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Autore: blackout    29/02/2008    6 recensioni
Da piccola ogni tanto pensavo di non esistere.
“Mamma, ma io sono un fantasma?” chiedevo e lei rideva.
“Ma che dici? Perché pensi questo?”
“Non lo so. Forse io non esisto. Le persone a volte non mi vedono; io le vedo, ma loro non vedono me.”
Ed era così che mi sentivo ora, un fantasma, sbiadito. Qualcuno poteva vedermi, qualcuno addirittura parlava con me, tutti gli altri neanche si accorgevano della mia presenza, della mia esistenza...

Una storia un po' triste, ma anche dolce, nel suo genere.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ Come un cielo nuvoloso

Camminavo e mi fissavo le scarpe.
Le mie All Stars bianche schizzate di fango si rincorrevano svogliate sul marciapiede lucido di pioggia, inghiottendo l’asfalto in piccoli passi.
Il cielo piangeva lacrime sporche che mi scivolavano lievi addosso con impalpabile insistenza, avvolgendomi come liquide mani dalle lunghe dita.
Procedevo velocemente, zigzagando tra le pozzanghere, sgusciando tra i passanti frettolosi che si dirigevano verso la propria meta.
Mi sentivo triste.
Senza un preciso motivo.
Guardavo quelle persone, che camminavano ricurve, con la testa infossata nelle spalle, cercando un’illusoria protezione sotto il proprio ombrello.
Studiavo i loro volti, seminascosti da una sciarpa o da un capello, cercavo i loro occhi, senza mai trovarli.
Sguardi muti che sfuggivano al mio. Ognuno prigioniero della propria solitudine.
Sospirai, leggermente.
In fondo la mattina non è poi così difficile intuire le sensazioni degli altri, ancora appannate dal sonno.
La lieve frustrazione causata dalla sveglia e dal suo trillare prepotente e meccanico, che ha intaccato, e in fine distrutto, quello sfuggente mondo di nebbia che ci avvolge quando dormiamo.
La pressante nostalgia del letto caldo, che, con voce sommessa e molle, sembra continuare a chiamarci, come se avesse bisogno della nostra presenza confortante, del nostro corpo avviluppato tra le coperte, ancora intrise di brandelli di sogni.
E quella malinconia, quel disagio scivoloso, che proviamo nel percorrere ogni mattina la solita strada, senza più scoperte, senza più emozione, senza stupirci più di niente; quella tristezza che impregna le quattro mura degli stessi luoghi di sempre, giorno dopo giorno… mura tra le quali ormai stiamo stretti.
E sentire dentro di noi che sarà sempre così. Che saremo sempre troppo lontani da ciò che desideriamo, uccisi dalla quotidianità della vita.
Ma in fondo si sa, l’uomo è volubile, i nostri desideri cambiano in fretta e se mai si realizzassero, ci stuferemmo anche di quelli.
Si chiama insoddisfazione.
E poi, spesso, la mattina, siamo assaliti disordinatamente dai nostri problemi, che ci aggrediscono tutti insieme, in modo caotico, sottoforma di grande groviglio confuso.
Un grumo di angoscia che racchiude tutti i nostri tormenti.
Così, in quest’ammasso di preoccupazioni, non distinguiamo più nessun problema in se, ma sentiamo solamente una specie di ansia ingiustificata che si annida dentro di noi e che svanisce a poco a poco durante la giornata.
Forse era per questo che ero triste.
Arrivai alla fermata dell’autobus alla solita ora, schiacciata dal peso della cartella e della mia opprimente malinconia.
Mi sedetti sotto la tettoia guardando la strada intasata di macchine di ogni genere avendo quasi l’impressione di vedere lo strato di smog che avvelenava l’aria, come una fitta nebbia tossica che avviluppava ogni cosa.
L’autobus non passava, ma tanto io ero in anticipo.
Io ero sempre in anticipo.
La mattina, a scuola arrivavo sempre mezz’ora prima del suono della campanella e mi intrufolavo in classe per godermi quell’atmosfera densa di serenità.
E restavo lì, immobile.
Mi crogiolavo in quegli istanti eterni, lontana da tutto e da tutti, e ne traevo l’energia sufficiente per affrontare il resto del mondo.
Mi rinchiudevo in una dimensione solo mia, estremamente accogliente eppure estremamente fragile, che mi regalava l’illusione agrodolce di sentirmi protetta.
Ma bastava un secondo e il crudele trillare della campanella frantumava in mille pezzi la mia confortevole prigione di vetro.
In pochi istanti un fiume di ragazze e ragazzi si riversava nell’aula riempiendola di voci che le mie orecchie non riuscivano a percepire, di sguardi che i miei occhi non erano in grado di afferrare, di un calore che il mio corpo non avrebbe mai potuto sentire.
Ed io restavo inerme, travolta dalle emozioni altrui, troppo intense per essere vissute, o forse troppo irraggiungibili per essere anche soltanto immaginate.
Forse è un paradosso, ma in quel turbinio di voci e sguardi, in quell’atmosfera piena di calore, io mi sentivo ancora più sola, una bambola difettosa dimenticata in angolo.
Iniziavo a sentire freddo e l’autobus ancora non passava, probabilmente a causa del traffico. Stando seduta sulla panca i miei piedi non arrivavano a toccare l’asfalto, così cominciai a dondolarli avanti e indietro, per scaldarmi.
Mi guardai attorno.
Sotto alla tettoia, oltre a me, c’erano altre tre persone.
Alla mia destra una vecchietta rugosa e fragile stringeva con una piccola mano guantata il manico del carrello della spesa. Aveva un naso grande, un po’adunco e una bocca tutta dipinta di rosso. Era così minuta che quasi scompariva nell’enorme cappotto e nella sciarpa di lana, e mi venne spontaneo pensare che magari, rannicchiata dentro a questa specie di bozzolo, la vecchina sperasse, a momenti, di volare via, sottoforma di farfalla opalescente.
Affianco a lei, diritto e impettito, c’era un uomo alto con un lungo cappotto nero ed elegante e una sciarpa color panna al collo. Aveva la bocca sottile e il mento spigoloso e, anche se dalla mia posizione non potevo sentire il suo odore, ero pronta a scommettere che profumasse di dopobarba. Stava in piedi, statuario, con le scarpe lucide perfettamente parallele al confine del marciapiede. In una mano aveva una valigetta da lavoro, squadrata e rigida, proprio come lui, e in un'altra teneva un libro tascabile aperto. Leggeva. O magari faceva finta.
Cercai di sbirciare il titolo del libro senza successo.
In ogni caso, quell’uomo così elegante e spigoloso mi sembrò fuori posto. Un essere troppo sofisticato per aspettare l’autobus come i comuni mortali.
Alla mia sinistra, seduto affianco a me, c’era un ragazzo. Non avrei saputo definire con precisione la sua età. Forse aveva qualche anno più di me. Capelli castani, un bel viso e gli occhi nascosti da un paio di occhiali da sole. Mi stupii un po’: occhiali da sole in inverno? Ma in fondo ne avevo viste di tutti i colori.
Indossava una giacca a vento nera e un paio di jeans. Afflosciato ai suoi piedi c’era uno zaino un po’ vecchio, forse andava anche lui a scuola.
Era immobile e guardava dritto davanti a se, chissà a cosa stava pensando.
Così ce ne stavamo sotto quella tettoia, quattro persone che non avevano proprio nulla da spartire se non quell’attesa comune sotto la pioggia; attesa di un autobus che ci avrebbe portato in diversi luoghi, proiettato in realtà differenti, ognuno per la propria strada.
Di tanto in tanto, continuai a guardare i miei compagni d’attesa, tentando di incrociare i loro sguardi.
E ancora una volta avvertii l’indifferenza altrui scivolarmi addosso come un viscido abbraccio.
Non sapevo esattamente cosa volessi ottenere in questo modo, ma, da che mi ricordavo, avevo sempre cercato lo sguardo delle persone, provando a stabilire un contatto visivo con loro.
Già, era un controsenso, una ragazza così timida, che camminava fissandosi le scarpe e che poi, improvvisamente, alzava gli occhi e cercava di incrociare lo sguardo dei passanti.
Anche perchè quando capitava che il mio sguardo venisse ricambiato, anche solo di sfuggita, anche senza che mi guardassero davvero, mi sentivo estremamente in imbarazzo, vinta dalla mia insicurezza.
Non sapevo spiegare neanche io il perché di questa mia smaniosa ricerca di sguardi.
Forse era dovuto al fatto che avevo sempre avuto l’opprimente sensazione che le persone non mi guardassero mai negli occhi. Anche quando si trovavano faccia a faccia con me, anche quando parlavano con me.
Come se nessuno riuscisse a sostenere il mio sguardo. Lo sguardo implorante di una ragazzina che cercava disperatamente conferma della propria esistenza.
Da piccola ogni tanto pensavo di non esistere.
“Mamma, ma io sono un fantasma?” chiedevo e lei rideva.
“Ma che dici? Perché pensi questo?”
“Non lo so. Forse io non esisto. Le persone a volte non mi vedono; io le vedo, ma loro non vedono me.”
Ed era così che mi sentivo ora, un fantasma, sbiadito. Qualcuno poteva vedermi, qualcuno addirittura parlava con me, ma tutti gli altri neanche si accorgevano della mia presenza, della mia esistenza.
Mi perdevo in questi pensieri continuando a dondolare i piedi, quando sfrigolando si fermò un autobus. Ovviamente non era il mio.
Potevo intravedere le sagome dei passeggeri schiacciati dentro il mezzo. Non riuscivo a vedere i loro volti, sfocati dietro ai vetri appannati, ma potevo facilmente immaginare la sensazione di soffocamento che provavano imprigionati in quelle pareti di vetro, plastica, pubblicità e lamiera.
La vecchietta farfalla e l’uomo spigoloso salirono, una dalla porta anteriore, l’altro da quella centrale.
Salutai silenziosamente i compagni di quell’attesa che per loro, ormai, era giunta a termine.
- Scusate, che autobus è questo?
Sobbalzai. Era stato il ragazzo alla mia sinistra a parlare.
Mi guardai attorno: ero rimasta solo io.
Non mi chiesi neppure perché mi facesse una domanda del genere, l’unica cosa che importava in quel momento era fare i conti con me stessa e riuscire a rispondere con naturalezza.
- L’ottantasei.
- Grazie.- disse con tono calmo voltandosi appena verso di me.
- Prego.
Poi il mio telefonino cominciò a squillare.
Frugai nello zaino per qualche istante e alla fine risposi.
- Mamma?...No, non sono ancora a scuola, perché?...Un incidente? Oh, ecco perché c’è questo traffico...Ok, grazie. Ci vediamo a pranzo.
Attaccai.
- Stai andando a scuola?
La voce del ragazzo mi fece nuovamente sussultare.
Aveva una bella voce. Pacata, tranquilla, morbida.
- Si.
Avrei voluto chiedere qualcosa come: “e tu?” ma ovviamente non aggiunsi altro.
- Anch’io.
Lo guardai. Eppure lui non guardava me. Evitava il mio sguardo in maniera spudorata, fissando l’asfalto o continuando a guardare dritto davanti a sé, nascondendo i suoi occhi dietro quegli occhiali scuri.
Mi sentii nuovamente invisibile, un fantasma.
- Siamo rimasti soltanto noi qui, vero?
E in quel momento capii. Capii il perché degli occhiali da sole in inverno. Capii perché mi aveva chiesto il numero dell’autobus. Capii perché non mi guardava negli occhi.
E mi sentii male per lui.
Forse io ero davvero come un fantasma, un ombra sfocata in un mondo popolato da persone vive, dai contorni netti.
Ma lui, lui invece, era l’unico supersite in un mondo popolato da fantasmi senza volti, da voci senza uno sguardo.
Io ero prigioniera di un incubo nel quale io stessa mi ero rinchiusa e dal quale io sola potevo liberarmi.
Lui invece, era prigioniero di un incubo nel quale era stato rinchiuso dal destino, un incubo senza via d’uscita.
Io avevo la chiave della mia gabbia.
Lui no.
- S…si.
- Per fortuna che c’eri tu a dirmi che autobus era…lo stavo per prendere! Il mio doveva essere passato da un pezzo…- Sorrideva.
Rimasi in silenzio, non sapevo esattamente cosa dire, anche se mi rendevo conto di sembrare estremamente stupida in questo modo.
- Scusa, non volevo metterti a disagio.
Aggiunse, con un sorriso cordiale, non ricevendo risposta.
- No, no, scusa tu. Sono…sono proprio io che non parlo molto. Sono proprio fatta così.
Forse suonò come una scusa, ma in fondo era la verità.
- Ok, comunque piacere, sono Davide.
Tese la mano nella mia direzione.
Rimasi un istante a fissarlo, come in trance, poi gliela strinsi. Era calda.
- Marianna - dissi flebilmente.
- Hai la mano fredda Marianna.- sorrise lui.
Sembrava che gli venisse naturale sorridere. Aveva un bel sorriso, con i denti bianchi e dritti.
- Già, fa freddo oggi. -
- Insomma, anche tu stai andando a scuola…e che classe fai?
- Il primo. Il primo Classico.
- Io invece faccio il quarto scientifico. Sono stato fortunato oggi…non mi capita quasi mai di farmi due chiacchiere la mattina.
- A dire il vero neanche a me.
Venimmo interrotti dall’arrivo di un nuovo autobus. Stavolta era il mio.
- Ne è arrivato un altro. Potresti…-
- Sessantatre.- risposi ancor prima che mi ponesse la domanda -Io lo prendo.- aggiunsi.
Lui sorrise di nuovo.
- Anche io.- disse.
Fui felice che dovesse prenderlo anche lui. Mi piacevano la sua voce e il suo sorriso. E quelle mani calde.
Si alzò abbastanza velocemente. Ogni suo movimento era misurato, sistematico. Pensai che doveva aver per forza imparato a muoversi rapidamente, per tener dietro al frenetico ritmo della vita urbana, alla confusione delle strade, degli automezzi, alla folla sui marciapiedi e nei negozi.
Salimmo sull’autobus dalla porta posteriore all’ultimo momento, dopo aver fatto scendere un’infinità di persone. Se non altro non era molto affollato. Evidentemente le persone, dopo averlo aspettato per più di mezz’ora avevano optato per l’automobile.
Le porte si richiusero dietro di noi e il mezzo accelerò improvvisamente.
Io persi l’equilibrio, ma riuscii a rimanere in piedi afferrando all’ultimo momento la ringhiera rossa metallica.
Davide invece, venne scaraventato contro la parete anteriore dell’autobus, gli occhiali scuri schizzarono via e rimbalzarono sul pavimento.
- Merda.- imprecò fra i denti Davide.
- Tutto ok?- chiesi io recuperando gli occhiali che mi si smontarono letteralmente in mano.
- Si, succede…ogni tanto. Non è che sai dove sono i miei occhiali?
E poi sollevò lo sguardo. E per la prima volta lo vidi negli occhi.
Sapevo che lui non poteva vedermi, e sapevo anche che se aveva incrociato il mio sguardo e aveva tenuto i suoi occhi puntati sui miei era stato solamente un caso, eppure mi sembrò come se il tempo si fosse fermato, come se le cose, le persone e l’aria intorno a noi fossero in sospeso, in attesa; in un secondo provai dentro di me un’infinità di emozioni contrastanti alle quali non saprei neanche dare un nome.
I suoi occhi erano bellissimi. O magari fui io che li vidi così.
Erano di un colore indefinibile, tra il grigio e il celeste, ma erano come annebbiati.
La prima cosa a cui pensai, guardando quegli occhi, fu un cielo nuvoloso.
Già, i suoi occhi avevano il fascino misterioso e triste di un cielo nuvoloso.
Rimasi a fissarlo finche non parlò di nuovo.
- Marianna, sei ancora qui?
- Si, si, scusa.
- Sai dove sono finiti i miei occhiali?
Era strano parlare con lui senza occhiali, faceva effetto vederlo guardare un punto fisso o spostare lo sguardo verso la direzione in cui sentiva la tua voce.
- Si, li ho raccolti, ma si sono staccate le lenti.- dissi desolata. – Mi dispiace.
- Oh, non fa niente. Tanto dovevo sembrare uno scemo con gli occhiali da sole in pieno inverno.-
Sorrise, un po’ amaramente forse.
Lo vidi cercare a tentoni la sbarra di ferro e poi aggrapparvisi con una mano.
Aveva un bel fisico, osservai per la prima volta, alto, con le spalle grandi.
- Prendi tutte le mattine quest’autobus?
Mi chiese.
- Si.
- Anch’io, magari mi avevi visto?
- No. Io predo quello delle sette e mezzo.
- Ah, io prendo quello delle sette e un quarto. Sai, non si sa mai, se lo perdo…
- Capisco.
- Magari domani potrei prenderlo con te.
- Si, mi farebbe piacere.
Mi chiesi, piacevolmente stupita, da dove venisse quella loquacità.
- Bene, però mi devi assicurare che ci sarai tu a darmi una mano, perché se perdo quello delle sette e mezzo a scuola non ci arrivo.
- Sì, ci sarò.
Sorrisi, senza motivo.

O forse un motivo c’era: quegli occhi, come un cielo nuvoloso, che erano riusciti a sostenere il mio sguardo.

 

NOTA IMPORTANTE: alcune recensioni appariranno firmate con il mio nome perché ho cambiato account (lo usavamo in due). In ogni caso le ho solamente trasferite, perché ci tengo molto. Se la cosa creasse qualche problema le rimuoverò subito!

~ Spazio dell’autrice

Grazie mille a tutti voi che avete letto questa breve storia!
Spero che non sia risultata troppo pesante all’inizio e troppo melensa e deludente alla fine!
Bacio, Chià.

Ok, ho ricoretto la storia seguendo quasi tutti i consigli di thid, anche se ammetto di aver lottato a lungo contro l'impulso toglierla dal sito e buttarla nel dimenticatoio. 
Terribile... si vede che è vecchia! E poi non mi era mai capitato di fare così tanti errori di distrazione. Mm.
In ogni caso ne approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno commentato, in particolare thid... grazie mille per i consigli: molti errori erano davvero di distrazione, ma mi hai di certo aiutata facendomeli notare! In oltre c'erano alcune frasi che non suonavano bene e non riuscivo a capire il perché... grazie!

  
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