Che
dire? Eccomi
qui dopo poco più di un anno con un nuovo capitolo. A oggi,
la parte di questa
storia che riguarda Missingno e la Città dei Numeri sarebbe
conclusa su carta;
dico sarebbe perché, come al solito, ho perduto un foglio
(avvistato per l’ultima
volta a giugno) e cercherò di ricostruirne il contenuto
mentre copio il
rimanente. I pochi lettori superstiti, ammesso che ve ne siano, non si
aspettino chissà cosa dal finale di questa storia: sebbene
il risultato finale
mi soddisfi abbastanza, non credo che sarà così
per tutti.
Detto
ciò,
vi auguro semplicemente buona lettura e un buon resto
dell’estate, per chi
ancora può godersela e non dev’essere ammesso
all’Università, come me :’(
Enjoy! Afaneia
Trascorsero
altre giornate vuote e noiose, ma a poco a poco Luisa finì
per riprendersi
davvero. Il petto smise di farle male come quel giorno sul Vulcano ed
essa
tornò in qualche modo a essere se stessa…
“Sei
guarita
del tutto” le disse Celebi ammirandola quando fu in piedi.
“Ora potrete
riprendere il vostro viaggio e lasciare l’Altopiano
Blu.”
Proprio
quella notte, quando si ritirarono per dormire in un’umida
cavità del
Monteluna, Luisa raccontò ai suoi fratelli ciò
che ancora non aveva detto loro,
della Città dei Numeri.
“Vuoi
andarci, vero?” le chiese Argento quando ebbe finito di
raccontare, dopo lunghi
attimi di un silenzio carico di aspettative. Luisa assentì
lentamente col capo,
collo sguardo fisso e serio: “Sì. Voglio andarci e
lo voglio tanto intensamente,
tanto ardentemente che se voi non verrete, non vi
obbligherò, ma mi getterò da
sola nella voragine di quel vulcano.”
“Perché
vuoi
andarci?” domandò Lance. La sua voce era bassa,
quieta, severa. Voleva solo
saperlo, e i suoi occhi la scrutavano fissamente.
“Voglio
trovare la verità, Lance.”
“L’hai
già
trovata la tua, di verità, Luisa. Stiamo bene ora, stai
bene… che cosa vuoi
trovare di più?”
Ma
a quelle
parole Luisa balzò in piedi e prese a percorrere la grotta
come una folata di
vento, come una tempesta. Aveva il respiro scosso e gli occhi
lampeggianti; le
tremava la voce. “No, Lance…. Non è
vero, non è tutto qui, non è qui che ci si
può fermare! Non ricordi proprio tu che due anni fa, solo
due anni fa a tutti
noi pareva già di conoscere la verità? Io sapevo
chi ero, sapevo di chiamarmi
Luisa e di essere la Campionessa di Kanto e di Johto, e non mi mancava
nulla…
ma poi è cambiato tutto, e ho scoperto che era tutto falso,
che non ero solo
una Campionessa ma la Prescelta Creatura, e poi, qualche mese dopo,
tutto era
cambiato un’altra volta, prima ancora che facessi in tempo ad
abituarmi
all’idea… ero la figlia di Celebi! E ora che a
fatica mi sono adattata a essere
anche questo, di più, all’idea che anche questo
potesse essere vero, il mio
nemico mi viene a dire che esiste una Città che per tutti
valeva meno della più
stupida delle leggende… possibile che a voi basti sapere che
esiste? A me non
basta, voglio sapere che razza di posto è mai quello, voglio
sapere chi la
governa, quale entità ha fatto ardere d’ambizione
gli occhi di Rosso e si è
servito della sua vita come di uno strumento; voglio sapere di cosa mai
Rosso
possa aver avuto tanta paura…” e concluse con voce
più bassa, con voce spezzata
e infranta: “Voglio conoscere
quell’entità. Perciò se non vorrete
venire,
l’affronterò da sola.”
“Tu
sei
pazza! Certo che veniamo” disse Argento
con voce priva di qualsiasi esitazione, o di dubbio.
“Io non ho paura,
poiché se Rosso è riuscito quantomeno a fuggirne,
so che possiamo farlo anche
noi. Ma ricordati ciò che ti ha detto lui stesso: puoi trovare la tua verità, ma anche
molte più bugie.”
Sì,
era
vero: erano le esatte parole di Rosso… Luisa
sorrise d’un sorriso amaro, alzando gli
occhi verso il soffitto buio di quella grotta. Sì, Rosso
aveva ragione: lui
stesso vi aveva trovato una bugia, e per quella bugia aveva perso otto anni di
vita… otto anni sono tanti.
“So
a cosa
stai pensando” disse Lance ad alta voce. Luisa si riscosse
bruscamente. “Sì, la
risposta è sì: noi rischiamo lo stesso. Rischiamo
di smarrirci, di
perderci… rischiamo
di non tornare, di
non tornare come siamo ora. Rischiamo di tornare con quello sguardo che
ben
conosciamo, lo sguardo di un folle disposto a tutto per realizzare uno
sciocco
suo sogno che
questa entità,
evidentemente, gli ha messo in testa…
te
la senti?”
Con
una
forza di cui Luisa stessa si sentì sorpresa, essa si
voltò e disse: “Sì.” E a
voce più bassa, scrutando Lance con occhi attenti, disse:
“Te la senti anche
tu?”
Sì,
Lance se
la sentiva. Provava la persistente sensazione che Luisa si sbagliasse,
che
Rosso stesso, nella sua follia, si fosse ingannato; non che si fosse
inventato
tutto, no – non era da Rosso – ma che nel desiderio
di rinnegare il suo fatale
errore, il suo tragico sbaglio, avesse inconsciamente imputato a questa
entità
le ragioni del suo lungo eremitaggio.
“Rimango
del
mio parere” disse allora fermamente. “Penso che
andare sia una pessima idea.
Tuttavia, vengo con voi, non con entusiasmo forse, ma con convinzione,
e non
poca. Se scegliete di andare, sono dei vostri fino alla fine, fino alla
morte
senza alcun dubbio, senza retrocessioni. Ma voglio porre una mia
condizione:
prima della partenza, voglio sentire il parere di tuo padre.”
Luisa
sorrise: “Farà di tutto per trattenerci, lo
sai.”
“Lo
so, e
sono pronto a non farmi scoraggiare. Ma voglio sentire cos’ha
da dire su questa
Città che non doveva esistere, su questa entità
di cui non ci ha mai voluto parlare… lui lo
sapeva, Luisa, doveva
saperlo. Esattamente come sapeva tutto degli Unown, di cui
però ci ha parlato
fin da subito. Ho un pessimo presentimento riguardo al motivo per cui
avrebbe
dovuto tenerci nascosta la Città dei Numeri con la sua
entità e parlarci invece
degli Unown… e a me piace veder chiaro nelle cose, fino alla
fine.”
“Hai
ragione, Lance” disse infine Luisa, con poca convinzione.
Conosceva suo padre e
sapeva che avrebbe fatto di tutto pur di dissuaderla; ma mai gli
avrebbe
permesso di tenerla lontana dalla voragine di quel vulcano. Finalmente,
disse:
“Domattina andremo per prima cosa al Bosco di Lecci e gliene
parleremo, se
siete d’accordo. Per quanto riguarda il resto, non vi
obbligherò a venire con
me, se in qualunque momento deciderete di tirarvi indietro. Ma io
andrò là, col
permesso di mio padre o meno.”
“Sta
bene”
disse Argento. “Sapremo domattina
cos’avrà da dirci tuo padre. E ora
dormiamo.”
Ma
quella
notte Luisa fu colta da una vaga inquietudine e a lungo rimase sveglia
cogli
occhi infissi nell’oscuro soffitto gocciolante della grotta
sopra di lei.
Il
mattino
seguente prepararono in fretta le loro cose e si levarono in volo verso
la
regione di Johto. Luisa volava silente sul suo Aerodactyl: distanziava
rapidamente i suoi fratelli per poi rallentare, si sollevava per
abbattersi in
picchiata per poche decine di metri… non voleva parlare con
nessuno. Parve
acquietarsi solo quando planarono lentamente sulle folte cime del Bosco
di
Lecci, atterrando cautamente a poca distanza dal Santuario.
Celebi
pareva in loro attesa. Al solo scorgere la sua snella figura tra le
fronde
degli alberi, Luisa si sentì mancare il respiro.
“Lo
sai già,
non è vero?”
“Io
so
tutto” rispose semplicemente Celebi. Tuttavia,
proseguì: “Parlamene.”
“Se
sai
tutto, perché non ci hai parlato della Città dei
Numeri?” lo aggredì Luisa
avanzandosi di un passo; i suoi fratelli tacevano, sapendo di non
doversi intromettere,
non ancora, quantomeno, tra quei due esseri divini nel loro confronto.
Lo
sguardo
di Celebi parve tremendamente calmo, e tuttavia amareggiato, quando
rispose:
“Esattamente per questo motivo: perché sapevo che
avresti preteso di andarci.”
“Io
non…”
esclamò Luisa avvampando di rabbia; si morse le labbra e
proseguì: “Io non
pretendo nulla di più di quello a cui ho diritto, di
decidere per me stessa e
dunque di decidere di andare laggiù. Perciò
voglio sapere la verità: per quale
motivo ci hai tenuta nascosta la Città dei Numeri?”
Celebi
non
rispose per lunghi interminabili silenti secondi. Il suo corpo era
parzialmente
immerso nella nebbia mattutina del Bosco di Lecci, nel vapore
d’incenso del
Santuario. Egli guardava lontano, e a nessuno era dato sapere
ciò che i suoi
occhi vedevano.
“Figlia
mia”
disse lentamente “Tu sai che io ho creato tutto
ciò che esiste in questo
Universo, su questo pianeta e su altri; tutto, eccetto gli Unown e la
Città dei
Numeri, e con essa la misteriosa entità che la
abita…”
“Ma
perché
non ce ne hai parlato?” insisté Luisa con voce
spezzata, infranta, col cuore
pieno di rabbia. Celebi non parve nemmeno udirla; tuttavia rispose alla
sua
domanda, come continuando a seguire il filo dei suoi propri pensieri.
“Perché?
Perché gli Unown erano visibili, tangibili, innocui,
affascinanti coi loro
misteri che sembravano non poter fare del male a nessuno. Ma neppure io
so
qualcosa della Città dei Numeri, nessuno sa nulla, in pochi
l’hanno vista. Cosa
mai potevo dirti?”
“Ma
tu
sapevi che Rosso era sceso laggiù? Oh, tu lo sapevi,
forse?” esclamò Luisa.
“Sapevi che era impazzito per essere stato laggiù,
per aver conosciuto
quell’entità? E a me nessuno ha detto niente! E io
che ho infierito su di lui
per non sapere che non era proprio tutta colpa sua quel sogno che non
riusciva
a realizzare! Ma che cosa c’è mai
laggiù di cui si debba aver tanta paura, da
non poterla proprio nemmeno nominare? È forse
quell’entità?”
“E
se così
fosse?” irruppe Celebi. Luisa tacque immediatamente.
“Se quell’entità fosse
tanto potente da non poterla nominare, da vivere al di fuori della mia
comprensione, persino della mia immaginazione? Se io in tutti questi
anni che
hanno preceduto la tua nascita non fossi riuscito mai a scoprire chi
fosse
quell’entità, cosa volesse, quanto potente essa
fosse… è dunque questo che
volevi sentirti dire?”
“Volevo
sentirmi dire la verità” rispose Luisa con calma.
E soggiunse: “È dunque così
che stanno le cose?”
“La
verità?”
ripeté Celebi con voce spenta. Lentamente, rispose:
“La verità è che non lo so.
E so che sembra incredibile, terribile, doloroso sapere che io non lo
so, ma se
tu vuoi la verità, io non ne possiedo altre. È
questo tutto ciò che posso
dirti.”
Luisa
si
sentì improvvisamente, profondamente triste. Era la
verità quella che Celebi le
diceva: egli non sapeva. Celebi, che aveva creato il mondo, che aveva
generato
le loro vite… non sapeva.
“Non
hai mai
pensato di andare là?” domandò a voce
bassa.
“Ci
ho
pensato, e molte volte” rispose Celebi. “Ma ho
sempre sentito, percepito,
saputo che il mio destino era qui; era di non andare là, di
non discendere
quella china d’abisso. Di restare qui su questa Terra
luminosa e priva di
misteri, di non cercare…”
“Ma
il tuo
destino!” gridò Luisa. Si sentiva incredula,
impotente. “Il tuo destino come
poteva esistere se proprio tu stesso avevi creato tutto… no,
papà, non ti
credo. Non m’importa che tu abbia avuto paura… io
ora voglio andare là, e ci
andrò che tu sia d’accordo o meno, che tutti siate
d’accordo o meno.”
Celebi
la
scrutò fissamente, lungamente. Gli parve di vacillare;
tuttavia disse: “Ascolta.
Puoi andare là, ma… io non potrò
aiutarti, non potrò raggiungerti, non potrò
salvarti. Capisci cosa voglio dire? Non potrò nemmeno
sentire la tua voce,
percepire la tua vita. Potresti, potreste restare intrappolati o
vedere… cose
orribili, ma io non ci sarò. Capisci il senso di queste
parole, io non ci sarò?
Se sei pronta ad andare sapendo tutto questo, io non ho altro da
aggiungere.”
“Sì,
papà”
disse Luisa a piena voce.
A
quest’affermazione
così decisa, così ferrea e incrollabile, Celebi
esalò un profondo sospiro che
fece vibrare il suo piccolo petto immortale. Disse: “Molto
bene, poiché io non
posso oppormici, così sia. Badate a voi stessi,
ragazzi” soggiunse ponendo il
vivo sguardo sui due giovani.
“Lo
faremo,
Celebi” disse Argento semplicemente.
Celebi
accolse la sua rassicurazione con un sorriso triste. Parve per un
momento non
aver più nulla da dire. Poi, dopo un momento, si rivolse
alla figlia, e le disse
qualcosa che solo lei poté udire, solo lei percepire.
“Attenta a quell’entità. Si
chiama Missingno.”