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Autore: MikkiOfTheAnbu    25/08/2013    5 recensioni
La guerra travolse ogni cosa come una tempesta.
Ci siamo conosciuti nelle trincee, un'anima solitaria che ne incontra un'altra. Lentamente, lo lasciai entrare nel mio mondo. Diventammo migliori amici, persino fratelli, legati dalle avversità e lottando insieme contro le crudeltà di un mondo che non comprendevamo. Ma quanto a lungo può durare una cosa del genere? Finché la realtà non ti colpisce e non ti lascia con nient'altro che un cappello di paglia.
AU War!fic
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Monkey D. Rufy, Roronoa Zoro
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Storia tradotta da EmmaStarr

Quando ho letto questa storia, vagando su fanfiction.net, ho deciso che l'avrei tradotta.
Non importava se non l'avevo mai fatto prima d'ora, o se era una cosa impossibile. Io dovevo farlo, perché non avevo mai pianto tanto per una ff. La storia appartiene alla fantastica MikkiOfTheAnbu e io non ne detengo alcun diritto, se non il fatto di averla tradotta. Ringrazio davvero chiunque arriverà fino in fondo e lascerà una recensione, e guardate che ne vale la pena, sul serio. Mai letto qualcosa di così bello in vita mia. Ci sentiamo in fondo.





OUR BOY WHO CAME HOME

 

 

 

Ci siamo incontrati nelle trincee.

Il cielo era grigio scuro, quel giorno, e la pioggia acida pungeva i nostri cuori più di quanto potesse pungere la nostra pelle.

Camminavo piano, facendo scivolare gli stivali troppo larghi sul fango senza pensare a niente, quando lo vidi. Lì, sdraiato per terra a prendersi la pioggia in faccia, con un assurdo sorriso stampato in volto. La sua testa era rivolta verso il cielo, e le gocce di pioggia scivolavano lungo le sue guance come lacrime silenziose. La sua uniforme era completamente fradicia e le spalle tremavano leggermente per il freddo, o per la guerra, o per qualche altra emozione che non aveva nome. All'inizio avevo paura che fosse diventato matto: avevo visto molti uomini impazziti a causa della guerra, in fondo, ma abbandonai questo pensiero quando si voltò verso di me e nel suo sguardo non vidi altro che luce, riflessa nei suoi occhi.

Per qualche motivo, era felice. In questa desolata terra dimenticata da Dio, c'era ancora qualcuno che aveva la capacità di sentirsi felice. Per me, sarebbe stato impossibile. Ero stato indurito dalla guerra, un robot che non sapeva fare altro che obbedire agli ordini e sparare.

Non potevo sorridere.

Per me, tutto quello che avrei mai potuto trovare in quel posto era morte, morte e distruzione. L'avevo accettato.

Eppure lì c'era un piccolo, debole raggio di vita, che sorrideva come un idiota nella pioggia. Il soldato stringeva un caldo cappello di paglia incrostato di sporco fra le braccia.

Lo fissai, e senza nemmeno pensarci su mi sedetti dietro di lui sulla terra fradicia. Non mi guardò, semplicemente continuò a sorridere.

– Bella giornata, eh, signore? – disse piano.

– … Già. – replicai, aggiustando la tesa del mio elmetto per evitare che la pioggia mi finisse in faccia. – Bella.

Rimanemmo entrambi seduti in un confortante silenzio a guardare il cielo. Le nuvole avevano formato una singola massa grigio scuro sopra le nostre teste, che tuonava pericolosamente e scagliava fulmini e lampi giù sulle nostre teste, ma noi li ignoravamo. Realizzai che il soldato non stava guardando il cielo: ci stava guardando attraverso, nel futuro.

Un futuro senza guerra. Senza odio. Senza giudizio.

Un futuro che sapevamo entrambi non sarebbe mai arrivato.

Dopo un po', finalmente il soldato rivolse lo sguardo verso di me. I nostri occhi si incontrarono e qualcosa passò tra di noi, una sorta di muta comprensione che istantaneamente ci legò come se ci fossimo conosciuti da sempre.

Lui mi porse la mano. – Monkey D. Rufy. – disse.

Io gliela presi e la strinsi. – Roronoa Zoro.

Il soldato annuì e ritornò a fissare il cielo. Io lo lo osservai da vicino, notando la cicatrice sotto l'occhio sinistro, e le bende strette attorno alle sue dita in pericolo di scivolare, tanto erano inzuppate d'acqua. Vidi quant'era giovane. Non poteva avere più di diciannove anni.

Sentii una fitta di amarezza al pensiero di un ragazzo così giovane già costretto a combattere in guerra. Ma anch'io avevo solo ventun anni, quindi non ero proprio la persona più adatta a parlare. Continuò a piovere, finché non mi sentii troppo infreddolito.

Rabbrividii e il ragazzo chiamato Rufy mi offrì una coperta. L'accettai con gratitudine, e restammo seduti sotto il cielo in tempesta nel calore del nostro piccolo mondo. Era davvero una piccola cosa, condividere una coperta, ma è stato il primo atto di gentilezza che io avessi mai ricevuto da quando ero entrato nell'esercito.

Il mondo iniziava a diventare scuro, e poco prima che permettessi alla mia mente di scivolare in un dormiveglia senza sogni, Rufy parlò.

– Mi sa che ci siamo dentro insieme, eh, Zoro?

Annuii e cambiai posizione, spostando la mia pistola in modo da non averla più in mezzo a separarci, e sentii il calore del suo corpo che si trasmetteva nel mio facendomi sentire davvero caldo per la prima volta in tutta la mia vita.



* * *


Il nemico arrivò, e con lui arrivò la morte.

Io mi attaccai al fianco di Rufy, e nell'istante in cui facemmo fuoco insieme verso i corpi distanti che potevamo a malapena vedere, tra di noi si formò una connessione che non potremmo mai descrivere a parole. Era quasi come se io e lui fossimo diventati una cosa sola.

Lo stesso corpo.

La stessa pistola.

La stessa persona.

Era come se avessimo fatto così da sempre. Sentivo che dentro di me si scioglieva un po' dell'amarezza della battaglia, e non sapevo che fosse una cosa buona tanto quanto sapevo che era una cosa necessaria, e lasciai che Rufy mi passasse i proiettili, che mi spingesse a terra quando i colpi dei nemici erano troppo vicini, e improvvisamente più che ogni altra persona in quel campo di battaglia Rufy aveva la mia incondizionata fiducia.

Non avevo mai realizzato prima di allora quanto fosse difficile per me fidarsi delle altre persone. Di solito ero il primo a giudicare, e il primo ad agire in ogni situazione, ma lì, come Rufy, con quel ragazzo che avevo a malapena conosciuto sei ore prima, mi trovavo quasi completamente a mio agio. Il sangue e le macerie ci piovevano addosso e la terra esplodeva e cambiava sotto i nostri occhi, le forme dei corpi dei nemici sembravano liquide figure che si muovevano nel fumo: fumo e nebbia, le uniche cose visibili al di là della gabbia di filo spinato in cui ci trovavamo.

Presi un respiro profondo e mirai.

Così fece Rufy.

Uno dopo l'altro, colpimmo tutte le ombre finché non ce ne furono più molte, e stavamo per finire i proiettili.

Quando guardai verso di lui, il ragazzo stava piangendo. Le sue labbra si muovevano fluidamente in quella che presi per una silenziosa preghiera, e solo questo non mi avrebbe interessato, ma quello che mi confuse fu il fatto che le sue labbra erano piegate in un sorriso gentile, così delicato da essere quasi amorevole. Sopra alle esplosioni, i colpi di pistola e le mine antiuomo afferrai alcune delle sue parole:

– E conducili a casa, Signore, che possano trovare amore e salvezza nelle tue braccia accoglienti – Boom.

E guarisci i loro cuori distrutti e i loro corpi sconfitti, cosicché possano camminare e vivere come uomini dovrebbero vivere – Crash.

E morire come uomini dovrebbero morire. – Fece una pausa e ricaricò la sua pistola, lacrime e pioggia mischiate a formare una sorta di malinconica acqua santa che benediceva e allo stesso tempo dannava le nostre armi.

E conducili a casa, Signore, – disse, facendo fuoco. – Dio onnipotente, conducili a casa.

Non riuscii a capire se stesse pregando per i nostri soldati o per i nemici che stavamo uccidendo. Penso che potesse essere per entrambi.

Quel suo sorriso quasi inquietante rimase sulla sua faccia finché la battaglia cessò, e sia lui che io crollammo a terra in quel mucchio di fango che era la trincea, troppo stanchi per parlare. Rufy giaceva disteso in modo che che la sua testa toccasse la mia spalla. Lo sentii tremare violentemente contro di me, e un'ondata di pietà combinata con tristezza mi sgorgò nel cuore rischiando di soffocarmi. Erano emozioni che non ero abituato a provare.

Senza pensare, sollevai il ragazzo tremante sulle ginocchia e lo strinsi in un grezzo abbraccio. Era imbarazzante, forzato e completamente innaturale ma, sia per lui che per me, necessario. Lo lasciai singhiozzare sulla mia spalla finché l'alba non fece capolino all'orizzonte e colorò il mondo di giallo.

– Zoro, – disse il ragazzo. – Qual è il senso di tutto questo?

Non ero sicuro di sapere a cosa si stesse riferendo, e semplicemente scossi la testa.

– Non lo so, Rufy, – dissi. – Proprio non lo so.


 

* * *


 

Passarono i giorni e Rufy divenne il mio migliore amico. Non so come successe, successe e basta, ma non lo rimpiansi nemmeno per un secondo. Rideva e sorrideva come un vero idiota, nonostante la totale mancanza di speranza e l'assoluto orrore che pervadeva la nostra situazione. Ci sedevamo vicini all'ora di pranzo e parlavamo.

Da parte mia, non c'era molto da condividere. Gli ho raccontato la storia di come ero cresciuto in una piccola città con la mia amica d'infanzia, Kuina. Gli ho raccontato di come mi sono arruolato nell'esercito quando avevo diciotto anni senza mai guardarmi indietro. Per tutto il tempo, lui semplicemente annuiva in segno di comprensione, occasionalmente si lamentava delle scarse quantità delle razioni di cibo che ci davano o giocava con la striscia rossa mezza scucita del suo cappello.

Quando arrivò il suo turno di parlare, lui si aprì e mi disegnò un quadro di tutta la sua vita. Mi raccontò della sua famiglia a casa, di come suo nonno aveva costretto lui e suo fratello, Ace, ad arruolarsi. Mi raccontò dell'oceano e del cielo e delle montagne e di tutte le cose belle che la vita aveva da offrire. Quando parlava lo faceva ad alto volume, entusiasta. Non potei farne a meno, e un piccolo sorriso spuntò sul mio viso, caldo e piacevole, per la prima volta da non so quanto tempo.

Dopo un po', Rufy cominciò a parlare più piano, la sua faccia e i suoi occhi divennero ombrosi e tristi.

Mi raccontò di come aveva visto suo fratello morire proprio sotto i suoi occhi, colpito nel petto da una scarica di proiettili. Erano di pattuglia poco lontano dalla loro unità quando c'era stata un'imboscata e gli avevano sparato. Rufy mi mostrò l'enorme cicatrice sul suo stomaco dove i proiettili erano stati rimossi e la guardai senza sbattere ciglio. Suo fratello gli era morto tra le braccia. Era successo due mesi prima, disse. Non c'era stata nessuna possibilità per i medici di salvarlo, era troppo tardi. Ace gli aveva chiesto di sorridere, e di tornare a casa. Per vivere la vita che lui non poteva più vivere.

Dovetti farmi forza per deglutire il groppo che mi si era formato in gola.

Dopo le sue parole, restammo in silenzio. Potevo capire che Rufy aveva bisogno di un momento per ricordare e reprimere il desiderio di scoppiare a piangere, quindi lo lasciai fare. Io c'ero dentro da molto più tempo di lui, e ormai ero immune al senso di vuoto che si prova nel vedere i compagni cadere intorno a te. Per lui, doveva essere stato un incubo. E di nuovo, ero impressionato dalla sua forza. Lui era ancora capace di sorridere e ridere e raccontare storie come ogni altro ragazzo di diciannove anni, ed era determinato a superare questa guerra infernale per tornare alla sua casa e alla sua famiglia.

Dopo essere tornato in sé, Rufy mi guardò e sorrise. I suoi occhi sembravano più vecchi di come sarebbero dovuti essere, e mi spaventavano, ma allo stesso tempo mi confortavano. – Torna indietro con me, Zoro. – disse. – Quando la guerra sarà finita, torniamo al mio paese insieme e mettiamoci in affari. Sono stufo di tutto quest'odio e questo uccidere. Non si addice ad un ragazzo come me, sai?

Sospirai e mi avvicinai a lui. – Cosa diavolo ne sai tu di come ci si mette in affari? – chiesi, prendendo un po' della mia razione dal sapore stantio e masticando.

Rufy rise e si mise il cappello in testa, sopra l'elmetto. – Assolutamente niente! – disse, allegro. – Ma non può essere cosi difficile, no? Intendo, la gente lo fa tutti i giorni. E di sicuro batte questo strisciare nelle maledette trincee tutta la vita, questo è certo. – Soldati di altri Plotoni ci passarono i fianco e camminarono verso dovunque stessero andando. Fissavano lo spettacolo di Zoro, la conosciuta macchina da guerra senza emozioni, che parla e sorride con lo sciocco ragazzo con il cappello di paglia. Li ignorammo e sentii il mio sorriso diventare più ampio.

– Su questo hai ragione. – dissi. Entrambi sospirammo nello stesso momento, e guardammo il cielo. Piccoli sprazzi di blu stavano diventando visibili attraverso le nuvole sempre più sottili, e un caldo raggio di sole scese sulle nostre facce per la prima volta dopo settimane.

Per un po', restammo a crogiolarci nella rara luce solare, assaporando il momento. Chiusi gli occhi e respirai profondamente, l'odore di polvere da sparo e uomini non lavati mi penetrò nelle narici e mi bruciò la bocca. Di fianco a me, Rufy ridacchiò.

Lo guardai e vidi subito che stava sorridendo ampiamente, maliziosamente. – Che c'è? – chiesi, alzando un sopracciglio.

– Ancora non ti ho detto la parte migliore! – disse, misterioso. Lo guardai incredulo e lui portò la mano ad una tasca dell'uniforme. Estrasse una sporca fotografia in bianco e nero e la sventolò davanti alla mia faccia, sorridendo come se mi stesse mostrando un immenso tesoro. La presi dalle sue mani e la osservai. Nella foto c'era una singola donna, alta, con lunghi e fluttuanti capelli che potevano essere biondi o arancioni, non avrei saputo dirlo. Stava sorridendo felice, stando su un portico di un piccolo paese che sembrava perfetto perché ci vivesse uno come Rufy.

– Ok, mi arrendo. – dissi dopo un momento. – Chi è? Tua cugina?

Rufy rise e scosse la testa. – È mia moglie. – disse, prendendo la foto e infilandola di nuovo nella tasca. Sentivo di avere gli occhi spalancati e tornai velocemente a fissarlo. Per un secondo pensai che stesse mentendo, ma il sorriso felice sul suo volto diceva altrimenti e fui costretto a crederci.

– Tua moglie? – chiesi, la bocca leggermente aperta. – Tu hai una moglie? Com'è possibile? – Rufy inclinò la testa indietro e rise forte, abbastanza per attirare ancora di più l'attenzione dei soldati e dei medici di passaggio.

– Non so come sia successo, ma già, sono sposato! – Il ragazzo ridacchiò. – Il suo nome è Nami. Può essere abbastanza autoritaria, alle volte, ma davvero, è fantastica! Siamo amici da sempre, persino quand'eravamo bambini, e mi sa che abbiamo sempre saputo che ci amavamo e che volevamo vivere insieme per il resto delle nostre vite. – Lo sguardo di Rufy si fece più dolce e il suo sorriso più amorevole, ma anche distante. – Lei è la cosa migliore che mi sia mai capitata, Zoro.

Fece una pausa e la sua mano corse alla tasca in cui stava la foto.

– Capisco. – dissi. – Buon per te, allora. Chissà, magari anch'io troverò qualcuno per me, un giorno. – Alzai gli occhi al cielo e vidi piccoli brandelli di nuvole volare alto sopra di noi e il nostro personale piccolo inferno.

– È solo... – iniziò Rufy – Odio pensarci... per via di questo. – comprese con un gesto la trincea in cui eravamo seduti. – Potrei non tornare mai per vederla di nuovo. Potrebbe dover passare il resto della sua vita da sola, senza di me, e sarebbe tutta colpa mia. – La sua voce divenne bassa e guardò in giù, verso il pavimento.

Gli battei una mano sulla spalla e sospirai. – Tu non morirai, Rufy. – dissi, strofinandomi stancamente il naso. – Non c'è nessuna possibilità che io ti permetta di non tornare alla tua felice vita di casa solo per morire in un posto schifoso come questo.

Rufy incontrò i miei occhi e vidi un'immensa gratitudine brillare nei suoi.

– Grazie, Zoro. – disse piano. – Per tutto.


 

* * *


 

I mesi passavano, e Rufy e io combattevamo fianco a fianco contro l'infinito oceano di nemici. Lui piangeva spesso, chiudendosi dopo ogni battaglia in uno stato di singhiozzi e preghiere, ma sorrideva anche.

Erano i suoi sorrisi che mi permettevano di superare le giornate.

Quando il frastuono del sangue e delle pistole diventava troppo potente, quando la mia maschera di durezza diventava sottile fino al punto di collassare, il mio amico era sempre lì. Mi lasciò stringere il suo cappello di paglia, dicendo che gli dava forza e fortuna, e passò un magro bracco intorno alle mie spalle con un ampio sorriso come se il mondo fosse perfetto. Monkey D. Rufy era l'unico raggio di sole in un infernale notte oscura. Quando la notte arrivava la luna, potevamo sentire i ragazzi del nostro Plotone singhiozzare col respiro irregolare sotto le loro coperte, incubi e visioni degli orrori del giorno che si ripetevano nella loro testa come orribili film muti.

Le loro voci erano sommesse e spaventate, come bambini che chiamano le loro madri. Questo tirava fuori il mio lato più dolce, e per quella che doveva essere la milionesima volta da quando la guerra era iniziata, avrei maledetto qualunque dio o divinità esistesse per la piaga dell'odio umano e per la sete di sangue. Quei ragazzi non sarebbero dovuti stare lì, tra morte e fuoco. Rufy meno di tutti. Diversamente da me, che nella vita non aveva fatto quasi niente di buono, Rufy aveva delle cose per cui valeva la pena di combattere. Aveva una casa. Aveva una famiglia.

Quando gli ho detto così, tutto quello che ha fatto è stato sorridere. – Ho anche te, Zoro. – disse. – Ci siamo dentro insieme, nel bene e nel male. Che ti piaccia o no. – Gli ho sorriso di rimando, e presto sarebbe partito a parlare di come le nostre vite sarebbero state una volta che la guerra fosse finalmente finita, quando saremo a casa. Voleva che io lo vedessi nella sua città natale, e che incontrassi sua moglie e suo nonno e tutti quelli che conosceva. Senza che glielo avessi detto, aveva capito che io non avevo un vero e proprio posto dove tornare, e quindi mi aveva chiesto di tornare a casa con lui.

– Ho perso il mio vero fratello. – disse un giorno, il sangue copriva metà della sua faccia e la maggior parte del suo braccio destro. Rimase in silenzio per un bel po', e io aspettai. – Ma... mi sa che ne ho guadagnato uno nuovo in questo posto, eh Zoro? – C'era sia gioia che tristezza nella sua voce, e mentre scrostavo dal fango le nostre armi e cercavo di trattenere le lacrime di frustrazione, riuscii a farmi spuntare un sorriso sul volto.

– Puoi scommetterci. – dissi, la voce che tremava. – Puoi scommetterci tutto quello che vuoi. Però devo avvertirti, non ho mai avuto un fratello prima d'ora, quindi non sono sicuro di sapere come funziona. – Mi coprii gli occhi con l'elmetto e permisi alla dolce risata di Rufy di scivolarmi addosso.

Pioveva di nuovo.


 

* * *
 

Rufy mi ha salvato la vita.

Il giorno era cominciato e la battaglia vibrava nell'aria come coltelli nel vento.

Il ragazzo era ancora una volta al mio fianco, mormorando le sue parole per Dio e facendo fuoco una scarica dopo l'altra. La pioggia cadeva pesantemente sulle nostre teste, facendoci scivolare e scorrere attraverso le trincee fangose come vermi nello sporco. Caddi e lui mi afferrò per i piedi.

Stavo ricaricando la mia pistola quando da qualche parte lontano da noi venne scagliata una granata. Stava puntando dritto verso di noi, un piccolo pacchetto di morte insanguinata pronta per prenderci di sorpresa e ucciderci. Non me ne accorsi finché non fu troppo tardi per muoversi. In quel momento, fui davvero convinto che sarei morto. Avevo pochi rimpianti, nessuno dei quali valesse la pena di essere portato con me, e credetti di essere già con un piede nella fossa.

Rimasi congelato, e aspettai. I secondi sembravano ore. Sentivo rivoli di sangue e sudore scorrere caldi lungo la schiena.

Dietro di me, Rufy gridò.

Prima che capissi cosa stava accadendo, sono stato strappato dalla mia posizione accovacciata addosso alla parete e spinto giù un paio di metri più lontano. La mia faccia andò a sbattere contro il fango e sentii i denti conficcati nel labbro inferiore. C'era stata un'assordante esplosione, e le macerie mi piovevano addosso come se potessi esserne sepolto. Il mio cuore batteva così velocemente che avevo paura che scoppiasse, le mie labbra pungevano e il sangue mi riempiva la bocca. Quando girai la testa per vedere cosa stava succedendo, fui sorpreso di vedere la faccia incrostata di sporco di Rufy davanti alla mia.

Il suo corpo era posizionato in maniera protettiva sopra il mio, la sua bocca contorta dal dolore e i suoi occhi bagnati. Guardando dietro di lui, vidi un nuovo, rotondo cratere scavato in profondità nella parete. Era il punto esatto in cui ero bloccato io non più di cinque secondi prima.

Tentai di alzarmi, ma Rufy scivolò mollemente sul mio petto, la sua testa penzolava su un fianco. Andai in panico.

Strinsi velocemente il ragazzo tra le mie braccia e lo sollevai più gentilmente che potei contro le mie spalle. I suoi occhi erano aperti, ma c'era un senso di vuoto dentro di essi che mostrava che non era tutto lì, grandi orbite scure che mi fissavano come se fossi un qualche tipo di sogno molto confuso. Lo scossi.

– Rufy! – chiamai, la voce roca. – Rufy! Oddio, Rufy! Sei ferito? Gesù, Rufy... – Il ragazzo fra le mie braccia si contorse leggermente, e istantaneamente sentii qualcosa di caldo scivolare fra le mie mani da qualche parte sulla sua schiena. Il mio cuore perse un colpo.

I suoi occhi ci misero qualche secondo per mettermi a fuoco, e quando lo fece, si fissarono sul mio volto. Sembrava che stesse soffrendo molto, gli angoli della sua bocca tirati su in una smorfia tesa. Non sapevo cosa fare. – Zoro... – gemette.

– Sono qui, Rufy, sono qui. – dissi velocemente, il più rassicurante possibile. Mi guardai intorno freneticamente, disperatamente cercando ogni segno di un medico, o qualcosa, qualunque cosa, che lo facesse smettere di sanguinare. Non c'era niente, così gridai. – UN MEDICO! Qualcuno venga qui ADESSO! C'è un uomo ferito in urgente bisogno di aiuto! – Intorno a me il suono della guerra imperversava, le esplosioni bloccavano i miei patetici gridi e facevano saltare detriti che piovevano sulla mia forma rannicchiata.

Per la prima volta da un sacco di tempo, ero spaventato.

Ero assolutamente terrificato.

Rufy si agitò ancora, e un piccolo rivolo di sangue gli uscì dal lato della bocca. – Zoro... sei... – ansimò, e io mi avvicinai un po', rafforzando la mia presa sulla sua piccola figura. – Sei... ferito...? –Mi cadde la mascella, e sentii la necessità di tirargli uno schiaffo in testa.

– Idiota! – mi lamentai. – Io sto bene, preoccupati per te stesso, per una volta!

Rufy sorrise. Era un sorriso piccolo e doloroso, ma era vero, e brillava come il sole. – Sono... felice... – sussurrò. – Avevo paura... Avrei potuto perdere mio fratello... di nuovo...

I suoi occhi stavano cominciando ad andare alla deriva e il calore nelle mie mani cresceva sempre di più. Il mondo intorno a noi sbiadì, dopodiché eravamo solo io e Rufy, seduti nelle trincee come facevamo sempre, parlando.

– Stai come me, Rufy. – implorai, scostandogli i capelli dagli occhi perché potesse vederci meglio. – Non è ancora successo niente. Stai semplicemente come me e io troverò un aiuto.

Il sorriso di Rufy divenne più ampio e il mio cuore si contrasse.

– Va bene... – disse. – Andrà tutto bene... non c'è modo... io... morirò, e... ti lascerò qui... tutto solo... – fece una pausa e prese un paio di sospiri traballanti. – Stare da soli... fa molto più male che morire... – Potevo vedere che stava lottando per restare cosciente, ombre scure gli apparivano negli occhi e sul viso. Mi abbassai e presi la sua piccola mano nella mia stringendola forte e vacillando per quanto fredda era.

Gridai perché qualcuno venisse ad aiutarci, la mia voce divenne disperava. Rufy diventava sempre più calmo e tranquillo. – Ehi! – gridai, stritolandogli la mano. – Non dormire! Mi hai sentito, Rufy? Non addormentarti, non importa cosa succede. Hai bisogno di stare sveglio e... e... – la mia voce si ruppe e le lacrime minacciarono i miei occhi. – Hai bisogno di stare sveglio e raccontarmi degli affari che inizieremo!

Rufy sbatté le palpebre e un timido sorriso trovò la sua strada fino alle sue labbra. – Affari... eh? – disse. – È vero. Noi... Usciremo da questo inferno e... ci metteremo in... affari... – Sembrò concentrarsi su qualcosa. – Zoro? – chiamò.

– Sì? – dissi.

– Che tipo di affari dovremmo iniziare?

– Non lo so. – dissi, sorridendo leggermente e strofinandomi la faccia sulla spalla. – Era una tua idea, dimmi tu.

– Lui ridacchiò piano. – Dovrebbe essere... qualcosa di divertente... nessun ufficio e... nessuna pistola... – il sangue stava filtrando attraverso la sua uniforme e non potevo trattenere il tremito nella mia voce.

– Già, niente pistole. – dissi.

– Già. – fece lui.

Quando Rufy rimase in silenzio sentii l'urgenza di farlo parlare di più. – Dimmi di tua moglie. – dissi, forzando un sorriso e guardando in profondità negli occhi del ragazzo. – D-dimmi di Nami. È il suo nome, giusto?

Rufy annuì lentamente e vidi un lieve rossore colorare le sue pallide guance. – Nami... – disse, quasi a se stesso. – La mia Nami... vediamo... è bellissima, e gentile... ama i mandarini e... e... – Il suo sorriso si dissolse e vidi un'ondata di dolore nei suoi occhi.

– E cosa? – chiesi velocemente. – Lei è cosa, Rufy? – Tirai su col naso e sentii una lacrima traditrice scivolare giù dalla mia guancia.

– E lei... Oddio, Zoro... – disse Rufy, prossimo alle lacrime. – E lei resterà... tutta sola... non sarò... lì... come ho promesso... – Lacrime caddero giù dalle sue guance e strinse gli occhi. Non singhiozzò, semplicemente lasciò che le lacrime arrivassero e trovassero la loro strada attraverso la sporcizia e il sangue del suo viso.

Cominciai a piangere apertamente.

– Tu ci sarai, Rufy, – dissi tremante. – Tu non te ne vai da nessuna parte, non senza il mio permesso, capito? Quindi devi solo... resistere un altro po'... – chinai la testa e mi morsi le labbra per non far uscire i singhiozzi. – Per favore... per favore, Rufy... Ti prometto che ci sarai...

Nella mia testa, la stessa cantilena si stava ripetendo ancora e ancora. No no no no no no non sta succedendo davvero è Rufy e non sta sorridendo come fa di solito e ha una casa e una famiglia che lo aspetta e non può morire e Oh mio Dio c'è così tanto sangue ed è Rufy ed è Rufy ed è Rufy...

E sarei dovuto essere io...

Zoro... – La debole voce di Rufy mi strappò ai miei pensieri. – Puoi... fare una cosa per me?

I miei occhi facevano male per quanto avevo pianto e annuii. – Qualunque cosa. – feci.

– Il mio cappello... – sussurrò. – Puoi... assicurarti che le arrivi? È con tutta la mia roba... giù al... rifugio... Voglio che lo abbia lei... per favore, Zoro... per favore... – Mi stava implorando, e i suoi occhi bruciavano di dolore e tristezza e paura.

Annuii un'altra volta, incapace di formulare delle parole, e guardai come un silenzioso sorriso si formava sulle labbra di Rufy. Sembrava così giovane mentre giaceva lì, così simile al ragazzo che era e non all'uomo che sarebbe dovuto sembrare. I suoi occhi erano pesanti, ma ancora brillavano di vita e della forza che sapevo provenisse dai due mesi passati. Persino mentre stava morendo, era ancora il mio Rufy.

Grazie, Zoro... – disse, calmo. – Assicurati di dirglielo, dillo a tutti loro, che mi dispiace... digli che li amo più della mia vita... e che io... avrei voluto vederli... un'ultima volta... – Eravamo entrambi in silenzio. La pioggia picchiettava intorno a noi, quasi come se il cielo stesso volesse piangere per Rufy. – Zoro, io... io non voglio morire...

Lo abbracciai così che la sua faccia fosse sepolta nel mio petto. – Lo so, Rufy, lo so. – sussurrai.

– Puoi... pregare...? – sussurrò. – Ho... paura... Ho davvero tanta paura... Zoro... – Mi morsi le labbra così forte che sanguinarono. Non avevo mai pregato un solo giorno in tutta la mia vita. Per quanto potevo ricordare, la mia politica era sempre stata quella di fare le cose da solo senza mai affidarsi a qualche lontana divinità che poteva esistere o non esistere. Ero preoccupato che le mie parole non andassero bene. La mano di Rufy si serrò meccanicamente attorno alla mia, la paura evidente nella sua presa.

Annuii.

– Va tutto bene, Rufy. – dissi. – Non aver paura, sono proprio qui. Uhm... vediamo... Dio? Io... non so se stai ascoltando adesso, o se sei davvero lassù, ma... Mi sa che ho un paio di cose che mi piacerebbe chiederti. – Feci una pausa e deglutii. – Per favore... non portarlo via... Rufy è... lui è l'unica cosa buona che mi sia mai successa... Quando sono partito per questa guerra... non sapevo che avrei trovato il mio primo vero amico... e adesso... ho bisogno di lui... un sacco di persone hanno bisogno di lui... – il respiro di Rufy stava diventando affannoso e il suo corpo sempre più freddo. – Ti sto implorando... lascia che stia qui... salvalo... per favore... – Non riuscii più a parlare, le parole si inceppavano nella mia gola e mi soffocavano, e così mi strinsi più vicino a lui e appoggiai il mento sull'elmetto di Rufy.

Rimanemmo in quella posizione per quella che sembrò un'eternità.

Alla fine, Rufy spostò la testa e mi guardò. I suoi occhi erano opachi e sfocati, e stava lottando per restare sveglio. Le mie lacrime caddero sulla parte esposta della sua faccia e aiutarono a lavare il sangue e lo sporco, facendolo sembrare come se fosse solo addormentato. – Rufy. – sussurrai.

Gli angoli della sua bocca si tirarono in su, e sorrise. Il ragazzo soldato, sull'orlo della morte, mi stava sorridendo proprio come avrebbe fatto normalmente. Come se non stesse per morire e lasciare tutta la sua vita dietro di sé.

Il mio cuore si frantumò in un milione di pezzi che non si sarebbero mai e poi mai potuti rimettere insieme.

Non mi stava guardando. Stava guardando in alto, verso le nuvole tempestose, verso i cieli che lacrimavano così copiosamente sopra di noi. Potrei giurare che non stava vedendo le nuvole o la pioggia. Le cose che i suoi occhi stavano fissando erano molto più lontane, e molto più belle di qualunque cosa potesse esistere qui sulla Terra. Era felice.

Era salvo.

Non era più il triste ragazzino sporco di sangue che moriva nella trincea. Era libero. Finalmente libero.

Non so da quanto tempo i suoi occhi avevano smesso di vedere. La luce si dissolse da dentro di loro e il suo corpo si svuotò, rilassandosi fra le mie braccia. Seppellii la mia faccia fra le sue spalle e piansi, più forte e più intensamente di quanto io abbia mai fatto in tutta la mia vita. Avevo il suo sangue sul volto, ma non mi interessava. Tutto quello che importava era Rufy.

Monkey D. Rufy, il mio migliore amico, era morto. Per me.

Lo appoggiai gentilmente a terra e feci scorrere la punta delle mie dita sulle sue palpebre per chiudergliele. Il sorriso rimaneva ancora sulla sua faccia, e nonostante la pioggia e il sangue e la terra fangosa, sembrava davvero in pace.

Non era giusto.

Rimasi seduto con lui finché non arrivò il mattino, luce dorata che si infiltrava in ogni angolo e fessura della buia notte, trasformandola in giorno. Angeli scivolarono oltre la terra di nessuno in forma di nebbia e nuvole basse, radunando le anime e facendole volare verso il cielo scintillante. Li chiamai silenziosamente, chiedendogli di venire per lui, e di essere gentili con il suo spirito.

Forse mi sentirono davvero, o forse erano solo disegni deformati dalla scia delle mie lacrime.


 

* * *


 

Il tempo passò. La guerra finì.

Volai a casa su un bombardiere con uno sbrindellato cappello di paglia ficcato nella mia borsa.

Di tutte le cose che avevo mai fatto nella mia vita, quella che stavo per fare era la più importante. Avevo un indirizzo scribacchiato stretto nella mia mano, macchiato e sbiadito dai mesi in cui l'avevo tenuto con me, e avevo memorizzato le parole e i numeri così che anche se lo avessi perso avrei comunque potuto trovare il posto in cui conduceva l'indirizzo.

Non ero mai stato bravo con le direzioni.

Essere di nuovo a casa era strano. Era come se stessi camminando attraverso un sogno sfocato, le immagini fluttuavano in maniera strana, surreale. Quando Rufy se n'era andato, aveva portato con sé un bel pezzo di me. Mi sentivo scavato, vuoto, e ripetevo i gesti giornalieri in maniera meccanica, senza pensare.

Mangia.

Dormi.

Viaggia.

Ripeti.

Andò avanti così per giorni, e finalmente raggiunsi la porta di una piccola casetta bianca.

Controllai due volte l'indirizzo per assicurarmi che fosse quello esatto e poi, dopo aver preso un profondo respiro, bussai delicatamente alla porta. Aspettai per quelle che sembravano ore, finché una giovane donna dai capelli arancioni non rispose. Era bella, con i suoi lunghi capelli tirati su in una disordinata coda di cavallo, e la sua magra figura era circondata da un lungo vestito bianco. Notai che aveva gli occhi arrossati.

– Posso aiutarla? – chiese con un sorriso stanco.

Mi schiarii la gola. – A dire il vero, sì. – dissi, aprendo la borsa. – Sono venuto per darle una cosa. – Frugai nella borsa per un secondo e vidi che la donna sembrava confusa. O almeno fu così finché non le presentai il malconcio cappello di paglia. I suoi occhi si spalancarono, e la sua mano volò a coprire la bocca.

– È...? – sussurrò, le lacrime che le si formavano negli occhi.

Annuii e glielo porsi. Lei lo fissò per un momento, poi lo afferrò mani tremanti e lo strinse leggermente al petto, uno sguardo di inimmaginabile dolore le attraversava il volto. Senza dire un'altra parola, cadde in ginocchio e iniziò a piangere. Le sue lacrime cadevano sul cappello di paglia e subito dopo sparivano, quasi come se Rufy stesse cercando di asciugargliele da oltre la morte. Mantenni un'espressione calma. Per quello che mi riguardava, avevo già speso tutte le lacrime di cui avevo bisogno.

La donna continuò a singhiozzare dolcemente finché il sole non sbucò da oltre gli alberi e le macchiò il viso gonfio di lacrime.

Da qualche parte dentro la casa, un bambino cominciò a piangere.

Spalancai gli occhi, e il mio cuore prese a battere più velocemente. La donna si voltò e guardò indietro attraverso la porta, poi entrò silenziosamente all'interno. Aveva lasciato la porta aperta, senza mai staccare le dita dal capello, e lo presi come un implicito invito ad entrare. La seguii per un breve corridoio, foto incorniciate di lei e Rufy che mi sorridevano dalle pareti. Il suo sorriso era tanto ampio in fotografia quanto lo era nella vita reale.

La donna mi condusse in una stanza dalla porta blu. Era la camera di un bambino, decorata con disegni di pirati e dinosauri e altre cose a cui solo Rufy avrebbe potuto pensare. In un angolo c'era una piccola culla. Mi mancò il fiato, e per qualche ragione esitavo ad avvicinarmi. Il bambino si stava lamentando scuotendo la sua piccola testa. Sua madre appoggiò il cappello di Rufy su un tavolo traballante e prese delicatamente in braccio il bambino.

Lo cullò per un qualche secondo, parlandogli dolcemente e muovendolo su e giù. Il bambino divenne più calmo, e quando lo guardai mi accorsi che aveva sparati capelli neri.

La donna mi guardò e sorrise. – Ho scoperto di essere incinta un paio di mesi dopo che se n'è andato. – disse. – Lui... mi ha detto che quando sarebbe tornato noi... saremmo stati una famiglia. – La sua voce si ruppe e vidi una singola lacrima rotolare giù dalla sua guancia. – Quel Rufy... cercava sempre di... farmi sorridere e... e... – Non poteva continuare. Avvicinò a sé il bambino e baciò la sua piccola fronte con amore.

Feci un passo indietro.

– È morto proteggendomi. – dissi semplicemente. La donna mi guardò, sorpresa. – È colpa mia se non è qui, adesso. Volevo solo scusarmi, e assicurarmi che ti arrivasse il suo cappello. – Evitai il suo sguardo e invece mi concentrai sul bambino addormentato tra le sue braccia. Rimanemmo entrambi in silenzio per molto tempo.

Alla fine, la donna sospirò. – Sono sicura che era felice. – disse. La mia testa si alzò di scatto e la vidi sorridermi gentilmente. Ero sconvolto. Non avrebbe dovuto odiarmi e disprezzarmi per aver causato la morte di suo marito? – Sono sicura che era felice perché... stava proteggendo qualcuno di cui gli gli importava. È esattamente da lui. – Fece una pausa, vinta dalle emozioni. – Sono contenta. Sono contenta di sapere che ti ha avuto con sé... che non era da solo... quando... – Si strofinò gli occhi. – Quando è morto.

Serrai i pugni mentre i ricordi di quel giorno mi si riversavano addosso. Mi schiarii di nuovo la gola. – Lui... lui voleva che ti dicessi questo... lui ti amava. – dissi. – Più della sua stessa vita. Più di qualunque cosa. Mamma mia, non ricordo quante volte mi ha raccontato di te, e di suo fratello, e del vecchio. Avresti dovuto vederlo. Non ho mai conosciuto una persona con più amore nel cuore di Rufy. Mi spiace solo che... non ho potuto fare niente per lui... alla fine.

Sentii una mano calda sul braccio. La donna stava direttamente davanti a me ora, un piccolo, triste sorriso sulle sue labbra. Fece scivolare in giù la mano e prese la mia. La guidò finché non toccai le guance del bambino, mani grezze e dure che incontravano la sua nuova pelle, e il bambino si agitò leggermente, confuso dall'improvviso contatto.

– Non è bellissimo? – chiese, nient'altro che amore nella voce. – Alla fine abbiamo avuto un maschietto. So che a Rufy sarebbe andata bene qualsiasi cosa, ma avrei detto che voleva proprio un figlio. – Sospirò e chiuse gli occhi. – Questo è il più grande dono che chiunque avrebbe mai potuto farmi. Il mio Rufy ha combattuto per proteggerci, e anche tu. Non devi scusarti di nulla.

Racchiusi le guance del bambino tra le mani e lasciai che un sorriso trovasse la sua strada fino alle mie labbra. Dentro, mi sentivo libero. Dalla guerra, dalla morte, dalla colpa. Avrei sempre ricordato Rufy, qualsiasi cosa avrei fatto e dovunque sarei andato nel futuro. Sarebbe sempre stato una parte di me, la parte del mio cuore più calda e piena di luce. Guardando suo figlio, realizzai una cosa.

Non se n'era andato davvero.

Monkey D. Rufy non era seppellito sottoterra nelle trincee di una terra lontana. Era proprio qui a casa, con sua moglie e il bambino, nel posto a cui apparteneva. Lo percepivo, lo sentivo. Il suo caldo sorriso sulla mia schiena e la sua sciocca risata che risuonava tra le pareti.

Sarebbe sempre stato qui, anche se non potevamo vederlo.

Lasciai che una singola lacrima scendesse dalle mie guance e cadesse sul pavimento.

Il nostro ragazzo era davvero tornato a casa, dopotutto.










Ugh.  Ecco. Persino mentre la rileggo così di sfuggita io piango ancora.
Che ne dite? Vi è piaciuta?
C'è anche un altro capitolo, molto più corto ma comunque bellissimo, una sorta di epilogo. Probabilmente lo pubblicherò presto.
Che ne dite? Valeva la pena? Insomma, per me è davvero speciale, perché 1) è un'AU 2) parla di fratelli 3) c'è un tale senso di speranza e lutto superato, qui... 4) c'è un senso religioso davvero forte.
Oh, e quando Rufy pregava per i soldati? Ma non era tenero da strappare il cuore?
Ok, basta così che sennò scoppio di nuovo.
Spero che sia piaciuta a voi come a me.
Ciao a tutti!
EmmaStarr ^^
 

  
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