni fibra del mio cuore di non aver fatto male!
Buona lettura,
 
Sara
 
 





Broken Wings (See you soon, see you never)
*
 
 


 
 
 
 
John non sa cosa cosa ritenere più morbido, se il piccolo ciuffo di piume sotto il becco sottile o la punta delicata della piccola ala.
Stringe il piccolo esserino tra le mani, come se stia custodendo nel comodo rifugio delle sue dita intrecciate qualcosa di infinitamente prezioso e frangibile. L’uccellino cinguetta, allo stremo delle forze, e John lo accarezza sulla testolina piumata con la punta del suo piccolo indice, sorridendogli come se la bestiola possa effettivamente beneficiare di quel gesto. Quella emette un altro verso, più stridulo. Il sorriso svanisce pian piano dal viso di John.
“Shh” il bambino però sussurra, ben certo di poter alleviare il dolore del suo piccolo amico. “Andrà tutto bene”.
L’uccellino lo colpisce dolcemente con il becco, pungolandogli la punta del pollice e pizzicandola leggermente. John trattiene un mugolio e morde la lingua stringendola tra gli incisivi, tentando di concentrarsi il più possibile sul suo lavoro.
”Sta fermo” dice, come se quello sia un bambino terribilmente discolo. “Vuoi guarire o no?”.
L’ala è assai danneggiata ma John non si lascia abbattere. Si appoggia contro la corteccia ruvida della sua quercia e ne ruba un rametto, quello che sarà –almeno per i prossimi giorni- l’unica speranza di guarigione per il suo nuovo amico.
Cerca di ignorare il cinguettio di disperazione del volatile e tende l’ala per potervi legare la rudimentale stecca di fortuna. Un piccolo laccio fa la sua comparsa da una delle tasche del bermuda di John e questi non perde ulteriore tempo per legarlo saldamente intorno all’ala e al ramoscello. Appena sistema il nodo, stringendolo ben bene affinché non si slacci, allenta la presa sulla bestiola e rimane a guardarla, come a voler immediatamente riscontrare i benefici della sua medicazione.
L’uccellino non si muove granché ma il suo flebile verso sembra farsi più forte, come stia urlando alla sua rinnovata –o quasi- salute. John sorride di nuovo, senza nemmeno concepire la possibilità che quel versetto non significasse niente, ancora lontano dall’esser conscio che –con ogni probabilità- quella fasciatura d’emergenza non sarebbe durata oltre una notte.
John non ci pensa, comunque. È ancora in quella fase dell'infanzia in cui si è convinti che il bacio della mamma possa davvero curare un mal di pancia, in quegli anni meravigliosi in cui una sbucciatura al ginocchio durante una partita a pallone equivale ad una medaglia al valore sul campo. John fa del bene. E la sola consapevolezza del suo gesto gli basta per stare in pace con se stesso.
"Lo sai che non serve a niente, vero?" una voce lontana distoglie l'attenzione di John dal suo paziente.
Il bambino dai capelli chiari si guarda intorno, indeciso tra l'essere spaventato dalla presenza di un estraneo o tranquillizzato dal fatto che, a giudicare dalla voce, quello sconosciuto sia un ragazzino come lui.
Non c'è nessun'altro, lì alla radura del pozzo. Solo una voce che forse ha immaginato, magari soltanto il metodo marchingegnato dalla propria mente per dirgli 'è tardi, dovresti andare, potrebbe essere pericoloso restare qui'.
John però non si muove. Guarda il cespuglio di uva spina muoversi leggermente sotto la spinta della debole brezza, così come la macchia di tarassaco che circonda la base in mattoni del vecchio pozzo.
Il querceto è silenzioso e nessun rumore, fruscio o frinito di grillo lascia intendere che davvero qualcuno abbia parlato, solo pochi momenti prima.
C'è il rumore di un sasso che cade nel pozzo, seguito dal suono acquoso degli schizzi di fanghiglia che colpiscono la superficie dopo l'urto.
Il cuore di John batte forte, ma lui è coraggioso, non scappa via. O meglio, cerca di attribuire al coraggio la sensazione che gli ha reso le gambe tanto pesanti da non permettergli qualsiasi movimento.
"Chi è?" trova il coraggio di dire, gridare, urlare. Intorno a lui nulla si smuove, nessuno stormir d'ali o fuggi fuggi di lucertole spaurite. Si rende conto che è solo nella sua testa che ha urlato. Ciò che la sua lingua ha scandito e la sua voce liberato, non è stato altro che un sussurro.
"Io" però, quella volta, qualcuno risponde. John non se l'è immaginato, proprio per niente. Come a dimostrargli solidarietà, il piccolo volatile sbocconcella un lembo del laccetto intorno alla sua ala.
Il bambino che spunta fuori da un piccolo pertugio rasente il pozzo, non è nuovo agli occhi di John. In realtà di persona non l'ha mai visto prima, ma ne ha sentito così tanto parlare che gli sembra di conoscerlo da sempre.
"Oh" John dice, fissando il viso malaticcio del ragazzino dai capelli scuri. "Sherlock Holmes".
Il bambino chiamato Sherlock Holmes abbassa lo sguardo e si morde un labbro, pensieroso. Si sostiene alla struttura di mattoni, come se non riuscisse a reggersi tanto bene in piedi.
"John Watson" dice poi. John annuisce, non trovando per niente strano il fatto che l'altro conosca il suo nome.
"Tua mamma è venuta da noi qualche volta" il ragazzino biondo esclama, senza abbandonare la presa sul suo paziente. "A chiedere di papà".
Sherlock non risponde ma si avvicina e John è intimorito dal fatto che potesse sederglisi accanto. Nonostante tutto gli fa posto e Sherlock si siede nel piccolo angolino sterrato in mezzo all'erba, fissandosi le punte delle scarpe e abbracciandosi le ginocchia.
John si sente in colpa, un bel po'. Sa che non è colpa di Sherlock se ha quello che ha, e sa altrettanto bene che non dovrebbe avere paura di lui come se uno di quei matti che fanno arrabbiare il papà quando guarda il telegiornale.
È stranito piuttosto, sconvolto. Lo è ogni volta che pensa a Sherlock.
"Dicevo che è inutile" improvvisamente dice e John sussulta per la sorpresa. Non si aspettava che avrebbe parlato di nuovo.
Lo osserva bene in viso, cercando di notare tutto quello che aveva immaginato ci avrebbe trovato, pensando ad un loro ipotetico incontro. Tutto ciò che vede è un viso niveo, un naso importante, labbra forse troppo pallide e un paio di strani occhi azzurri. Si sente stupido.
"È inutile cosa?" chiede, sperando di non sembrargli idiota come invece sente di essere. Sherlock alza le spalle, indicando la bestiola che John ancora tiene tra le mani. Quella cinguetta, come conscio di essere al centro delle loro attenzioni.
"Quella cosa che hai fatto" Sherlock risponde, con un tono che a John non piace proprio. "Quel cosino morirà lo stesso".
A John non sembra una cosa carina da dire. Si è prodigato tanto per quel piccolo esserino, ci ha messo lo stesso impegno che impiegherà quando sarà grande e diventerà un dottore. Avrebbe volato ancora, John non aveva avuto dubbi sin dall'inizio. Fino a quel momento.
"Non è vero" risponde con una sicurezza non più solida quanto prima. "Sta meglio".
Sherlock sbuffa, fissando la puleggia arrugginita del pozzo.
"Lo riporterai all’albero su cui l'hai trovato, come con tutti gli altri" John non chiede come sapesse dei giorni precedenti. "Proverà a volare. Cadrà. Qualcosa lo mangerà. Fine" aggiunge, con fare drammatico.
Non gli è granchè simpatico. Si sente in colpa a pensarlo. Non sa se sia peccato essere in disaccordo con qualcuno che sta per morire.
"Dici cose brutte" John aggiunge e sa di essere sembrato sicuramente uno stupido a quella tornata. Sherlock lo guarda e sembra avvalorare quel pensiero.
"Dico la verità" il ragazzetto esclama, senza guardare John.
Il biondino vorrebbe rispondere a tono, ma ha paura di farlo. Per un secondo dimentica addirittura chi ha davanti.
Ricorda perfettamente la prima volta che aveva sentito parlare di Sherlock Holmes.
Probabilmente era successo la settimana del loro trasloco, dopo cena. In seguito quel nome sarebbe spuntato fuori innumerevoli volte in altrettante innumerevoli conversazioni.
John si era appollaiato in cima alle scale e aveva sentito il padre parlare del suo nuovo piccolo paziente.
"Sherlock", aveva detto, "Sherlock Holmes".
Aveva letto da qualche parte che suo padre, come ogni bravo dottore, non avrebbe dovuto sbandierare ai quattro venti dei suoi pazienti, ma non aveva mai dato tanto rilievo a quel pensiero. Da quando ricordava, il papà aveva sempre raccontato tutto alla mamma e John aveva sempre adorato quel particolare del loro rapporto.
Era uscito fuori che la mamma aveva conosciuto Mrs Holmes durante il giro del nuovo vicinato e che quest’ultima non aveva esitato a invitarla in casa per una tazza di thè. Non c'era voluto molto perché i modi gentili di Mrs Watson facessero breccia nel cuore dell'altra donna. Le aveva raccontato tutto di suo figlio e lei di John.
John avrebbe voluto sapere che cosa Mrs Holmes avesse raccontato a sua madre, ma Harry lo aveva preso per le orecchie e rimproverato sulla sua abitudine di origliare, trascinandolo in camera sua.
Aveva scoperto tutto il giorno dopo, a scuola.
Sherlock Holmes era malato, anche se John non era riuscito a sapere -o forse capire- cosa avesse. Non andava a scuola da mesi, e il suo banco in fondo all'aula era rimasto vuoto dal suo primo giorno fino all'inizio dell'estate.
Un pomeriggio aveva trovato il coraggio di chiedere di lui alla mamma. Lei gli aveva sorriso e lo aveva accarezzato in viso.
Quel giorno aveva scoperto che Sherlock sarebbe morto prima di compiere dieci anni.
La mamma lo aveva abbracciato, dopo, come per imprimersi sulla pelle la propria fortuna, la propria benedizione.
Da quel giorno, John aveva cominciato a pensare molto a Sherlock.
John prova ancora la stessa stranissima sensazione di sempre. È una tristezza quasi solida, impalpabile ma presente, che aleggia intorno a loro come un fantasma irrequieto.
Sherlock è il mattone che colpisce un vetro di solide convinzioni, il proiettile che spara un colpo letale ad un uomo sano e in forze.
I bambini non muoiono, John aveva sempre pensato, fino a poco tempo prima.
Sherlock l'ha reso adulto prima del tempo.
"Era forte, prima di oggi" John torna a dire. "Sarà forte anche adesso".
Sherlock stende le gambe e mette una mano davanti alla bocca, come se volesse scoppiare a ridere e desiderasse allo stesso tempo evitarlo. Lo fissa con uno sguardo adulto, troppo per gli anni che ha, e scuote la testa.
"Chi ti mette in testa certe idee?" afferma, lanciando un sasso contro il muretto circolare del pozzo.
Non sa che rispondere, il piccolo John.
"Io" opta poi per mostrare un po' di autostima, "Ne sono sicuro".
Sherlock chiude gli occhi e porta un altro sassolino a raggiungere l'altro.
"È un problema tuo" poi dice, senza degnarlo di uno sguardo. "Non piangere quando lo troverai per terra, morto".
In quel momento, il ragazzo dai capelli biondi si arrabbia sul serio. Il viso gli diventa rosso e stringe le mani a pugno, ma più di così non sa fare e nemmeno vuole. Metabolizza sempre la rabbia a modo suo, John.
"Solo perché a te va tutto male non vuol dire che debba essere così per tutti".
Si odia subito dopo averlo detto. Vorrebbe tornare indietro nel tempo e ingoiare quella linguaccia. Arrossisce ancora di più, ma nulla c'entra la rabbia.
Sherlock fissa John con espressione indecifrabile, nella quale John può veder balenare incredulità, paura e quasi odio, per un secondo. Il cuore gli si ferma -o almeno così gli sembra- per un attimo, quando ripensa per la millesima volta in pochi secondi a quello che ha detto.
Sherlock non risponde. Quel silenzio preoccupa John ancora di più.
Quello lancia un altro sasso e una pioggia di pietruzze gli colpisce le punte dei piedi.
"Mi è sempre piaciuto venire al pozzo" poi Sherlock parla di nuovo, non dicendo affatto quello che John si sarebbe aspettato.
"Anche a me" sussurra John, di risposta.
"Non so nuotare" aggiunge Sherlock separando leggermente le gambe e seguendo il lungo viaggio di una formica fino alla sua tana.
"Io sì. Non tanto bene, però".
Sherlock, inaspettatamente, gli sorride. John si sente ancora più in colpa, ma non dice niente né trova il coraggio di chiedergli scusa.
"Ogni tanto penso a cosa succederebbe se mi sporgessi un po' troppo".
La sua voce è strana, John non sa come altro definirla.
"Tu a cosa pensi?" poi domanda a John, spiazzandolo.
"Sullo sporgersi?".
"Sul cadere".
Il biondino rimane interdetto a quella domanda. Nessuno gli ha mai chiesto una cosa del genere e lui ha paura di rispondere dicendo qualcosa di sbagliato.
Coraggio e sincerità lottano tra loro per vincere. La seconda ha la meglio.
"Non lo farei" John risponde, "Avrei paura di morire".
Sherlock sorride di nuovo, ma è un sorriso diverso e molto più bello di quelli precedenti. Probabilmente lo sta prendendo in giro, ma John non riesce a rammaricarsene.
"Ma come, John?" Il ragazzo dai capelli scuri esclama. "È quella la parte più bella".
John non capisce cosa ci sia di tanto bello, nel morire. È qualcosa che lo fa star male al solo pensiero, qualcosa che odia anche soltanto immaginare.
La risposta di Sherlock lo lascia interdetto, con una strana sensazione al centro del petto.
"Non capisco".
"È normale che tu non capisca" è la replica di Sherlock, "Non capisce nessuno. Mai".
John non vorrebbe dire ciò che sta per dire.
"Forse perché le persone normali non ci pensano. Perché a tutti gli altri importa vivere piuttosto che morire".
Sherlock si solleva e piano raggiunge il muretto del pozzo, facendo temere a John che possa davvero sporgersi fino a tuffarsi. Il ragazzino dai capelli scuri si affaccia sul buio abisso e lo osserva, meditabondo.
"Normali, John?" chiede e la sua voce rimbomba cupamente, "Io non lo sono?".
John apre e chiude la bocca, indeciso su cosa dire e su come ovviare a quel malinteso, lui che nessuna intenzione aveva di incappare in quel fraintendimento.
"Non-non come pensi tu" si affretta a correggersi, avvampando, "dico chi a morire non ci pensa. A chi...è lontano".
Sherlock scoppia a ridere e John si sente ancora peggio, se possibile.
"Non pensarci è la soluzione, dunque" il ragazzo ripete seguito dalla sua eco.
"Perché affrettare qualcosa che comunque accadrà? Qualcosa di brutto?" John dice, tentennando, "Perché non vivere tranquilli, fino ad allora?".
È dallo sguardo di Sherlock che John si accorge di quanto la sua affermazione sia stata sciocca. Probabilmente aveva detto qualcosa di sbagliato, anche se non riesce a comprendere esattamente cosa.
"Oh certo. Parla quello che stecca le ali spezzate agli uccellini".
"E tu sei quello che li uccide".
Sherlock ride. Non sembra turbato da quell'accusa.
"Qualche volta lo faccio" esclama e John non capisce se dica sul serio oppure no, "per risparmiare loro la sofferenza di quell'ala spezzata".
John non ha parole. Non sa cosa Sherlock provi, ha paura -e non esagera- di saperlo. Spera di non doversi mai trovare in necessità di farlo. Non vuole ferirlo ma neppure accettare ciò che dice senza ribattere.
"Non ha senso" il ragazzino più grande afferma, "Bruci ogni speranza. Spegni tutte le luci".
Un ramoscello finisce nel pozzo con un rumore acquoso e gradevole. Sherlock continua a gettarvi oggetti, quasi sia estremamente più interessante che stare ad ascoltare le chiacchiere di John.
"Mi piace il buio" afferma, senza nemmeno guardarlo, "Mi sento bene, al buio. Perché nessuno può guardarmi e spiattellarmi stupidaggini sulla vita e sulla speranza come te".
John si solleva dal suo posto felice e si dirige, con fare deciso e pugni stretti, verso Sherlock.
Gli si para davanti, dalla parte opposta del pozzo, e chiede con lo sguardo l'attenzione del suo compare.
"Sei uno sciocco" il biondino dice, ascoltando la propria eco, "sei già morto".
Il sorriso che compare sul volto del ragazzino pallido è malinconico e sarcastico allo stesso tempo. È la prima volta che John ne vede uno simile.
"Lo vorrei" Sherlock dice, a voce bassa, "Tanto".
Improvvisamente, John si ritrova a domandarsi perché Sherlock sia lì. Lo aveva sempre immaginato più magrolino, emaciato, un esserino insignificante perennemente costretto a letto. Il bambino che ha di fronte è magro oltre il limite del sano, ma ancora -apparentemente- capace di reggersi in piedi.
"Lo so cosa ti stai chiedendo" quello sembra leggergli nella mente, "Vorrei essere grande quanto mio fratello per capire cosa sia a tenermi in piedi".
John rimane a bocca aperta, con un'espressione da idiota che sembra divertire Sherlock enormemente.
"Posso-posso chiederlo a papà, se vuoi" John cincischia, "Davvero".
Sherlock scuote la testa, nuovamente pensieroso e immerso nella contemplazione dell'acqua sotto di lui.
"Meglio di no" risponde, "Tanto presto sarà inutile, come tutto il resto".
John non ribatte anche se vorrebbe. Non ha nulla di abbastanza intelligente e neanche minimamente confortante da dire, e si detesta per questo.
"Sai perché vorrei che succedesse qui?" Sherlock infrange il silenzio, poi.
John lo fissa e stringe istintivamente la base dell'arco di ferro arruginito, come se il discorrere di cadute lo esponesse effettivamente al rischio di ruzzolare al di là del bordo. Scuote il capo.
"Perché l'acqua mi fa paura. Sin da quando ero piccolo" risponde.
John non riesce a distogliere lo sguardo da lui.
"Non sai nuotare" dice, ripetendo le sue stesse parole.
"Già" Sherlock sembra contento di essere stato ascoltato, "E mi piacerebbe andarmene tentando qualcosa di cui ho sempre avuto terrore".
John non riesce a credere a quello che ha appena sentito.
Quella conversazione non gli piace. È cupa, triste, sbagliata. Per nulla consona a due bambini -chi più, chi meno- a malapena vicini ai dieci anni.
"Smettila, Sherlock" John gli dice, chiudendo gli occhi, "Finiscila".
Il ragazzo alto e magro non sembra volergli dare ascolto.
"Mi piace scoprire cose nuove. Da sempre. Sarebbe proprio bello" afferma, perso nei suoi sogni. Nei sogni più simili ad incubi che John abbia mai visto.
Tornano a sedersi, l’uno accanto all’altro.
John lo guarda, indeciso su cosa dire o cosa fare.
"Avevo un giocattolo preferito, una volta" poi si ritrova a dire, senza aver comandato al proprio cervello di prounciare alcunchè, "Un trenino. Un giorno lo lanciai troppo forte lungo la strada e quello finì contro un albero".
Sherlock lo fissa, indifferente.
"Che storia commovente" commenta, senza davvero pensarlo.
John sventola la mano in aria, per fargli comprendere che ha altro da dire.
"Dissi a mio padre che non ci avrei più giocato, che se l'avessi toccato avrei solo peggiorato il danno" racconta, raccogliendo tutto il coraggio che possiede, "Con dolore lo lasciai in soffitta ad arrugginire".
Sherlock abbassa lo sguardo e smette di fissarlo. John spera che colga il sottile paragone tra lui e il treno.
"Poi papà mi prese da parte e mi disse di accettare il rischio, di provare a salvare quel qualcosa a cui tanto tenevo. Io scoppiai a piangere e gli risposi che non sarebbe comunque mai più stato come prima".
"E avevi ragione" Sherlock esclama, per la prima volta completamente d'accordo con John.
Il biondo scuote il capo.
"No invece. Mi spinse a provare a ripararlo, a fare di tutto affinché potessi riavere indietro ciò che avevo perso".
Il ragazzino più giovane si morde un labbro e si guarda intorno, apparentemente contrario a continuare quella discussione.
"E com'è andata?" però chiede, in contrasto con la propria volontà.
John è felice che gliel'abbia chiesto.
"Il treno camminò. Non come prima, ma andava bene" John disse, con un sorriso. "L'importante era che andasse".
Sherlock lo osserva di nuovo con una strana curiosità. John si sente una bizzarra creatura studiata da una specie di scienziato.
Sembra che stia elaborando quello che ha detto, ma John non ne è sicuro. Potrebbe dargli ragione come, invece, potrebbe sminuire ogni parola. Lo sa.
Sherlock abbassa lo sguardo e sospira, ma non parla. É la prima volta che rimane in silenzio per più di un minuto e John si chiede se stia bene. Quando gli occhi di uno straordinario azzurro tornano a scrutare i suoi, la latente strafottenza di quel ragazzino ha lasciato posto a qualcosa che John non potrebbe definire con termine diverso da innocenza. Sembra ancora più giovane in quel momento, un neonato ancora bisognoso delle cure di una mamma amorevole. Il bambino che aveva conosciuto è lontano anni luce da quello che è con lui adesso.
"Il mio treno uscirà fuori dai binari" poi dice con voce rotta da una profonda emozione. "Sono un uccellino a cui una stecca non potrà mai sanare l'ala".
John è pieno di sconforto ma non lo da a vedere. Il bambino che gli sta accanto è già abbastanza giù di morale senza un ulteriore rincaro della dose. Vorrebbe continuare a parlargli, dirgli per l’ennesima volta di non demordere mai, ma si sentirebbe uno sciocco a continuare a promettere qualcosa che entrambi sanno non accadrà mai.
Sherlock non è un giocattolo. È fatto come lui, di sangue e ossa. Anche di quelle lacrime che vorrebbero scendere ma che non mollano, trattenute da un coraggio che Sherlock sta centellinando fino all'ultimo.
John osserva il piccolo fazzoletto di terreno tra le sue ginocchia, intravedendo uno dei piccoli rami che di solito usa nella sua clinica per gli uccellini. Lo afferra, lo rigira tra le dita con un movimento agile, cercando di dare un significato e un senso ai mille pensieri che si rincorrono nella sua testa. Percorre la lunghezza del rametto con un dito, sentendo ogni irregolarità del legno e ogni piccolo bocciolo che mai più crescerà.
Improvvisamente, qualcosa lo spinge a voltarsi di nuovo verso Sherlock.
Il bambino dai capelli scuri lo sta guardando e John è convinto non gli abbia staccato gli occhi di dosso nemmeno per un momento.
Gli sorride e Sherlock cerca in ogni modo d'imitarlo, ma è combattuto. Forse non capisce nemmeno lui perché le parole di John lo interessassero così tanto, adesso.
"Tieni" John poi dice, porgendo a Sherlock il rametto. "Sai cosa? La tua ala forse è messa tanto male che non guarirà mai. Ma fare un tentativo, a volte, non costa niente".
Sherlock lo guarda stranito e vorrebbe parlare, John lo vede. È probabile che il vecchio Sherlock sia in dirittura di ritorno, che il bambino spaurito sia stato soltanto un indesiderato incidente di percorso, ma a John non importa. Sfrutterà ogni momento buono.
Il rametto è flessibile, quasi elastico. John lo avvolge intorno al polso di Sherlock e lo fora leggermente alla punta, per creare una chiusura per quel braccialetto improvvisato.
Sherlock alza la mano e lo rimira da ogni angolazione, quasi sia una delle cose più affascinanti che abbia mai visto.
Guarda John con un’espressione strana, che però il biondino comprende, quasi parlassero entrambi la stessa lingua composta da movimenti del capo, piccoli fruscii di labbra e sorrisi appena accennati. John annuisce.
Il bambino più grande spera che basti, che l'aiuti. È come quando presta il temperamatite a Jeannie Templeton e lei gli sorride, piena di gratitudine perché grazie a lui farà un disegno più bello.
Vuole che Sherlock viva una vita più bella grazie a lui.
"È tardi" Sherlock poi dice, mandando giù il groppo in gola. "La mamma starà andando fuori di testa".
John si chiede se dovrebbe accompagnarlo ma non dice niente. È stupido l'imbarazzo che prova in quel momento, dopo aver condiviso con Sherlock quanto di più intimo possedesse, ma sente che se l’altro avesse voluto la sua compagnia, l'avrebbe chiesta.
Il ragazzino dai capelli scuri si alza ma non caracolla come prima. Fa un passo, poi un altro e sembra non aver mai avuto problemi in vita sua.
Sherlock guarda John e il bordo del suo labbro si piega all'insù come se volesse sorridere ma non riuscisse.
"Me la dici una cosa, John?" Sherlock dice, poi.
John è sorpreso di sentirlo parlare di nuovo ma annuisce, senza indugiare.
"Quel treno è ancora il tuo giocattolo preferito?".
John è ancora troppo piccolo per comprendere appieno le connotazioni nascoste della domanda, posta da un bambino più giovane eppure già adulto. Capisce abbastanza, però, da rispondere senza dubbio alcuno.
"Lo è" esclama. "Lo sarà sempre".
Sherlock annuisce, poi si volta. John lo osserva allontanarsi pian piano, aumentando sempre più il passo fino a stabilire un ritmo sostenuto. Diventa un puntino, grande, poi minuscolo, poi quasi invisibile.
John si chiede quando e se lo rivedrà. Qualcosa gli dice presto, qualcos’altro mai. Una terza voce, più saggia delle due sorelle, gli suggerisce un giorno.
Non sa a chi credere. Non sa neppure se ascoltarle o meno.
 
 
Quando John rivede Sherlock è mattina, e suo padre sta sfogliando le ultime pagine del giornale.
John sta bevendo distrattamente il suo latte macchiato quando scorge di sfuggita la piccola foto che riempie un angolo della pagina.
Il cuore gli arriva in gola e un senso di nausea improvviso minaccia di fargli presto rivedere la colazione appena trangugiata.
Mister Watson non può che accorgersene e e rivolge al figlio uno sguardo pieno d'apprensione. Osserva dove suo figlio ha fissato lo sguardo e assume un'espressione mesta, desolata.
"Non ti ho detto niente per non turbarti" il padre di John adduce come scusa. "Mi dispiace".
A John non dispiace. O almeno, il dispiacere non è abbastanza per descrivere ciò che prova. Si sente morire un po' dentro, come succede quando uno dei suoi pazienti muore dopo un evidente miglioramento. È come sentire i suoi uccellini cinguettare allegri prima di crollare sull'erba, inerti.
Quella mattina la mamma gli consente di restare a casa. Vorrebbe fare qualcosa, ma sa che non è del conforto di un adulto che John ha bisogno. Lo bacia sulla fronte e gli chiede se può uscire a fare la spesa. John annuisce. Non gli importa di restare solo. Si sente già come se lo sia.
Guarda fuori dalla finestra, con sguardo vacuo. Non è nemmeno l'azzurro striato di bianco, che vede. La scritta "Annegato" aleggia davanti ai suoi occhi, nera d’inchiostro, riempiendo tutto il biancore delle nuvole.
Qualcuno, poi, bussa alla porta. Crede che sia sua madre e non scende, sicuro che presto aprirà con le sue chiavi dopo aver posato le buste. Il trillo del campanello si fa più intenso e John è costretto ad abbandonare il suo cantuccio e scendere. Sarebbe rimasto lassù per sempre, se avesse potuto. A pensare a cosa avesse sbagliato, a cosa avrebbe potuto dirgli quel giorno per farlo stare davvero meglio.
La figura sulla soglia di casa sua, John non l'ha mai vista. È un ragazzo alto, dinoccolato e dall'aria più adulta dei sedici anni che probabilmente ha. Indossa un abito scuro che lo invecchia di dieci anni ancora.
"Sei John?" il ragazzo dice, studiandolo da capo a piedi. "John Watson?".
John annuisce perché nonostante sua madre gli avesse detto di non dare confidenza agli sconosciuti, quel ragazzo gli ha solo chiesto qualcosa che chiunque avrebbe potuto sapere.
"Eri amico di Sherlock?" poi domanda e John sente le gambe diventare molli, quasi si siano improvvisamente trasformate in gelatina.
È allora che nota di nuovo lo sguardo di quel ragazzo e il modo in cui lo osserva. Gli ricorda così tanto Sherlock che il cuore fa un salto, facendogli male.
"L'ho visto una volta sola".
E’ una risposta sciocca, lo sa. Lo ha sempre considerato un amico, nonostante quell'unico incontro.
"A lui è bastato" il ragazzo esclama, con un sorriso triste. "Sono suo fratello, Mycroft".
John non sa cosa rispondere perché non ha mai parlato così tanto con un ragazzo di quell'età in vita sua. Ha paura di apparire stupido, anche con lui.
"Mi ha detto di te, un giorno" Mycroft esclama, indifferente al silenzio di John. "Quando gli ho chiesto cosa fosse quel braccialetto che non toglieva mai".
John vorrebbe correre in bagno perché la pancia gli duole così tanto che vorrebbe urlare. Venire a conoscenza di quell'ultimo particolare, poi, gli fa più male che bene.
"Sei riuscito a farlo dubitare, voglio che tu sappia questo" il ragazzo sembra imperterrito nel voler continuare. "Era deciso nel fare quello che ha fatto, nonostante nessuno gli abbia mai dato tanta retta. Poi ha incontrato te, e qualcosa è cambiato".
John non lo guarda in viso. Il piccolo scalino davanti l'uscio sembra molto più interessante.
"Io non ho fatto niente" John finalmente riesce a parlare, a voce tanto bassa da essere appena udibile. È vero e non se lo perdonerà mai. Non ha fatto abbastanza quando avrebbe potuto.
"Hai fatto tutto, John" Mycroft inaspettatamente dice e John teme lo stia prendendo in giro. "Sorrideva, sai? Non lo ricordavo più il suo sorriso".
John invece lo ricorda come il più bello che abbia mai visto.
Non risponde. Non vuole vantarsi di averne goduto, non con lui.
"Ha scritto una lettera. Più un biglietto, in verità" Mycroft dice ancora. "E sopra ha lasciato questo".
John vorrebbe solo chiudergli la porta in faccia e tornare in camera sua ma è costretto, inevitabilmente, a sollevare lo sguardo. Quando i suoi occhi incrociano il rametto regalato a Sherlock, si riempiono di lacrime. Non riuscirà a trattenerle a lungo.
"Gli hai reso la vita sopportabile, almeno per un po'" il ragazzo è deciso ad andare fino in fondo nel suo discorso. "Era felice di vivere, nell'attesa di morire".
Mycroft gli porge il bracciale, intimandogli di prenderlo. John allunga un braccio, tremante, e lo afferra con la mano instabile. Lo stringe nel suo pugno, attento a non spezzarlo.
"Grazie" Mycroft poi dice, con uno sguardo sincero a cui i suoi tratti, John chissà come ne è sicuro, non sono affatto abituati. "Hai fatto tanto".
Dopo quell'ultima frase, il ragazzo indietreggia e torna sul viale. John non lo guarda scomparire alla fine della strada perché gli ricorda Sherlock e un'altro ricordo come quello minaccia di farlo scoppiare a piangere senza possibilità di scampo.
Guarda il braccialetto e lo avvicina al naso, quasi sperasse di sentire qualcosa del suo amico. È legnoso, verde, secco. Ma c'é qualcosa che John non conosce e che spera con tutto il cuore appartenga a Sherlock.
Alla fine, John non piange. Indossa il bracciale però, perchè è la cosa più giusta da fare e perché sarà sempre lì a ricordargli di una persona a cui lui ha salvato, in un modo o nell'altro, la vita.
Gli ricorderà per sempre del bene fatto ad un’altra persona. Quando diventerà dottore, forse lo farà vedere a tutti.
Sherlock se n'è andato, ma allo stesso tempo è ovunque. Forse John andrà al pozzo, più tardi. Ci andrà ogni giorno, dopo la scuola, a raccontare a Sherlock delle terribili interrogazioni della Maestra Donovan.
Getterà un ramo nell'acqua ogni pomeriggio, finchè se ne accumuleranno così tanti da prosciugarla. Salverà più uccellini, riparerà tutti i suoi giocattoli.
Improvvisamente, mentre osserva per la millesima volta il rametto allacciato al polso, si sente felice.
John si chiede di nuovo quando e se lo rivedrà. Ancora una volta qualcosa gli dice presto, qualcos’altro mai. La terza voce, sempre la più saggia, gli suggerisce un giorno.
Un giorno è una buona via di mezzo.
John può accettarlo.
 
 
 
 
 
 
 
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