~ Come un cielo nuvoloso
Le mie All Stars bianche schizzate di fango si rincorrevano svogliate
sul
marciapiede lucido di pioggia, inghiottendo l’asfalto in
piccoli passi.
Il cielo piangeva lacrime sporche che mi scivolavano lievi addosso con
impalpabile
insistenza, avvolgendomi come liquide mani dalle lunghe dita.
Procedevo velocemente, zigzagando tra le pozzanghere, sgusciando tra i
passanti
frettolosi che si dirigevano verso la propria meta.
Mi sentivo triste.
Senza un preciso motivo.
Guardavo quelle persone, che camminavano ricurve, con la testa
infossata nelle
spalle, cercando un’illusoria protezione sotto il proprio
ombrello.
Studiavo i loro volti, seminascosti da una sciarpa o da un capello,
cercavo i
loro occhi, senza mai trovarli.
Sguardi muti che sfuggivano al mio. Ognuno prigioniero della propria
solitudine.
Sospirai, leggermente.
In fondo la mattina non è poi così difficile
intuire le sensazioni degli altri,
ancora appannate dal sonno.
La lieve frustrazione causata dalla sveglia e dal suo trillare
prepotente e
meccanico, che ha intaccato, e in fine distrutto, quello sfuggente
mondo di
nebbia che ci avvolge quando dormiamo.
La pressante nostalgia del letto caldo, che, con voce sommessa e molle,
sembra
continuare a chiamarci, come se avesse bisogno della nostra presenza
confortante, del nostro corpo avviluppato tra le coperte, ancora
intrise di
brandelli di sogni.
E quella malinconia, quel disagio scivoloso, che proviamo nel
percorrere ogni
mattina la solita strada, senza più scoperte, senza
più emozione, senza
stupirci più di niente; quella tristezza che impregna le
quattro mura degli
stessi luoghi di sempre, giorno dopo giorno… mura tra le
quali ormai stiamo
stretti.
E sentire dentro di noi che sarà sempre così. Che
saremo sempre troppo lontani
da ciò che desideriamo, uccisi dalla quotidianità
della vita.
Ma in fondo si sa, l’uomo è volubile, i nostri
desideri cambiano in fretta e se
mai si realizzassero, ci stuferemmo anche di quelli.
Si chiama insoddisfazione.
E poi, spesso, la mattina, siamo assaliti disordinatamente dai nostri
problemi,
che ci aggrediscono tutti insieme, in modo caotico, sottoforma di
grande
groviglio confuso.
Un grumo di angoscia che racchiude tutti i nostri tormenti.
Così, in quest’ammasso di preoccupazioni, non
distinguiamo più nessun problema
in se, ma sentiamo solamente una specie di ansia ingiustificata che si
annida
dentro di noi e che svanisce a poco a poco durante la giornata.
Forse era per questo che ero triste.
Arrivai alla fermata dell’autobus alla solita ora,
schiacciata dal peso della
cartella e della mia opprimente malinconia.
Mi sedetti sotto la tettoia guardando la strada intasata di macchine di
ogni
genere avendo quasi l’impressione di vedere lo strato di smog
che avvelenava
l’aria, come una fitta nebbia tossica che avviluppava ogni
cosa.
L’autobus non passava, ma tanto io ero in anticipo.
Io ero sempre in anticipo.
La mattina, a scuola arrivavo sempre mezz’ora prima del suono
della campanella
e mi intrufolavo in classe per godermi quell’atmosfera densa
di serenità.
E restavo lì, immobile.
Mi crogiolavo in quegli istanti eterni, lontana da tutto e da tutti, e
ne
traevo l’energia sufficiente per affrontare il resto del
mondo.
Mi rinchiudevo in una dimensione solo mia, estremamente accogliente
eppure
estremamente fragile, che mi regalava l’illusione agrodolce
di sentirmi
protetta.
Ma bastava un secondo e il crudele trillare della campanella frantumava
in
mille pezzi la mia confortevole prigione di vetro.
In pochi istanti un fiume di ragazze e ragazzi si riversava
nell’aula
riempiendola di voci che le mie orecchie non riuscivano a percepire, di
sguardi
che i miei occhi non erano in grado di afferrare, di un calore che il
mio corpo
non avrebbe mai potuto sentire.
Ed io restavo inerme, travolta dalle emozioni altrui, troppo intense
per essere
vissute, o forse troppo irraggiungibili per essere anche soltanto
immaginate.
Forse è un paradosso, ma in quel turbinio di voci e sguardi,
in quell’atmosfera
piena di calore, io mi sentivo ancora più sola, una bambola
difettosa dimenticata
in angolo.
Iniziavo a sentire freddo e l’autobus ancora non passava,
probabilmente a causa
del traffico. Stando seduta sulla panca i miei piedi non arrivavano a
toccare
l’asfalto, così cominciai a dondolarli avanti e
indietro, per scaldarmi.
Mi guardai attorno.
Sotto alla tettoia, oltre a me, c’erano altre tre persone.
Alla mia destra una vecchietta rugosa e fragile stringeva con una
piccola mano
guantata il manico del carrello della spesa. Aveva un naso grande, un
po’adunco
e una bocca tutta dipinta di rosso. Era così minuta che
quasi scompariva
nell’enorme cappotto e nella sciarpa di lana, e mi venne
spontaneo pensare che
magari, rannicchiata dentro a questa specie di bozzolo, la vecchina
sperasse, a
momenti, di volare via, sottoforma di farfalla opalescente.
Affianco a lei, diritto e impettito, c’era un uomo alto con
un lungo cappotto
nero ed elegante e una sciarpa color panna al collo. Aveva la bocca
sottile e
il mento spigoloso e, anche se dalla mia posizione non potevo sentire
il suo
odore, ero pronta a scommettere che profumasse di dopobarba. Stava in
piedi,
statuario, con le scarpe lucide perfettamente parallele al confine del
marciapiede. In una mano aveva una valigetta da lavoro, squadrata e
rigida,
proprio come lui, e in un'altra teneva un libro tascabile aperto.
Leggeva. O
magari faceva finta.
Cercai di sbirciare il titolo del libro senza successo.
In ogni caso, quell’uomo così elegante e spigoloso
mi sembrò fuori posto. Un
essere troppo sofisticato per aspettare l’autobus come i
comuni mortali.
Alla mia sinistra, seduto affianco a me, c’era un ragazzo.
Non avrei saputo
definire con precisione la sua età. Forse aveva qualche anno
più di me. Capelli
castani, un bel viso e gli occhi nascosti da un paio di occhiali
da
sole. Mi stupii un po’: occhiali da sole in inverno? Ma
in fondo ne avevo viste
di tutti i colori.
Indossava una giacca a vento nera e un paio di jeans. Afflosciato ai
suoi piedi
c’era uno zaino un po’ vecchio, forse andava anche
lui a scuola.
Era immobile e guardava dritto davanti a se, chissà a cosa
stava pensando.
Così ce ne stavamo sotto quella tettoia, quattro persone che
non avevano
proprio nulla da spartire se non quell’attesa comune sotto la
pioggia; attesa
di un autobus che ci avrebbe portato in diversi luoghi, proiettato in
realtà
differenti, ognuno per la propria strada.
Di tanto in tanto, continuai a guardare i miei compagni
d’attesa, tentando di
incrociare i loro sguardi.
E ancora una volta avvertii l’indifferenza altrui scivolarmi
addosso come un
viscido abbraccio.
Non sapevo esattamente cosa volessi ottenere in questo modo, ma, da che
mi
ricordavo, avevo sempre cercato lo sguardo delle persone, provando a
stabilire
un contatto visivo con loro.
Già, era un controsenso, una ragazza così timida,
che camminava fissandosi le
scarpe e che poi, improvvisamente, alzava gli occhi e cercava di
incrociare lo
sguardo dei passanti.
Anche perchè quando capitava che il mio sguardo venisse
ricambiato, anche solo
di sfuggita, anche senza che mi guardassero davvero, mi sentivo
estremamente in
imbarazzo, vinta dalla mia insicurezza.
Non sapevo spiegare neanche io il perché di questa mia
smaniosa ricerca di
sguardi.
Forse era dovuto al fatto che avevo sempre avuto l’opprimente
sensazione che le
persone non mi guardassero mai negli occhi. Anche quando si trovavano
faccia a
faccia con me, anche quando parlavano con me.
Come se nessuno riuscisse a sostenere il mio sguardo. Lo sguardo
implorante di
una ragazzina che cercava disperatamente conferma della propria
esistenza.
Da piccola ogni tanto pensavo di non esistere.
“Mamma, ma io sono un fantasma?” chiedevo e lei
rideva.
“Ma che dici? Perché pensi questo?”
“Non lo so. Forse io non esisto. Le persone a volte non mi
vedono; io le vedo,
ma loro non vedono me.”
Ed era così che mi sentivo ora, un fantasma, sbiadito.
Qualcuno poteva vedermi,
qualcuno addirittura parlava con me, ma tutti gli altri neanche si
accorgevano
della mia presenza, della mia esistenza.
Mi perdevo in questi pensieri continuando a dondolare i piedi, quando
sfrigolando si fermò un autobus. Ovviamente non era il mio.
Potevo intravedere le sagome dei passeggeri schiacciati dentro il
mezzo. Non
riuscivo a vedere i loro volti, sfocati dietro ai vetri appannati, ma
potevo
facilmente immaginare la sensazione di soffocamento che provavano
imprigionati
in quelle pareti di vetro, plastica, pubblicità e lamiera.
La vecchietta farfalla e l’uomo spigoloso salirono, una dalla
porta anteriore,
l’altro da quella centrale.
Salutai silenziosamente i compagni di quell’attesa che per
loro, ormai, era
giunta a termine.
- Scusate, che autobus è questo?
Sobbalzai. Era stato il ragazzo alla mia sinistra a parlare.
Mi guardai attorno: ero rimasta solo io.
Non mi chiesi neppure perché mi facesse una domanda del
genere, l’unica cosa
che importava in quel momento era fare i conti con me stessa e riuscire
a
rispondere con naturalezza.
- L’ottantasei.
- Grazie.- disse con tono calmo voltandosi appena verso di me.
- Prego.
Poi il mio telefonino cominciò a squillare.
Frugai nello zaino per qualche istante e alla fine risposi.
- Mamma?...No, non sono ancora a scuola, perché?...Un
incidente? Oh, ecco
perché c’è questo traffico...Ok,
grazie. Ci vediamo a pranzo.
Attaccai.
- Stai andando a scuola?
La voce del ragazzo mi fece nuovamente sussultare.
Aveva una bella voce. Pacata, tranquilla, morbida.
- Si.
Avrei voluto chiedere qualcosa come: “e tu?” ma
ovviamente non aggiunsi altro.
- Anch’io.
Lo guardai. Eppure lui non guardava me. Evitava il mio sguardo in
maniera
spudorata, fissando l’asfalto o continuando a guardare dritto
davanti a sé,
nascondendo i suoi occhi dietro quegli occhiali scuri.
Mi sentii nuovamente invisibile, un fantasma.
- Siamo rimasti soltanto noi qui, vero?
E in quel momento capii. Capii il perché degli occhiali da
sole in inverno.
Capii perché mi aveva chiesto il numero
dell’autobus. Capii perché non mi
guardava negli occhi.
E mi sentii male per lui.
Forse io ero davvero come un fantasma, un ombra sfocata in un mondo
popolato da
persone vive, dai contorni netti.
Ma lui, lui invece, era l’unico supersite in un mondo
popolato da fantasmi
senza volti, da voci senza uno sguardo.
Io ero prigioniera di un incubo nel quale io stessa mi ero rinchiusa e
dal
quale io sola potevo liberarmi.
Lui invece, era prigioniero di un incubo nel quale era stato rinchiuso
dal
destino, un incubo senza via d’uscita.
Io avevo la chiave della mia gabbia.
Lui no.
- S…si.
- Per fortuna che c’eri tu a dirmi che autobus
era…lo stavo per prendere! Il
mio doveva essere passato da un pezzo…- Sorrideva.
Rimasi in silenzio, non sapevo esattamente cosa dire, anche se mi
rendevo conto
di sembrare estremamente stupida in questo modo.
- Scusa, non volevo metterti a disagio.
Aggiunse, con un sorriso cordiale, non ricevendo risposta.
- No, no, scusa tu. Sono…sono proprio io che non parlo
molto. Sono proprio
fatta così.
Forse suonò come una scusa, ma in fondo era la
verità.
- Ok, comunque piacere, sono Davide.
Tese la mano nella mia direzione.
Rimasi un istante a fissarlo, come in trance, poi gliela strinsi. Era
calda.
- Marianna - dissi flebilmente.
- Hai la mano fredda Marianna.- sorrise lui.
Sembrava che gli venisse naturale sorridere. Aveva un bel sorriso, con
i denti
bianchi e dritti.
- Già, fa freddo oggi. -
- Insomma, anche tu stai andando a scuola…e che classe fai?
- Il primo. Il primo Classico.
- Io invece faccio il quarto scientifico. Sono stato fortunato
oggi…non mi
capita quasi mai di farmi due chiacchiere la mattina.
- A dire il vero neanche a me.
Venimmo interrotti dall’arrivo di un nuovo autobus. Stavolta
era il mio.
- Ne è arrivato un altro. Potresti…-
- Sessantatre.- risposi ancor prima che mi ponesse la domanda -Io lo
prendo.-
aggiunsi.
Lui sorrise di nuovo.
- Anche io.- disse.
Fui felice che dovesse prenderlo anche lui. Mi piacevano la sua voce e
il suo
sorriso. E quelle mani calde.
Si alzò abbastanza velocemente. Ogni suo movimento era
misurato, sistematico.
Pensai che doveva aver per forza imparato a muoversi rapidamente, per
tener
dietro al frenetico ritmo della vita urbana, alla confusione delle
strade,
degli automezzi, alla folla sui marciapiedi e nei negozi.
Salimmo sull’autobus dalla porta posteriore
all’ultimo momento, dopo aver fatto
scendere un’infinità di persone. Se non altro non
era molto affollato.
Evidentemente le persone, dopo averlo aspettato per più di
mezz’ora avevano
optato per l’automobile.
Le porte si richiusero dietro di noi e il mezzo accelerò
improvvisamente.
Io persi l’equilibrio, ma riuscii a rimanere in piedi
afferrando all’ultimo
momento la ringhiera rossa metallica.
Davide invece, venne scaraventato contro la parete anteriore
dell’autobus, gli
occhiali scuri schizzarono via e rimbalzarono sul pavimento.
- Merda.- imprecò fra i denti Davide.
- Tutto ok?- chiesi io recuperando gli occhiali che mi si smontarono
letteralmente in mano.
- Si, succede…ogni tanto. Non è che sai dove sono
i miei occhiali?
E poi sollevò lo sguardo. E per la prima volta lo vidi negli
occhi.
Sapevo che lui non poteva vedermi, e sapevo anche che se aveva
incrociato il
mio sguardo e aveva tenuto i suoi occhi puntati sui miei era stato
solamente un
caso, eppure mi sembrò come se il tempo si fosse fermato,
come se le cose, le
persone e l’aria intorno a noi fossero in sospeso, in attesa;
in un secondo
provai dentro di me un’infinità di emozioni
contrastanti alle quali non saprei
neanche dare un nome.
I suoi occhi erano bellissimi. O magari fui io che li vidi
così.
Erano di un colore indefinibile, tra il grigio e il celeste, ma erano
come
annebbiati.
La prima cosa a cui pensai, guardando quegli occhi, fu un cielo
nuvoloso.
Già, i suoi occhi avevano il fascino misterioso e triste di
un cielo nuvoloso.
Rimasi a fissarlo finche non parlò di nuovo.
- Marianna, sei ancora qui?
- Si, si, scusa.
- Sai dove sono finiti i miei occhiali?
Era strano parlare con lui senza occhiali, faceva effetto vederlo
guardare un
punto fisso o spostare lo sguardo verso la direzione in cui sentiva la
tua
voce.
- Si, li ho raccolti, ma si sono staccate le lenti.- dissi desolata.
– Mi
dispiace.
- Oh, non fa niente. Tanto dovevo sembrare uno scemo con gli occhiali
da sole
in pieno inverno.-
Sorrise, un po’ amaramente forse.
Lo vidi cercare a tentoni la sbarra di ferro e poi aggrapparvisi con
una mano.
Aveva un bel fisico, osservai per la prima volta, alto, con le spalle
grandi.
- Prendi tutte le mattine quest’autobus?
Mi chiese.
- Si.
- Anch’io, magari mi avevi visto?
- No. Io predo quello delle sette e mezzo.
- Ah, io prendo quello delle sette e un quarto. Sai, non si sa mai, se
lo
perdo…
- Capisco.
- Magari domani potrei prenderlo con te.
- Si, mi farebbe piacere.
Mi chiesi, piacevolmente stupita, da dove venisse quella
loquacità.
- Bene, però mi devi assicurare che ci sarai tu a darmi una
mano, perché se
perdo quello delle sette e mezzo a scuola non ci arrivo.
- Sì, ci sarò.
Sorrisi, senza motivo.
O
forse un motivo
c’era: quegli occhi, come un cielo nuvoloso, che erano
riusciti a sostenere il
mio sguardo.
Grazie
mille a tutti
voi che avete letto questa breve storia!
Spero che non sia risultata troppo pesante all’inizio e
troppo melensa e
deludente alla fine!
Bacio, Chià.
Ok,
ho ricoretto la storia seguendo quasi tutti i consigli di
thid, anche se ammetto di aver lottato a lungo contro l'impulso
toglierla dal
sito e buttarla nel dimenticatoio.
Terribile...
si vede che è vecchia! E poi non mi era mai capitato di fare
così tanti errori
di distrazione. Mm.
In
ogni
caso ne approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno
commentato, in
particolare thid... grazie mille per i consigli:
molti errori erano
davvero di distrazione, ma mi hai di certo aiutata facendomeli notare!
In oltre
c'erano alcune frasi che non suonavano bene e non riuscivo a capire il
perché... grazie!