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Autore: IamShe    27/08/2013    16 recensioni
Non è buffo? È mio marito e padre di mio figlio, ma non conosce quel qualcuno che è la causa scatenante delle mie azioni; quel qualcosa a cui la mia vita si relaziona per essere tale. «Shinichi Kudo» dico. Non lo conosce, sa soltanto che è il mio amico d’infanzia.
Sorrido, afflitta. Di che mi lamento? In fondo è davvero così.

Ran è sposata ed ha un figlio, ma il marito e padre del suo bambino non è Shinichi. Lui è mancato per dieci lunghi anni e continua a mancare. Eppure, anche quando credeva di aver finalmente voltato quella maledetta pagina, di aver dimenticato quel nome, si ritrova a dover fare i conti col suo passato. Un passato che è più vicino di quanto voglia ammettere.
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I periodi in grassetto corsivo sono flashback! :)



#2 Il pediatra
 
 
Conan piange, e non riesco a farlo smettere. Le sue lacrime sono coltelli affilati nella mia pelle, e l’impossibilità di capire da cosa siano causate non fa altro che allargare una piaga già aperta: quando è nato è stato costretto a rimanere due settimane nell’incubatrice. Secondo la dottoressa, durante la gravidanza è stato portato ad attorcigliarsi intorno al collo il cordone ombelicale. Così al momento del parto era asfittico, di un colore violaceo. Ero sul punto di perdere mio figlio ancora prima di vederlo. Per fortuna è andato tutto per il meglio: Conan è riuscito a respirare coi suoi polmoni, e dopo quasi un mese dal parto, siamo tornati a casa. Ecco perché è tutto in disordine qui. È solo una settimana che abbiamo traslocato, e mille problemi ci hanno travolti. Mio figlio è nato durante il mio matrimonio, ancora prima che potessi pronunciare il fatidico . È nato prematuro, perché lo aspettavo per il mese successivo, verso la fine di ottobre. La dottoressa non è riuscita a spiegarci il perché; ha detto che probabilmente, essendo stato un feto abbastanza vivace, ha rotto le acque molto prima del tempo.
Sarà impossibile dimenticare le facce impallidite di Shirai, mia madre e mio padre in quei momenti. Il mio sgomento e la mia paura, il sangue che sgorgava da me a fiotti. La sirena dell’ambulanza che echeggiava lontana e la corsa in ospedale. L’impossibilità di sentire le voci altrui, e la voglia di ascoltarne solo una, che quel giorno però non c’era. Sebbene l’abbia invitato al mio matrimonio lui non si presentò. Ma in fondo me l’aspettavo. L’ultima volta che ci vedemmo, un anno fa, mi disse che era felice per me. Felice che io avessi trovato l’uomo da amare, e non l’uomo da aspettare. È sempre stato così teatrale lui, sempre così misterioso ed enigmatico. È sparito per dieci anni, e solo al compimento dei miei ventisette ho scoperto che fine avesse fatto. M’ero immaginata chissà quale giro intorno al mondo, o magari chissà quante donne che avessero provato a strapparmelo. Invece era sempre stato a casa mia. L’ho avuto per dieci anni in casa mia e non lo sapevo. Ricordo di essermi arrabbiata, di avergli detto che non aveva fatto altro che mentirmi, che non ci si poteva fidare di lui. E lui non fece che annuire. Come se le colpe avesse voluto spiarle in quel modo, dandomi ragione. Ma poi capii di essere stata una stupida, anche solo a credere che non l’avesse fatto per una giusta ragione.
Bussano alla porta. Mi alzo a fatica, mentre il pianto del mio bambino è ancora nelle mie orecchie. Giro la chiave e scatta la serratura, affondo gli occhi nella figura di fronte a me.
Il cuore fa una capriola all’indietro e i polmoni sembrano chiudersi, bloccandomi il respiro. Rimango per qualche secondo lì, inerme, senza più attitudine a muovermi.
Shinichi Kudoè di fronte a me, ma quasi fatico a vederlo.
«Che fai? Mi fai entrare?»
La sua voce è un tuffo nel fuoco. Mi brucia gli organi, i tessuti e la gola. Mi tappa le orecchie e mi ustiona il sistema nervoso. Sono un fascio di fiamme e di scintille pronte a divorarlo.
«Oh... sì. Sì. Entra.»
Mi faccio da parte, permettendogli di scivolare dentro casa, come un cobra che comincia a studiare il terreno in cui attaccare.
«Come stai?» mi chiede, forse un po’ scontato.
«Bene», rispondo con altrettanta banalità. «Tu?»
«Bene.»
Alzo gli occhi su di lui, adesso è di schiena. Indossa una maglia scura che si appoggia con dolcezza sulle sue spalle larghe, molto più muscolose di come le ricordavo. Il suo organismo avrà anche debellato per sempre gli effetti di quel farmaco, ma io non noto neanche un tratto di invecchiamento in lui. Ha sempre lo stesso viso fanciullesco, dai lineamenti fini fatti per essere accarezzati e dagli occhi azzurri e splendenti di un tempo. Rimarrà per sempre l’uomo più bello che conosca, con la sua voce forte dai toni quasi arroganti e saccenti. Con la sua aria misteriosa e particolare, circondato da quella sensazione speciale che sembra dirti “ti proteggo io”. Spesso e volentieri è stato grazie a lui che son riuscita ad andare avanti, nella sua stessa apparente assenza. Quella lacerante assenza che mi ha rovinato la vita.
Il telefono squilla incessantemente, facendo salire in me il nervosismo e la paura di dover riascoltare ancora quella maledetta segreteria telefonica. Accavallo le gambe, snervata, in attesa che risponda. Quanto tempo è che non lo sento? Un mese, due? E l’ultima volta che l’ho visto quand’è stato? Al solo pensiero mi viene l’angoscia: quattro anni fa.
Ed oggi, a San Valentino, non faccio altro che chiedermi se anche lui un po’ stia pensando a me. Se gli manco come lui manca a me, se tra un caso ed un altro abbia un attimo libero per chiedersi che stia accadendo. Eppure non posso far altro che essere pessimista: a volte mi convinco che non mi chiami perché si sia scordato di me e di tutto quello che abbiamo passato.
Altre mi ricredo, eppure il dolore non si affievolisce. Mai possibile non abbia voglia di vedermi? Possibile non riesca a trovare un secondo libero per noi? L’attesa è frustante.
Risponde, quasi quando stavo per staccare.
«Pronto?» Comunque, la sua voce è sempre la più bella da ascoltare.
«Shinichi? È tantissimo tempo che non ti fai sentire! Ma cosa stai facendo? Perché non torni?», non ho la massima voglia di utilizzare gentilezza al momento.
«Ran... lo sai. Sono impegnato con quel caso. Non posso.»
«Impegnato talmente tanto da non telefonare neppure?» sbotto, in preda ad una crisi di nervi. E come al mio solito, le palpebre si riempiono di lacrime. «Dove sei, Shinichi?»
Ci mette qualche attimo a rispondere, e credo si sia accorto della mia voce. È rotta dai singhiozzi.
«Se mi vuoi... sono sempre vicino a te, Ran.»
Una lacrima cade e si frantuma sul mio petto. «Lo sai che giorno è oggi?»
«Il 14 febbraio.» Anche la sua voce è leggermente triste.
Annuisco, anche se lui non può vedermi. «San Valentino.»
«Hai preparato il cioccolato?» chiede, ed io riesco a sorridere, ironica.
La sincerità si impossessa di me: «Per darlo a chi?»
Risponde dopo qualche secondo di troppo. «Al piccoletto con gli occhiali, Conan. Si chiama così, no?»
«Conan-kun?» chiedo, stranita, con un sopracciglio incurvato.
Lui conferma, ed io prendo il coraggio necessario per formulare la frase seguente. Le guance cominciano ad accaldarsi.
«Mi stai chiedendo... di donare il mio cuore ad un ragazzino di 11 anni?»
Shinichi scoppia a ridere, poi aggiunge: «Ti sto chiedendo di fargli mangiare il tuo cioccolato. È come se lo mangiassi un po’... anche io.»
Arrossisco violentemente, ma la sua frase ha il potere di farmi smettere di piangere. Riesco quasi a sorridere.
«Perché?»
«Perché lui mi somiglia.»
Annuisco in cuor mio. «...E tu vorresti mangiarlo?»
«Be’, è da un po’ di tempo... che ho voglia di dolce.»
Sorrido, stringendo più forte il cellulare fra le mie mani. È come se potessi toccarlo, come se fosse il suo corpo. Come se riuscissi a sfiorarlo...
«Mi manchi, Shinichi. Torna presto.»
Lo sento sospirare. «Ciao, Ran. Buon San Valentino.»
«No, aspet...» ma è inutile. Guardo il display: ha staccato la chiamata. Quando si toglierà questo brutto vizio? È possibile che non capisca che non mi basta sentirlo per cinque minuti? Vorrei vederlo, ho un bisogno incessante di abbracciarlo di nuovo.
Qualcuno apre la porta alla mia destra, quella della mia stanzetta. È Conan, cresciuto di circa trenta centimetri negli ultimi anni. Shinichi ha pienamente ragione: gli somiglia così tanto...
«L’Oji-san non c’è?» domanda, girandosi intorno a cercarlo.
«No, è uscito.» Rispondo, poi lo guardo, e sorrido. «Piuttosto... ti va di mangiare un po’ di cioccolato?»
E quasi come se s’aspettasse quella domanda, risponde nel giro di qualche istante: «Assolutamente sì.»
Sorridiamo insieme.
La sua voce interrompe i miei ricordi: «Sono venuto per tuo marito. Mi ha detto che doveva parlarmi...»
Ah già. Shirai lo ha contattato in mattinata per via di quei pazzi biglietti anonimi.
«Lo so» dico semplicemente, e superandolo, faccio incontrare i nostri sguardi. «Vieni, entra.»
Attraversiamo il corridoio in silenzio, interrotto dal pianto del mio bambino. Per alcuni minuti sono stata capace di isolarlo dal mondo, meriterei l’ergastolo solo per questo. Corro a guardarlo dimenarsi nella culla, con le manine strette in piccoli pugni che sbattono ai bordi del cuscino.
«Che c’è, tesoro? Perché piangi?», lo prendo nelle mie braccia, ma la situazione non sembra migliorare. Continua a piangere, e credo quasi che con quei muscoli così piccoli si faccia anche male a farlo.
«No, no, amore...» La sua carnagione si è sfumata di rosso, è quasi tendente al viola.
«È lui... vero?», mi si avvicina Shinichi, dopo aver dato una fugace perlustrazione alla casa con i suoi occhi da falco. Con quegli occhi azzurri da falco.
Ma io non rispondo, e lui insiste. «C’è qualcosa che non va?»
«Non lo so...», comunque non lo guardo, preoccupata come sono per Conan. «Non riesco a farlo smettere di piangere. Non riesco a capire cosa voglia dirmi.»
«È un episodio sporadico o continuo?» mi chiede, osservando il bambino tra le mie braccia.
«Be’... i-io non so. In realtà non fa altro che ridere e dormire quasi tutta la giornata» lo avviso, mentre Conan lancia altri gemiti strazianti. «A-anche se... a dire la verità, a quest’ora lo fa spesso. Non so, forse è una mia impressione.»
Shinichi lo osserva ancora un po’. «Credo che... che soffra di colichette.»
La mia faccia terrificata lo diverte leggermente.
«No, non preoccuparti, non è nulla di grave. Molti bambini ne soffrono. Potrebbe essere a causa di qualche allergia, magari di un’intolleranza al lattosio... prende il tuo latte, giusto?»
Io annuisco, stringendo un po’ più forte la presa su mio figlio.
«Non è che in questo periodo sei particolarmente stressata? Il tuo latte ne risente, lo sai?»
Abbasso gli occhi, sentendomi la peggiore delle colpevoli. A causa delle mie paranoie sto avvelenando il mio piccolo? Come posso anche lontanamente essere definita una madre saggia se per colpa della mia stupidità non faccio altro che far del male a Conan?
«È così, giusto?» chiede conferma lui, avvicinandosi lentamente. «Devi cercare di stare bene, sennò sarebbe meglio che lo nutrissi con del latte farmaceutico.»
Annuisco ancora, incapace a dirgli altro.
«Vuoi andare dal pediatra? Di certo io non sono un medico e lui potrà fornirti delle informazioni più dettagliate per farti stare più tranquilla.»
Vorrei, ma mio marito non c’è, è ancora a lavoro. In effetti lui non c’è mai stato durante le crisi di pianto che ha avuto Conan in questi giorni, proprio perché sono capitate tutte allo stesso orario.
«Shirai non è ancora tornato» avviso Shinichi, che alla mia voce si morde un labbro. Quasi come se gli avessero dato fastidio le mie parole.
«Ti accompagno io se vuoi» si offre, simulando un sorriso. «Ho l’auto giù.»
«Davvero lo faresti?» gli domando, mentre Conan continua a dimenarsi tra le mie braccia, irrequieto.
«Sì, perché non dovrei?» sorride, e per un attimo avverto di amare ancora quella curva delle sue labbra.
«Oh, sei gentilissimo!» lo ringrazio. Lui fa un breve cenno di assenso.
«Puoi tenermelo un momento? Devo solo mettermi le scarpe!» lo avviso con frenesia, impaziente di raggiungere il medico il prima possibile. Perché non c’ho pensato prima? Era ovvio che quei pianti così periodici dovessero significare qualcosa!
Shinichi strabuzza un po’ gli occhi, poi annuisce. Credo di averlo visto arrossire. Conan passa dalle mie alle sue braccia e, in un attimo, tace. Sono incredula. Torno a guardarlo e, per assurdo, sta ridendo.
«Ma come hai fatto?» gli chiedo, con gli occhi serrati. Mio figlio riprende man mano il suo colorito naturale, e stende le braccia verso il viso di Shinichi, cercando di toccarglielo. Curva i muscoli del suo viso in un sorriso, quello solito che fa ogni volta che si sveglia.
«Io... non ho fatto nulla» dice, altrettanto stupefatto.
«Wow!», i miei occhi sono lucidi. «Mi sa che gli sei simpatico.»
«Così sembra», adesso ride anche il detective. Vorrei avere una fotocamera per bloccare questo momento nell’eternità. Sono una visione paradisiaca, che va al di là di ogni immaginazione. È come se riuscissi ad avvertire tutti i miei nervi sciogliersi e stendersi su un tappeto di emozioni.
«Ci sai fare coi bambini» ammetto, mentre lo guardo scherzare con mio figlio. Conan prova a stringergli il pollice in pugno, ma è troppo grande per lui. E mentre i suoi ditini ci riprovano con l’indice, Shinichi alza lo sguardo a me, sorridendomi enigmatico: «sarà che lo sono stato due volte.»
Il sorriso mi prende e non mi lascia più: è più forte di me.
«Vuoi ancora andare dal pediatra? Magari per maggiore sicurezza» mi dice lui, ed io annuisco.
«Certo, arrivo subito.»
Mi infilo le scarpette e torno da loro, ancora impegnati a scherzare. Shinichi sembra divertito da Conan, ed è meraviglioso osservarlo fargli una carezza al viso, al massimo della dolcezza. Provo a riprenderlo tra le mie braccia, ma appena mio figlio non avverte più il contatto col mio amico, contrae il viso e comincia a singhiozzare. Oddio. Piange se non è in braccio a lui!
«Vuoi che lo tenga ancora io?» si propone lui, sorridente.
«Ehm... sì», glielo ripongo nuovamente tra le braccia, e come m’aspettavo, tace di nuovo. «Incredibile. Vuole stare con te.»
Shinichi annuisce, posizionandogli la testa sulla sua spalla.
«Però adesso mi è impossibile guidare» dice, ed infilandosi una mano in tasca, ne trae fuori un mazzo di chiavi, che mi lancia al volo. Lo afferro con un po’ di titubanza.
«Dovrai farlo tu», si gira e comincia a camminare verso l’uscita. Ma prima di scendere le scale mi lancia un ultimo sorriso: «E vedi di non sfasciarmi l’auto.»
 
«Non si preoccupi... si tratta di semplicissime colichette.»
Alla voce del pediatra rilascio un nuovo sospiro di sollievo, ma ero già abbastanza sicura della diagnosi di Shinichi. Il mio amico è accanto a me nello studio del medico, dato che Conan non pare avere nessuna voglia di staccarsi dalle sue braccia. Come biasimarlo?
«Lo nutre col suo latte, giusto?», arriva la voce del pediatra a ridarmi un contegno. Sono impazzita ormai per fare certi pensieri. Dovrei ricordarmi di essere una moglie ed una madre, moglie e madre. Moglie e madre.
«Sì. È che è stato un periodo un po’ stressante» aggiungo, precedendo la domanda del dottore, su ciò che mi ha detto Shinichi poco prima a casa mia.
«Oh, dunque saprà che ha bisogno di stare serena. Le suggerirei di rilassarsi, magari si faccia aiutare anche da suo marito...» conclude, indicando Shinichi. Mi sfumo di rosso e vedo lui fare altrettanto.
«Ehm... no, io non...» abbassa gli occhi il detective, come se non riuscisse a continuare. Ma è il medico a bloccarlo, lanciandogli un’occhiata nervosa e truce.
«Mi sta dicendo che non può aiutare sua moglie perché non c’è?» sbotta il pediatra, visibilmente infastidito. «Forse non ha capito che per la signora è essenziale stare bene, soprattutto psicologicamente!»
Mi batte il cuore all’impazzata all’idea che si sta sviluppando nella mente di questo matto. Io e lui, sposati? Era il finale della mia favola, il sogno della mia adolescenza, erano le piume delle ali che mi hanno spezzato. Che ci siamo spezzati, da soli. E lui non può tirarlo fuori così dal mio cuore, come se nulla fosse. 
«No, no, è che...», Shinichi mi guarda e fa uno strano sorriso, quasi amaro. «Io non sono suo marito.»
«Ah», riduce gli occhi in puntini l’uomo, imbarazzato. «Però è il padre del bambino?»
«No» risponde lui, abbassando il capo. «Non è mio figlio.»
Solo a me questa conversazione dà i brividi? Qualcuno la interrompa, per favore.
«Oddio. Mi scusi. Ho frainteso. Sa, è che il bimbo è in braccio a lei. Sono mortificato», si porta una mano alla bocca il medico, visibilmente impacciato.
«No, no, non si preoccupi» sorride il mio amico d’infanzia.
«Può capitare» dico. Sarebbe stato meglio di no.
«Va be’, comunque, anche lei può aiutare la signora a rilassarsi. Le farà bene.»
Sì, peccato che la presenza di Shinichi non mi faccia proprio rilassare. Ma è meglio sorvolare, dato che tra poco ci fermiamo a cena dal pediatra a raccontargli tutta la nostra vita.
Il mio amico annuisce, facendo un debole sorriso. «Farò quel che posso.»
Ecco. È il ‘posso’ che mi preoccupa.
 
 
«So che non sono fatti miei» esordisce Shinichi, con ancora in braccio il mio Conan. Siamo in auto, in ritorno verso casa, con il Sole che va a nascondersi dietro i grattacieli di Tokyo. «Ma posso farti una domanda?»
Io annuisco, stringendo più forte le mani sul volante in pelle nera. «Certo, dimmi.»
«Credevo che i primi mesi di matrimonio fossero i più belli...», lo sento appoggiare il capo al poggiatesta. «Ma a guardarti non si direbbe. Come mai?»
Sospiro, tentando di mantenere un tono sicuro che non lasci trapelare nulla. «Il giorno del mio matrimonio mi si sono rotte le acque, con un mese d’anticipo. Ho dovuto partorire d’urgenza perché mio figlio era sul punto di morire asfissiato dal suo stesso cordone ombelicale. È rimasto nell’incubatrice due settimane.»
«Ah», Shinichi abbassa lo sguardo su Conan. «Per questo è nato prematuro?»
«Secondo la dottoressa era un bambino troppo vivace fin dalla placenta» dico, rilasciando un altro sospiro.
«Per il resto?» domanda ancora, e non riesco a non notare il suo tono curioso.
«Resto?», cerco di guadagnare secondi preziosi nonostante sappia che è tutto inutile.
«Sì... stai bene, dico?», sospira, abbassando gli occhi. «Sinceramente...»
«Certo...», tento di fingere. «Va bene... va tutto bene.»
Lui annuisce, ma non credo di averlo convinto.
«E a te?», credo che la domanda sia più che lecita.
«A gonfie vele» risponde. Non ha convinto nemmeno me.
Arriviamo sotto casa mia, e nel parcheggiare l’auto di Shinichi noto quella di Shirai. Dev’essere tornato da qualche minuto. Scendo, accompagnata da lui, che porta sul petto il viso di mio figlio, addormentatosi durante il tragitto. Glielo sfilo dolcemente dalle braccia e lo porto nelle mie, rallegrandomi per non averlo fatto svegliare. Prendiamo l’ascensore e, sotto la spinta dei pesi, saliamo. Al decimo piano del mio grattacielo le porte si aprono: un piccolo corridoio, e l’entrata a destra è casa mia. Giro la chiave nella toppa, e mentre osservo le stanze vuote, avverto i passi di Shirai raggiungermi di corsa. Era in cucina.
«Ohi? Ma dov’eri?», ha un’espressione preoccupata che, alla vista di Shinichi, muta in fastidio. «E lui...?»
Presentazioni in arrivo. Ridicolo pensare che già si conoscano, ma né io né l’altro possiamo rivelarlo.
«Shirai, lui è Shinichi Kudo...» dico, rivolgendomi a mio marito, facendo oscillare il braccio da l’uno all’altro. «Shinichi, lui è...»
Mio marito, alto, castano, occhi scuri tagliati alla giapponese, con i capelli rivolti all’indietro... avrei voluto dire.
«Ma allora sei tu il famoso investigatore?» si accende di gioia il mio consorte, non concedendomi nemmeno il lusso di concludere. Comincio a credere che sia proprio lui a fare quest’effetto.
«Piacere di conoscerti! Ho sentito parlare molto di te... hai davvero una gran fama.»
Il detective fa un breve sorriso, pronto a stringergli la mano come se lo stesse conoscendo per la prima volta. Mi volto a guardarlo e cerco di decifrare le sue emozioni: sembra a disagio.
«Piacere» dice semplicemente, facendo incontrare le loro mani. «Grazie.»
«Sei sicura che possa piacere?»
Guardo Shirai con un sorriso a trentadue denti. Adoro quando fa il timido. «Certo, non devi preoccuparti! Mio padre è un po’ burbero, però ha un gran cuore. Mia madre è molto cordiale, e il mio fratellino è un genio, io lo adoro» lo avviso con evidente eccitazione, ma credo di essere leggermente di parte. Gli afferro il polso e lo trascino verso le scale dell’agenzia, incitandolo a salire.
«Dai, Shirai!»
Lui sbuffa, ma le sue guance arrossite non mi sono sfuggite.
«Non hai niente che non va, forza, sali.»
E così lo convinco: in un attimo ci ritroviamo di fronte la porta dell’appartamento, tant’è che ci è possibile già udire la televisione accesa, probabilmente su un programma di Yoko Okino. Entro per prima, dato che il mio fidanzato non fa altro che nascondersi. Conan è sul salotto a mangiare delle patatine, con un’espressione indelebile e seccata sul viso. Ha sedici anni ormai. Ogni volta che lo vedo è un tuffo al cuore: sono irrimediabilmente due gocce d’acqua. Mi guarda e mi sorride, facendomi l’occhiolino.
«Tuo padre ne ha combinate un’altra delle sue» mi dice, avvicinandosi. È probabile che ancora non abbia visto Shirai, coperto dal muro d’entrata. «Ha speso altri 50000 yen* in corse di cavalli.»
Ecco. Bella figura che mi farà fare col mio ragazzo. Ridacchio, cercando di stemperare il nervosismo.
«E adesso dov’è?»
«In cucina. Credo che tua madre stia cercando di minacciarlo con un coltello in mano» ride lui, e affondando la mano nella busta estrae un’altra patatina. «Vuoi?» cerca di mettermela in bocca, ma io mi scanso, un po’ nervosa. Spero che Shirai non abbia frainteso le parole del mio fratellino.
«No, Conan-kun» dico, poi torno a guardarlo. «Senti, me li vai a chiamare un attimo? Devo dir loro una cosa importante.»
Lui si insospettisce, ma non si muove. Si limita soltanto ad inarcare un sopracciglio. «Che cosa?»
Io sorrido. «La dirò anche a te se vai a chiamarli.»
Sbuffa, lanciandomi un’occhiata strana. Quegli occhi mi danno i brividi, fortuna che son coperti dagli occhiali. Lo vedo aprire la porta e sgranocchiare un’altra patatina, poi sparire oltre il muro. Approfitto di questo attimo per indietreggiare e assicurarmi che Shirai sia ancora lì.
E c’è, appoggiato con la schiena al muro.
«Su su, razza di fifone, entra» lo invito, afferrandogli il polso. «Hai sentito che bella famiglia che siamo?» ridacchio, ma lui non fa altro che abbassare la testa. Riesco a farlo entrare in casa, e lo sento accostarsi a me, terrorizzato.
Due minuti dopo, dalla cucina, fuoriescono mio padre e mia madre. L’avvocato appare ancora turbato, tant’è che continua a borbottare qualcosa di indecifrabile. Alla mia vista sorride, mentre Kogoro assottiglia gli occhi. Pochi secondi dopo li raggiunge Conan, stavolta con un bicchiere di Coca Cola in mano. La sta sorseggiando, quando mi vede a fianco al mio ragazzo, e si blocca.
«Ehm...», ammetto che l’imbarazzo sta prendendo anche me adesso. «Volevo presentarvi Shirai Tendo. È... è il mio ragazzo.»
Silenzio assoluto, se non fosse per il bicchiere di Conan, che scivola a terra e si frantuma. In mille pezzi.
«Scusami se ho fatto tardi, ma purtroppo mi hanno trattenuto in riunione» avverto la voce di mio marito, che mi riporta al presente. È come se per qualche secondo il mondo si fosse oscurato. «Ho bisogno di parlarti dei biglietti.»
«Non preoccuparti, non fa nulla» dice Shinichi, con leggera freddezza.
«Ma come mai eri con Ran?» gli chiede poi, leggermente curioso.
Il detective pare in difficoltà, quando io riprendo possesso della mia voce: «siamo andati dal pediatra. Ricordi i pianti che ti dicevo? Ecco. Erano coliche.»
Mio marito strabuzza leggermente gli occhi, poi si avvicina a me e nostro figlio.
«Dannazione... e cosa ha detto il medico?»
«Niente di grave, devo solo calmarmi io» dico, sentendomi infinitamente colpevole.
«Oh», Shirai si intenerisce. «E come siete andati? L’auto ce l’avevo io.»
«Mi ha accompagnato Shinichi» gli confido, osservando il mio amico d’infanzia. Si è discostato da noi, quasi come se volesse tenere le distanze. Mio marito porta gli occhi a lui e sorride.
«Grazie mille. Ti devo un favore.»
Lui fa un gesto largo con la mano. «Di nulla.»
«Be’, perché non rimani a cenare da noi? Ran è una cuoca eccezionale, vedrai che ti stupirà.»
Non ha niente da stupirsi, perché sa esattamente come cucino. Gli ho preparato da mangiare per tutta la vita, anche quando era se stesso e restava nella sua villa da solo, lontano dai suoi genitori. A ripensarci mi vengono i brividi. Incredibile, quanto tempo è passato...
«No, scusami, ma non posso» dice, cercando di simulare un sorriso.
«Parliamo anche del caso» riprova Shirai, ma io mi ritrovo concorde col mio amico d’infanzia. Non mi piace l’idea di averlo a cena da noi a fingere quelli che non siamo stati.
«No, davvero», e come mi aspettavo non cambia idea.
Shirai alza le spalle in segno di resa e rilascia un sospiro.
«Come vuoi. Però ho il bisogno urgente di parlarti di quel caso.»
Shinichi annuisce, mentre io ripongo Conan nella culla, stando bene attenta a non svegliarlo.
«Io domani sono di nuovo da queste parti...» dice lui, mentre abbassa gli occhi e scarabocchia su un foglietto alcuni numeri. «Ti faccio sapere se riesco a venire. Ok?»
«Perfetto. Davvero... perfetto», fa mio marito, sorridente. Gli porge la mano e se la stringono, come due vecchi amici.
«Ti aspetto domani.»
Shinichi fa un breve cenno d’assenso, e mentre indietreggia verso la porta, io avanzo verso di lui.
Mi lancia un’occhiata e alza la mano, mentre l’altra è sulla maniglia della porta.
«Ciao» dice, e poi rivolgendosi ad entrambi: «buona cena.»
Shirai gli regala un saluto. Lo vedo sparire oltre la porta di casa mia, senza che io riesca a trovare la forza di regalargli anche un misero e stupido ciao.
 
 
 
 
 
L’acqua scivola sulla mia pelle con delicatezza, mentre lo sgrassatore agisce sulle macchie di unto e di incrostato che non tendono a staccarsi dalla padella. Oggi ho meno voglia del solito di occuparmi della cucina. Ripenso a Shinichi, a quanto il destino o il caso sia stato beffardo con me, e con noi. Solo un anno fa ci dicevamo addio, e adesso ci ritroviamo a ripercorrere giorni e ricordi andati, con la consapevolezza di non poter mai essere l’uno estraneo all’altro.
La stessa convinzione che mi porta a credere che, allo stesso modo, non potremo mai appartenerci come vorremmo. È come se la nostra storia fosse stata congelata e bloccata, senza possibilità di svilupparsi. Né in bene, né in male. Il mio cellulare squilla e vibra sul tavolo, distogliendo i miei stupidi pensieri. Mi affretto a raggiungerlo, asciugandomi le mani col primo panno che trovo. Rispondo frettolosa, ignara dell’identità del mio interlocutore. Il numero non lo conosco.
«Pronto?»
«Ran... sono io.»
La sua voce mi spiazza per qualche secondo. «Shinichi...»
Mi prendo fin troppo tempo per reagire e riassumere un atteggiamento normale. Restiamo zitti per un po’.
«Volevo avvisarti che... cioè... avvisa tuo marito che domani vengo io da te. Cioè, da lui...», noto nella sua voce un forte imbarazzo. Forse sta provando le mie stesse sensazioni o emozioni. Avvampo al solo pensiero.
«Ok. Va bene... Sono qui io, cioè... siamo qui.» Sospiro, imponendomi un certo autocontrollo. Non riesco a formulare una frase che non abbia lui come soggetto. «Sì, insomma. Ti aspetto
Mi mordo la lingua appena lo pronuncio. Viro lo sguardo verso la porta: spero che Shirai non stia ascoltando le mie paranoie.
«A domani sera allora.» Dice lui, e dopo qualche secondo aggiunge: «Ah, questo è il mio numero.»
«L’hai cambiato.»
«Sì» afferma, mentre io mi aggrappo alla vana speranza di poter parlare con lui ancora. Come una bambina capricciosa e stupida, domani sera mi pare troppo tardi per risentirlo. «Da un po’.»
«Hai fatto bene.» Vorrei aggiungere che quello che aveva prima mi ha procurato solo dolore e pianti: con quel numero mi chiamava per dirmi che non ci sarebbe stato, dovunque l’avessi voluto.
«Lo so», e dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio, aggiunge: «buonanotte, Ran.»
«Buonanotte, Shinichi.» Sospiro, cercando di trattenermi. So che non dovrei pensarlo, né tantomeno dirlo. Ma prima che possa riagganciare, mi animo del coraggio necessario: «Mi ha fatto piacere rivederti.»
Lui non risponde, sento solo il suono ripetuto della chiamata interrotta. Non so nemmeno se mi ha sentito. Socchiudo gli occhi, dandomi della stupida. Mi guardo il braccialetto con l’infinito e il diamante, che luccica con tenacia nella fioca luce fredda della mia cucina.
«...In qualche modo, un mio per sempresarà comunque con te.»
Le mie lacrime spingono per uscire, come intrappolate da una morsa letale di rimpianti e delusioni. Aveva ragione: un suo, perché un nostro era impossibile anche solo da immaginare. E lo è tuttora. Fortunatamente, i miei ricordi sono interrotti bruscamente da un tonfo sordo. È provenuto dalla camera da letto, ma non ho la minima idea di cosa possa essere stato. Il mio primo pensiero va a Conan. Giungo lì velocemente, mentre Shirai si avvicina dall’altra entrata, quella che sbuca sul corridoio.
«Cos’è stato?» chiedo a lui, che alza le spalle.
«Non lo so.»
Entrambi raggiungiamo il letto, dove troviamo uno scatolone a terra. Shirai lo prende e lo poggia su uno dei tanti che sono ancora in casa mia. Poi guarda la finestra, è aperta.
«Era già così prima?»
Scuoto il capo. «Mi sembra di averla chiusa.»
Mio marito mi guarda profondamente, stranito.
E conosco la sua domanda, prima ancora che la formuli.
«È entrato qualcuno

 
 
 
 
 
* 50000 yen sono circa 400 euro

 
 
 
 
Ehilà, ciao a tutti! Eccomi qui, puntuale puntale, solo per voi :)
Iniziamo ad entrare nel vivo della storia, con ripetuti e continui flashback da parte di Ran... ma andiamo per ordine: Shinichi e la karateka si rivedono. Credo che i sentimenti di Ran siano chiari, e non è difficile capire chi ama e chi no. Questo non sarà un mistero... va be’ che parlando di Ran non lo è mai... XD Vi starete chiedendo allora... e perché ha sposato quell’altro e c’ha un figlio con quell’altro? Be’, poi lo scoprirete... XD
Cooomunque! Shinichi e il piccoletto non sono dolcissimi? E il pediatra che scambia Shin per il marito di Ran? E lei che va in fibrillazione?
Devo ammettere che ho adorato scrivere il flashback sulla presentazione di Shirai alla famiglia Mouri. Il momento in cui a Conan cade il bicchiere è il mio preferito: credo che sia molto simbolico... è come se il suo cuore si fosse frantumato, più che il bicchiere! Spero di aver dato questa sensazione anche a voi :)
Il flashback di San Valentino è più dolce... non so se mi sono spiegata bene, ma ovviamente temporalmente viene prima di quello con Shirai :) spero di essere chiara con questi continui sbalzi tra passato e presente... perché sono essenziali per capire il rapporto tra Shinichi/Conan e Ran!
Bene, vi lascio allo spoiler per il momento. Debbo però ringraziare tutti coloro che hanno creduto in me e che hanno fiducia nelle mie parole, lasciandomi tutte quelle bellissime recensioni! Grazie a chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite o ricordate. Grazie grazie grazie! Siete tutti dolcissimi! Vi amo.
 
 
*
Spoiler #3 Il nome
Gli mollo uno schiaffo sul volto. Ma nello stesso istante che tocco la sua pelle fredda, comincio ad avvertire le lacrime pizzicarmi gli occhi e qualcosa di caldo e soffocante farsi spazio nel mio corpo.
«V-vattene via! Non continuare a rovinarmi la vita, ti prego» sbotto, ho gli occhi bassi e non riesco a vederlo. «Sparisci, lasciami in pace.»
«Come vuoi» dice, freddo. Va’ verso la tavola dove recupera il suo cellulare. Poi si dirige verso il salone.
Se ne sta andando sul serio...
*
 
A domenica, 1 Settembre!
Tonia
   
 
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