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Autore: Hagne    27/08/2013    1 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
"I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare, creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli"
[ Seguito di " A Demon's Fate"]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything '
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7 - The Cross
“You can't brighten all the gloom
Your heart is afraid and so empty
You glorify the future
Living in a different world than me
The journey ends in death
You are giving up so easily “


[…]

“We are drifting apart
Chilled to the marrow, cause you don't want to go
Cause we've got a different wish at heart
The amulet guides us to the other side
When I go down it's you who'll bleed
I'm not scared to die, as long as I'm with you
You are the other half of me “
 (The Other Half (Of Me) - Within Temptation)





Il fruscio armonico degli steli di ghiaccio aveva perduto la cadenza melodica con la quale aveva  imparato a  cullare il sonno di  Jounheim, una litania che ora, nel buio della sera, col grido isterico della Madre terra a lacerare il silenzio,  appariva più tremante ed incerta, una voce storpiata dal peso del corpo abbandonato sul suo petto.
Un’ombra sottile e minuta che nel suo ghiaccio era immersa per metà, il viso sepolto nella neve  che rendeva incerto il suo profilo, distante il suo sguardo, e  morente il respiro appena accennato che abbandonavano le labbra colorate appena schiuse.
E il suo canto spezzato tornò a librarsi dell’aria ancora una  volta, rotto, la gola stretta dall’angoscia di quel peso che la terra non riusciva a sopportare, non tutto quel dolore, ma era su di lei, che Astrid giaceva, immobile, riparata dall’ombra di Yssgradrill che sotto i suoi rami l’aveva rinchiusa nel tentativo di proteggerla.
Ma a farle male, a ferirla,  era lei stessa, lei e l’elmo stretto al petto che aveva reclamato accanto a sé per avere qualcosa a cui aggrapparsi nella sua lenta caduta.
Un crollo inesorabile e rumoroso che l’aveva vista sepolta nella neve del suo regno con il cuore in pezzi, un cuore che a respirare, non era più in grado, lei, non ne era più in grado.
Non di sopportare quella perdita, non di ribellarsi alle braccia di sua madre che fino ai suoi rami l’avevano trascinata, riparandola sotto il legno possente delle sue braccia che avevano tentato di reggere il peso del suo corpo e del destino che per sé aveva scelto, ma che, alla fine, le aveva spezzato le gambe e la voce.
Una voce che Astrid non aveva più, perché perduta, era tutto perduto, oramai.
Lei, era perduta.
Perche non esisteva.
 Non nel cuore di Loki, non nella sua mente, non in quello sguardo che,  nel calare su di lei, non l’avrebbe riconosciuta, né capito il perché delle sue lacrime.
Ed era ingiusto, tutto quello.
Perché aveva sperato di poter avere almeno lui, con sé, alla fine.
Il primo ad averla amata, il primo ad averla dimenticata.
Ed era il pensiero di non esistere, di essere stata cancellata tanto facilmente dal cuore di Loki a toglierle la forza di rialzarsi, di provare ancora a lottare, ma non ora, non ancora.
Voleva solo riposare, in quel momento.
Chiudere gli occhi e fingere di essere qualcun altro.
Un’ umana, una dea, chiunque ma non se stessa, non il motivo di tanto dolore, non la causa di tanta disperazione, la sua, disperazione, quella che aveva pregato di non provare più, quella dalla quale era stata salvata da qualcuno, perché da sola, ad uscirne, non ce l’aveva fatta.
E il suo eroe si trovava a pochi passi da lei, lì dove Sunniva non si era mai mossa dopo averla seguita, in silenzio e a capo chino, per il manto innevato dal quale sua madre l’aveva sottratta per nasconderla agli occhi del mondo.
Ma quelli della Gigante riuscivano a vederla, parevano persino spezzare i fragili steli per farle sentire la sua presenza, il suo sostegno, perché da lei mai il suo sguardo si era mosso,  memore di un segreto, di una storia della quale lei era la sola custode.
Un storia che parlava di precipizi, disperazione, e un salto che la Gigante non le aveva mai permesso di compiere.
Da quel precipizio però, era infine caduta, una voragine che lei stessa aveva rappresentato per se stessa, il fondo che ancora una volta si era trovata a toccare per una perdita, l’ennesima perdita.
Una brezza gentile e morbida le sfiorò lo zigomo, un tocco per il quale si trovò a far scivolare gli occhi un po’ più in alto nel riconoscere il profumo di buono di sua madre, in piedi davanti  a lei con gli artigli pieni dei suoi capelli.
- È tempo di rialzarsi – la sentì sussurrare nel vento, ma quella volta, non ci fu comprensione, ad accendere il suo sguardo, ma rabbia, una collera che le riempì le mani delle fiamme che le divorarono il viso scattato verso l’alto, su quella figura che continuava a rimanere immobile e severa, come sarebbe dovuto essere.
Perché  non aveva bisogno di essere compatita, confortata, Astrid lo sapeva, ma la ferita era troppo profonda, e bruciava, ardeva del dolore che le graffiava il viso e il petto senza pietà.
- Hai delle responsabilità.
- E gli altri? Gli altri non ne hanno verso di me? – si ritrovò a gridare quando  la frustrazione e la desolazione la assalirono, liberando il rancore che le arrochì la voce e la spinse a tornare in piedi per sfogare il malessere che la stava uccidendo –  Allora madre? Gli altri non ne hanno verso di me?
- I tuoi obblighi verso gli altri sono ben più gravosi dei loro – le ricordò però la Creatrice, quasi insensibile allo sguardo arrossato e alle lacrime che rotolavano giù dalle guance, ma non lo era.
Perché Semjace piangeva, dentro di sé, ed urlava per quella figura che non smetteva mai di guardarsi attorno con quello sguardo sperduto, che di soffrire, non aveva mai smesso, per quanto lei avesse pregato le anime degli antichi di darle conforto.
Ma non ce ne era per lei, non in quel momento.
- E perché ? Perché lo sono? – tornò ad urlare con strazio, gettando a terra l’elmo per avere le mani libere di agguantare l’aria e bruciare gli steli che la toccavano, come a calmarla,  ma non aveva bisogno di parole dolci, non quando era l’odio, ad avvelenarle il cuore, il disprezzo per ciò che le avevano fatto, per ciò che era costretta a sopportare, ma era stanca.
Stanca di comprendere, stanca di sapere, stanca di credere che alla fine, un lieto fine lo avrebbe avuto anche lei, perchè era sempre stata la fine, la sua unica scelta.
- Perché madre? Non ho il diritto anch’io di riposare? Di essere stanca? Perché lo sono – e si battè il petto con il pugno chiuso per farsi male, per mostrarle che quello che lei guardava era carne, e pelle che sapeva aprirsi di ferite, e arrossarsi per i suoi colpi, non metallo, non energia, ma ossa e muscoli – lo sono madre, perché, per quanto io mi sforzi di essere diversa, tutto ciò che mi circonda è  dolore.
- Non è la diversità che devi ricercare, figlia mia – e quella volta c’era tormento, in una voce che sarebbe dovuta rimanere salda, ma non davanti a tutta quella disperazione, non davanti a quelle lacrime.
Le mancò la voce, per un attimo, l’aria risucchiata da quei polmoni che le diedero la possibilità di replicare, ma Astrid non lo fece, non quando  le proprie parole riecheggiarono nella sua testa e le ferirono lo sguardo.
Diversa.
Chinò il capo senza più sapere dove guardare, limitandosi ad osservare in silenzio le mani inghiottite dalle fiamme.
Pensava di averlo accettato, oramai, di aver accettato se stessa, ma erano solo menzogne, le sue,  bugie che aveva scambiato per verità, ma la realtà era ben diversa.
Perché alla fine, dopo quanto accaduto, tornava a porsi la stessa domanda.
Chi?
Chi era lei?
Chi credeva di essere?
Un' umana, un alieno, una divinità, un abominio?
Cos’era lei?
Tutto e niente era la risposta.
Tutto e niente.
- Io volevo solo essere felice-  un sussurro distorto dalle lacrime che le gonfiavo la gola e le annebbiarono lo sguardo – io volevo solo essere felice, madre.
Quando la vide stringere i palmi per liberarli dalle fiamme, quando la vide nascondere il viso tra le mani e scoppiare in singhiozzi ci fu disperazione, a far rantolare la voce della Creatrice, un tormento che non le dava pace e che la uccise quando, nel provare ad accarezzale il capo, si trovò a stringere solo aria.
Ma lei piangeva, e nulla poteva fare per consolarla se non guardarla soffrire, la sua condanna, il suo supplizio, perché era un abbraccio, quello di cui ora aveva bisogno sua figlia, una stretta nella quale rilasciare tutto il dolore per ricominciare a respirare e a vedere se stessa non per ciò che gli altri vedevano, o credevano di sapere, ma per ciò che era, ciò che sempre, sarebbe stata.
Non Astrid l’umana, non la moglie di un dio, ma la sovrana dell’universo, una regina che poteva decidere chi lasciar vivere o morire, l’essere superiore il cui compito sarebbe stato quello di regnare su ogni cosa.
Uomini, dei, mondi, non avrebbe avuto importanza, ma per regnare lei era nata, non per comprendere, non per capire, ma per essere.
L’inizio e la fine di tutto.
Spiegarglielo, tuttavia, non sarebbe servito, perché doveva esser lei stessa a capirlo, a sentirlo, ad accettarlo, ma era pur sempre una donna ferita, quella che piangeva sepolta tra la neve, una creatura infelice della quale l’uomo e gli dei avevano nuovamente abusato, ma era stata lei a permetterglielo.
Lei che credeva di dover provare ad essere un po’ più come loro e un po’ meno come se stessa, in quel  disperato tentativo di avere un’identità, ed era quella stessa identità che lei non vedeva, ciò che era e che doveva ricordarsi d’essere, ma non in quel modo, non affogando in tutto quel dolore.
Il suo lamentò si levò, alto  e acuto come l’arpeggio stonato di una melodia che faticava a mantenere il ritmo, ma ci furono tonfi, a seguire quel suono, decisi come lo scorrere di un fiume, il fragore di una cascata, e ci fu un respiro, a franare su di lei, quello che Astrid sentì soffiare sul proprio capo.
Un respiro pesante e irregolare per la fuga dissennata con la quale l’aveva raggiunta  e poi sollevata in un abbraccio che Sunniva intensificò, serrando le mascelle possenti nel sentire l’umida scia delle lacrime bagnarle il petto.  
Ma le lacrime si erano fermate, mentre gli occhi tornavano a vedere il terreno ribaltato di fiori calpestati nel quale la Gigante si era fatta strada per raggiungerla, contravvenendo alle leggi del suo popolo, disonorando la sua stirpe per aiutare lei, così piccola e fragile tra quelle braccia che però sapevano essere così gentili, sul suo corpo stanco.
E furono d’amore, le lacrime che le bagnarono il viso.
Fu per amore che ricambiò la stretta , abbandonandosi alla dolcezza di un abbraccio che sapeva di gelo, di casa, e di qualcosa che Astrid sentì grattarle il petto.
Energia.
La sua, energia, quella che invano aveva tentato di mitigare, nascondere, adombrare nell’ombra del suo sorriso gentile, ma non ci fu dolcezza, sul suo viso, mentre il cielo si scuriva e i fiori tornavano a cantare e bruciare.
Un canto che si levò forte, fino a diventare un coro di voci che di bisbigliare avevano smesso, lei, aveva smesso.
Smesso di cercare di essere qualcuno che alla fine non era.
Perché aveva sempre cercato di essere l’inizio e mai la fine, ma era giunto il momento,  per lei, di conoscere l’altra faccia di se stessa.
Lei, che i Creatori avevano creato non per essere serva, non schiava, non amica,  ma Regina.
Regina del mondo, della vita.
Di tutto e niente.



°°°
   



L’aria era satura di frasi non dette, maledizioni inghiottite di forza e costrette nelle gole vibranti di chi ricordava ma di punire non aveva il potere, né la possibilità,  neanche il Padre degli dei che dal suo trono d’oro fissava silente la figura dal sorriso ferino e dall’occhio cieco e affamato fisso su di lui.
- È un piacere rivederti fratello.
Una voce sgradevole quella di Hell, dal tono graffiante e acuto come il grido isterico di bambini spaventati dal buio della propria camera, e l’oscurità annidata in quelle orbite vuote sarebbe bastata a gettare ombre su tutti loro, sui guerrieri di Asgard che accostavano Odino e che, nell’udirla, serrarono i ranghi,.
Ma c’era  chi  paura della dea non provava più.
Non timore, non orrore, solo rancore, un sorso di acqua ghiacciata che occluse la gola di Pepper quando la donna si trovò a rialzare il viso dalle mani umide delle sue lacrime per tornare alla realtà.
Una  realtà che ora la vedeva di nuovo madre disperata per una figlia che non era riuscita a proteggere, neanche quella volta.
Ed era colpa sua, di quella piccola creatura dal sorriso sbilenco e dal passo zoppicante, era lei  la causa di quel pianto, del suo, e di quello con cui aveva visto Astrid svanire nella neve, in solitudine, chiudendo la porta alle spalle, quella che Pepper si era sempre augurata di poter aprire senza dover chiedere permesso.
Ma ora l’entrata era talmente usurata, talmente abusata che la vedeva cigolare davanti ai suoi occhi sgranati dal dolore, il passaggio verso un rifugio nel quale sua figlia sperava di non poter essere raggiunta dal dolore, ma  quello aveva imparato ad abbattere le sue difese filtrando sotto la porta, insinuandosi nelle crepe che Pepper aveva sempre provato a tamponare.
Rimedi per una rottura sempre rimandata ma mai del tutto risanata, non quel piccolo cuore che aveva visto sgretolarsi, impotente, assieme allo sguardo straziato di sua figlia.
Ed ora lei ne aveva le mani piene, di quei frammenti, schegge che se avessero avuto forma, le avrebbero martoriato i palmi quando li richiuse in pugni per la rabbia di sapere che era colpa loro, era sempre stata colpa loro.
Sua, degli uomini, degli dei, del mondo, se lei soffriva e moriva di dolore.
Era colpa sua.
- Quanta freddezza mie cari – e questa volta la dea ruotò su se stessa per rivolgersi ai presenti nella sala del trono con feroce ironia – non dovreste osannare chi vi ha ridato la vita? Chi vi ha salvato dall’oblio? Non-
Il tintinnio vibrò nell’aria per una manciata di secondi, echeggiando per la sala del trono con uno squillo che si interruppe  quando la pesante decorazione d’oro massiccio smise di agitarsi, gettando schizzi di rosso porpora sul pavimento immacolato.
Sangue che Hell toccò con dita tremanti sulla propria guancia, gli occhi sgranati per l’incredulità e la bocca schiusa in un urlo che fece tremare l’intera sala ma non lei.
Non l’umana dallo sguardo duro e dalle labbra arricciate in una smorfia sprezzante che non cedette di un millimetro neanche quando vide quella creatura torcere il collo tanto forte da spezzarselo per la fretta di identificare il responsabile di quella blasfemia.
E quando la dea vide la mano rea di averla ferita tesa ancora in aria, come a gridarle che era stata lei, a gettarle contro la decorazione strappata ad una delle colonne della sala,  gridò isterica.
Ma Peppper,  della saliva spillata da quelle labbra secche e spaccate non ne venne impaurita, neanche quando Hell, preda della follia feroce, alzò il braccio per infliggerle la punizione adatta ad un essere come lei prima di arricciare il naso e fermare le dita richiuse improvvisamente in pugno.
- Zenas.
Il non-morto che l’aveva affiancata fino a quel momento a capo chino si trovò a rialzare uno sguardo diffidente all’indirizzo della sua signora, insospettito dal fremere di narici che la dea dilatava rumorosamente, quasi ad annusare il pericolo incombente.
Ma era un’umana, quella che aveva davanti.
Una donna, fragile e disarmata, il bersaglio perfetto da schiacciare e dilaniare, da far urlare per il dolore.
- Puniscila.
Eppure  non così fragile si ritrovò a pensare quando la sua padrona tornò ad abbandonare il braccio lungo il fianco con un lampo inquieto negli occhi, sospetto forse, una diffidenza che però la dea pareva nutrire per la piccola umana.
- Puniscila –tornò a ripetere la divinità, schiumando rabbia nel non notare alcun movimento alla sua destra.
Perché Zenas dubitava, ora, di ciò che vedeva, di ciò che fragile sembrava ma che forse, in fondo, non  era.
- Puniscila ho detto!
Eppure, per quanto recalcitrante fosse, per quanto il suo sesto senso gli urlasse di non rivolgere minaccia alla creatura pallida e dallo sguardo duro, il pensiero di poter essere preda e bottino di guerra dei suoi simili lo convinse a scattare nella sua direzione con occhi cupi.
Occhi che dovette sgranare quando, nell’approcciarsi alla fragile umana, si ritrovò a schiantarsi duramente contro la colonna opposta a lei, respinto non dall’uomo di metallo che aveva provato a tirar via la moglie, non dalla creatura dallo sguardo di pietra, ma da una sottile patina dorata che l’aveva avvolta e protetta dal suo attacco.
- Vedo che Yssgradrill ha scelto una nuova protetta.
Pepper strinse le labbra nel cogliere il fastidio nella voce della dea, l’occhio cieco fisso su di lei e sulla barriera che, una volta percepito l’assenza di pericolo, svanì nel nulla, lasciando alle sue spalle solo silenzio e il gemito di dolore del non-morto che faticò a tornare in piedi.
- Cosa- cosa diavolo è stato? – sbottò Tony Stark quando riuscì a riprendersi dallo shock, tirando la moglie per un braccio, così da leggere direttamente nei suoi occhi le risposte che chiedeva, ma l’umana non provò neanche a scostare lo sguardo dalla dea affamata.
Non con ancora il crepitio dell’energia a formicolarle sotto le dita e sulle spalle che Pepper contrasse, scostando gentilmente la mano del marito dal suo braccio.
- Perché ha scelto te e non me?  – ringhiò Hell, assalita dall’invidia che mai l’avrebbe abbandonata o resa sana di mente, perché lei era nata folle, e nella sua follia aveva imparato ad odiare qualunque cosa lei voleva ma non poteva avere per sè.
E la protezione di Yssgradrill era un dono del quale nessuno aveva mai potuto godere, neanche suo fratello, nessuno se non quella piccola e insignificante umana che quel potere non avrebbe saputo apprezzare a dovere, non come avrebbe fatto lei.
- Perché è il compito di ogni madre proteggere i propri figli – le sibilò contro Pepper, i muscoli delle braccia contratti e gli occhi tanto fissi da dolerle.
- Madre – la riprese la dea con voce gutturale, le labbra piegate per il sorriso affettato con il quale Hell tornò a dondolare, ondeggiando verso il trono del fratello con una risata di scherno rinchiusa in gola – madre.
Il fischio della sua risata mozzò l’aria come uno stiletto piantato nei loro crani, tanto in fondo da costringere alcuni a portarsi una mano al capo e mitigare il pulsare frenetico delle loro tempie, disturbate da quella cacofonia che la dea tornò ad intonare nel volgere uno sguardo feroce agli umani.
I suoi artigli graffiarono l’aria quando alzò il palmo magro e ossuto mentre gli occhi le si riempivano dell’eccitamento per il profumo di sangue giovane che avrebbe fatto spillare da quella piccola e insignificante creatura, protetta sì da Yssgradrill, ma non del tutto immune al suo potere, non chi la circondava e chi su quella stessa protezione non poteva contare.
Perché era una dea, quella che sorrideva loro languida, un mostro dal viso di bambina che di ridere smise solo per porre un’unica e tagliente domanda.
- Madre di chi?
- Mia.
L’orrore  graffiò il viso della dea quando quella voce echeggiò macabra nella sua testa, come se le avessero parlato all’orecchio, un sussurro gelato che si disperse nell’aria assieme alla brezza artica per la quale tutti si trovarono  a trasalire.
Ma non fu per l’improvviso calo di temperatura che molti si schermirono il viso e inghiottirono il grido serrato in gola, non per ciò che si poteva sentire, ma ciò che si poteva vedere e toccare, e temere.
Una paura che Hell sentì scivolare fino in  gola quando sentì qualcosa di ghiacciato tracciare un percorso immaginario sino  alla nuca dove la dea potè sentire la pressione di dita, lunghe e fredde dita blu che Astrid richiuse con forza, stritolando la trachea prima di sollevare il braccio e lasciarla scalciare per la mancanza d’aria.
Un gemito di angoscia si levò alto per la sala quando il pavimento si flesse sotto il passo pesante della Gigante di Ghiaccio ferma all’entrata, gli occhi scarlatti fissi sulla piccola e minuta figura che la dea fissava con occhi dilati  per il terrore e l’angoscia.
- Com-co- rantolò Hell in preda al panico, facendo pressione sul palmo sottile che le stava togliendo l’aria, ma era d’acciaio la presa che la stava stritolando, un acciaio che neanche lei avrebbe potuto spezzare, non il freddo metallico di quel sorriso spietato che piegava le labbra del Tesseract.
Un sorriso per il quale Hulk si trovò ad aggrottare le sopracciglia e stringere i compagni un po’ più assieme, i sensi impazziti per il pericolo che sentiva serpeggiare attorno a loro, una minaccia tanto soffocante da impedire persino ad Odino di proferir parola.
Ma anche se lo avesse fatto, Astrid non l’avrebbe udito, o sentito, non sentiva niente, in quel momento, se non le ossa gracili di quel collo spezzarsi una dopo l’altra dopo ogni sua piccola pressione.
E stringere le veniva semplice, sorridere a quel modo, le veniva semplice.
Essere crudele, le veniva semplice.
- Credevi davvero che non sarei tornata per vendicarmi?
Il rantolo soffocato della dea fu l’unica risposta che ebbe, ma bastò per cavarle dagli occhi la sottile delizia di vedere tutto quel dolore in quegli occhi che ora provavano paura.
Paura di lei, di ciò che Hell vedeva bruciare nelle pupille di stelle in pasto alle fiamme, fiamme che la divoravano da dentro senza sosta, uccidendo ogni cosa avesse imparato.
La morale.
La pietà.
La comprensione.
Non c’era più nulla di umano ora in lei, niente che potesse ricondurla a quei principi che suo padre le aveva insegnato a rispettare, ma nessuno aveva mai avuto rispetto per ciò che lei rappresentava, per quell’incubo che Astrid non aveva mai voluto essere ma che, alla fine, si era ritrovata a diventare.
L’incubo di un mondo che di tremare ad ogni suo passo non avrebbe smesso, non fino a quando il suo dolore non sarebbe stato ripagato con altro dolore, il suo, dolore, quello della dea che le aveva tolto ciò che le rimaneva di buono in lei.
Un amore che, una volta perduto, l’aveva gettata in pasto all’odio e al rancore.
Perché a tenerla in piedi, ora,  era solo quello.
Desiderio di vendetta, di rivalsa su chi, su di lei, aveva creduto di possedere qualche diritto, ma era lei, ad averli, su tutti.
Il diritto di decidere chi lasciare morire.
Il diritto di distruggere ciò che di vivere non si meritava, e quella creatura rantolante non lo meritava, nessuno lo meritava più  per ciò che le avevano fatto, per il dolore che le avevano inferto.
Per le ferite che l' avevano costretta a subire.
- Astrid.
Quando Pepper la vide irrigidire le spalle nel cogliere il suo sussurro incredulo potè percepire il dolore di sua figlia, perché era diventata un fascio di dolore, Astrid.
Lo erano diventate le sue ossa, i suoi muscoli, ogni cosa che sotto il pulsare frenetico della ferita la portava a muoversi, a gesticolare, persino a sbattere le palpebre in un tentativo disperato di espellere dal corpo, come veleno, quel dolore soffocante.
Ed erano i suoi stessi occhi, ad essere avvelenati, le pupille vitree che su di loro, sulle tre figure lanciarono un grido isterico, un richiamo per il quale Hulk si trovò a rantolare il nome di sua figlia che chiedeva aiuto.
Un lampo di fragilità che Astrid inghiottì assieme alla lucidità quando sentì le dita della dea provare a graffiarle il viso, nel tentativo di farle perdere la presa, e su di lei il nero tornò a tingerle la voce e a chiazzarle lo sguardo di punti ciechi nei quali venire trafitti e uccisi.
- Lasc-
- Lasciarti? E perché dovrei? – e serrò la stretta con le labbra tornate a piegarsi per la crudeltà che le grattava la voce – perché è così che dovrei essere? Perché è giusto che sia così? Non credo.
Il grido di dolore fece scattare in piedi il Padre degli dei, ma quando Odino provò a schiudere le labbra si trovò ad impallidire per la paura che gli fece tremare le gambe e che lo riportò a sedersi sul suo trono, gli occhi sgranati per la fitta di dolore che gli aveva trapassato lo sterno, come se qualcosa avesse provato a spezzargli la schiena e la gabbia toracica.
Una sensazione di disfacimento che Astrid riportò sulla dea con una luce folle negli occhi.
- Visto? Anche io posso essere cattiva, molto più crudele di quella creatura che temete tanto.
- Io-
- Sai perché sei ancora viva? Sai perché continui ad appestare l’aria con la tua sola presenza  – un rantolo il suo, una voce che sembrava ripescata dal fondo di una caverna, un eco grottesco che fece rizzare i capelli sulla nuca della dea – non perché sei utile, non perché sei potente, ma perché l’ho voluto io. L’ho sempre voluto io.  
Quando la videro torcere il collo per guardarli tutti in viso ci fu un brivido collettivo a far tremare loro le ginocchia, un fremito che sul corpo della dea divenne un movimento convulso e scoordinato di arti che di lottare, di respirare, non riuscivano più.
- Perché sono io qui a decidere chi vive e muore, non voi, e soprattutto – e nel tornare a risentire su di sé quello sguardo Hell lanciò un uggiolio angosciato – non te.
- M-
- Ma su una cosa hai ragione – la interruppe feroce, incavando il viso con quel sorriso raccapricciante – l’equilibrio deve essere mantenuto, perciò non ti ucciderò, ma ti farò desiderare di essere morta una volta che avrò finito con te.Tu.
Zenas deglutì a vuoto quando la udì, ma tenne gli occhi bassi nella speranza di aver capito male.
Eppure sentiva quegli occhi levitare su di lui come mani invisibili che lo toccavano e spingevano il suo mento a rialzarsi, ciò che fu costretto a fare quando la possibilità di sfuggire al suo comando lo convinse ad arrendersi.

Un lampo di pietà saettò per le iridi di Astrid quando vide il braccio livido della creatura, malamente riattaccato alla spalla, ma mantenne l’aria altera e la voce dura quando lo invitò ad avanzare verso di lei.
Uno, due, tre passi, il non-morto tremava dopo ogni singolo movimento, ma quando la raggiunse, quando si decise a guardarla in viso, seppe di essere perduto.
- Vuoi diventare Re?
La domanda portò via con sé alcuni sospiri increduli, persino i guerrieri di Asgard non poterono che temere per l’incolumità del Padre degli dei, ma Zenas non emise suono, si limitò solo a sgranare le palpebre secche e screpolate per la sorpresa.
Astrid si convinse ad addolcire la piega delle labbra quando lo vide indietreggiare lievemente nel cogliere il movimento della sua mano, un palmo che gli tese in silenzio, le pupille di luce incatenate agli occhi che, anche volendo, il non-morto non avrebbe potuto rivolgere ad altro se non lei.
- Vuoi diventare Re?
- Tu non puoi-non – ma il rantolo sommesso di Hell si ridusse in un verso strozzato per il quale Zenas si trovò a tendere un sogghigno, incurante dello sguardo feroce che la dea gli lanciò, ma non c’era più nulla di minaccioso in lei, non con quella mano stretta attorno al suo collo a costringerla all’ubbidienza.
E d’improvviso, il quesito immotivato della creatura sembrò prender senso e un significato che lo fece sorridere apertamente.
- Nessuno meglio di chi ha indossato le catene può capire la desolazione dell’essere schiavo di un tiranno crudele – e Astrid fissò con crudo compiacimento il viso della dea tendersi per l’ansia e la paura – perciò nessuno  più di te merita la sua corona.
- No! Lui non può – tornò a dimenarsi Hell, una volta riuscita a liberarsi del polpastrello schiacciato contro la sua carotide – quel trono è mio per diritto di nascita, tu non puoi darlo a lui, non puoi darlo-
- Invece posso – la zittì lei, tornando a toglierle la voce e la speranza di potersi ribellare al suo volere – e lo farò, a patto che tu rimanga fedele a me-
- Zenas – le rispose il non-morto, una punta di presunzione a storpiargli la voce arrochita dall’eccitamento – il mio nome è Zenas.
- Allora Zenas, vuoi diventare Re pur sapendo della fedeltà a me rivolta e dovuta?   
Uno sguardo supplice da parte della dea fu ciò che spinse la creatura ad allargare il sorriso e afferrare la mano che Astrid gli tendeva  mentre attorno a loro il freddo si inspessiva e il grido di Hell tornava a levarsi alto.
- Non farà male – la rassicurò, falsamente dolce, quando la costrinse ad accostare la fronte alla sua, i lineamenti tanto storpiati dalla paura da rendere il suo viso simile al teschio corroso di un morto – o almeno, non quanto vorrei ne facesse.
Un lampo.
Non videro altro.
Uno sprazzo di luce che dal nulla calò sulle loro teste con il rombo grottesco di uno stomaco vuoto, ma  ciò che Hell vedeva, ciò che fu costretta a guardare fino a desiderare di diventare cieca era un vuoto infinito tempestato di luci accecanti, pulviscoli di quelle che parevano focolai, e poi lo sentì, lo strappo.
Una lacerazione che la spinse a gridare con una voce che non ebbe più quando si sentì tirare dentro quel mondo senza fine,  trascinata per i piedi verso una profondità che la prosciugò della vista e di quella forza che le impedì di attutire la caduta quando la mano attorno alla sua gola si allontanò.
Il franare silenzioso della dea portò molti dei presenti ad indietreggiare velocemente quando videro il Tesseract avanzare di un passo, ma fu davanti al non-morto che Astrid si fermò, gli occhi irradiati dal potere risucchiato e imprigionato nelle profondità del suo essere, una potenza divina verso la quale Zenas si tese inconsciamente mentre da terra, Hell, alzava le mani per scagliare su di loro la sua furia.
Ma non aveva più nulla da invocare, nulla da lanciare su quella creatura, se non maledizioni e urla deboli come lei era stata costretta a diventare.
Perchè non più dea immortale, non più divinità crudele, ma una creatura senza più  poteri e legioni da comandare.
E quando lo lasciò uscire da sé, quando riversò in quella creatura l’ultima stilla di potere, Astrid smise di soffrire, tornando a guardare al mondo con meno cattiveria, con meno odio, ma con amore, e comprensione.
Perché era anche quello, alla fine, sarebbe stata entrambe per tutta la vita.
Crudele e gentile.
Dolce e meschina.
Ambivalenze che alla fine l’aveva riportata lì dove tutto era iniziato.
Quando Pepper la vide correre verso la porta indicata dal Padre degli dei, il desiderio di seguirla fu forte, ma si trattenne dal cedere ad un bisogno che suo marito e il dottor espressero a loro volta prima di trovarsi con le sue mani a stringere l’avambraccio di ognuno.
Era giusto che la lasciassero da sola, in quel momento, libera di andare in contro a ciò che aveva ripromesso di riprendersi.
Perché non gli avrebbe mentito come loro, non avrebbe tenuto nascosto il suo amore, ma glielo avrebbe gettato addosso come una coperta nella quale avvolgersi per stare al caldo nelle fredde notti d’inverno.
Gli avrebbe insegnato ad amarla di nuovo,  ad amarsi, di nuovo.
Non lo avrebbe allontanato, non lo avrebbe abbandonato, né avrebbe allentato la presa attorno alla mano che mai avrebbe lasciato, a costo di cadere assieme a lui e non ritrovarsi più.   
Ed anche se nel guardarla lui non le avesse sorriso, anche se nel vederla non l’avesse riconosciuta,  non si sarebbe arresa.
Avrebbe lottato per riprendersi ciò che era suo, e una volta recuperato ciò che era andato perduto, gli avrebbe dato ciò che lui per primo, le aveva regalato.
Il simbolo del loro amore, l’orecchino che sul suo lobo sinistro rifletteva lo scintillio delicato del gemello sul suo orecchio destro.
Perché avrebbe lottato per entrambi, non avrebbe mai smesso fino a quando avesse avuto un respiro e un cuore da far battere, un cuore che sentì scoppiarle in petto quando, disceso velocemente la familiare scalinata a chiocciola, si trovò davanti alla porta delle prigioni.
Lì dove per la prima volta l’aveva incontrato, lì dove finalmente, l’avrebbe ritrovato.
Il cigolio dei cardini attirò lo sguardo curioso di Thor verso l’entrata, ma ben presto si trovò ad assottigliare le palpebre nel vedere tutta quella luce, un bagliore per il quale Loki non potè che schermirsi il viso e smettere di massaggiare i polsi segnati dalle manette dalle quali il fratello lo aveva appena liberato.
Durò una manciata di secondi, il tempo di qualche battito nervoso di palpebre che finalmente, nel riuscire a definire il contorno di una figura minuta, Loki si convinse a schiudere lentamente.
E più la luce sbiadiva, più quella figura prendeva forma.
Piedi piccoli e scalzi furono  il primo particolare che il dio degli inganni registrò, ricercando nella memoria una donna dall’incarnato simile a quello ceruleo dell’epidermide appena visibile dalla gonna morbida e di un tenue bianco panna.
Fu poi la volta di un busto asciutto, abbracciato da un abito semplice e grazioso che scivolava come nuvole sulle braccia scoperte della donna, braccia che Loki vide scattare verso il petto che la sconosciuta abbracciò, come a darsi conforto.
E capelli, lunghi e di sfumature tanto contrastanti da dargli l’impressione di star osservando un arcobaleno, ma erano semplici ciocche quelle che le accarezzavano il collo e il seno, sbuffi di colore che addolcivano la tonalità particolare della pelle.
 E una bocca, morbida e dall’aspetto delicato, come un fiore appena sbocciato su un viso per il quale, una volta inquadratolo nella sua interezza, si trovò a trattenere il fiato.
- Cosa ci fai qui?
La voce di Thor fu tetra, pericolosa, ma Astrid non lo sentiva, non lo guardava, non vedeva nulla se non lui.
Loki.
Sentì le labbra tremarle  per il bisogno di gridare il suo nome a squarciagola e  fargli sentire  la gioia che le stava squassando il petto, il sollievo di sapere di averlo  salvato, alla fine, di aver ripagato lo stesso debito che lui, prima di lei, aveva estinto.
Eppure non riusciva a trovare la voce, Astrid, poteva solo tremare d’amore e pregare di essere forte per lei, per lui, per entrambi.
Perché avrebbe dissipato ogni suo dubbio, spiegato ogni dilemma, confessato il perché dei suoi occhi lucidi e delle lacrime che le rigarono il volto, avrebbe pensato ad ogni cosa, persino al dolore che avrebbe taciuto in gola per ogni suo sguardo diffidente e sospettoso, perché lo sarebbe stato con lei, lo era stato con tutti.
Ma gli avrebbe insegnato a fidarsi di lei, lei che non lo avrebbe tradito come gli  altri avevano fatto, ma che lo avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni.
E quando la sorpresa lasciò posto alla diffidenza, quando gli occhi di Loki si assottigliarono per il sospetto, Astrid non potè che sorridere come lui le aveva insegnato a fare.
Un sorriso che profumava di qualcosa di buono, di gentile, un sorriso che profumava di casa, la sua casa.
Un senso di vertigine lo assalì quando, nel fissare inquieto la strana creatura, si sentì intrappolato in quello sguardo lucido e proiettato lontano, tanto lontano da sentirsi perso e spaesato, una sensazione che quel sorriso sembrò mitigare, dandogli l’impressione di aver già vissuto tutto quello.
Ma era un' illusione, quella nella quale era intrappolato, un’allucinazione con la quale quella creatura voleva distrarlo per far sì che suo fratello potesse trovarlo indifeso, e debole.
Eppure, c’era una voce, nella sua testa, che lo invitava a cedere a quell’illusione, a lasciare che quella sensazione di calore, di amore lo affogasse nel suo abbraccio, ma aveva paura di tutto quel calore.
Perché ne sarebbe rimasto scottato, e le sue mani erano piene di troppe bruciature per poterne reggere altre, e in qualche modo sapeva che quella, sarebbe stata la scottatura più dolorosa di tutte.
- Chi sei?
Atroce.
Lo fu la scarica di dolore che le azzannò ogni nervo del corpo, un morso che per un attimo la rese insensibile ad altro se non al dolore, ma si costrinse a tenere il sorriso fermo e lo sguardo morbido conficcandosi le unghie negli avambracci stretti in vita.
E per un attimo, il desiderio di non rispondergli fu forte tanto quando la disperazione che le aveva rinchiuso il cuore in una morsa di angoscia, ma doveva scegliere cosa essere.
Se fingere ancora una volta, di essere qualcuno che non era, o accettare il peso di ciò che rappresentava.
La voce della creatura lo fece trasalire, perché non l’aveva immaginata così potente, come un comando smussato dagli angoli per apparire più gentile, ma furono le sue parole, a indurigli lo sguardo e irrigidirgli il cuore.
Due parole. Semplici, innocue, ma pesanti per ciò che significavano, per il legame che rappresentavano.
Un legame che quella creatura impalpabile e surreale definì con quelle semplici parole.
Parole che Loki, in vita sua, non aveva mai creduto di poter udire sulla bocca di nessuno.
Men che meno su quelle di chi, ora,  si presentava  come  sua moglie.


Continua…




E ci stiamo avvicinando quatti quattri alla fine, con mio enorme dispiacere, ma va bene così.
Ringrazio chi continua a leggere la storia.
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes
  
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