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Autore: Eris Hon    27/08/2013    1 recensioni
Tutt'ora, nella mia mente, mi resta impresso il suo viso. Provato, ma incredibilmente luminoso, soprattutto quando rideva. Aveva i capelli castani, disordinati, il mio Abraham; la pelle liscia come quella di un infante; la bocca carnosa e rosea, simile a quella d'una fanciulla. Quando penso a lui – lo faccio ancora, dopo tutti questi anni –, subito lo associo ad una rosa, fresca, non ancora sbocciata.
Quella notte lo baciai per la prima volta. Fu solo un tocco, veloce. Probabilmente, mi ero innamorato di lui da subito.

{ OS | Sbarco in Normandia | Slash | 845 parole }
Genere: Guerra, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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                                                                            Io ricordo

 

 

 

 

Conobbi veramente Abraham Derickson il 6 giugno 1944. Era americano, lui. Uno di quelli sempre dediti a tessere le lodi della propria patria, neanche fosse il nuovo Eden.
Era sempre circondato da altri soldati: inglesi, polacchi, francesi, anche i canadesi pendevano dalle sue labbra, mentre faceva battute sporche o raccontava “di quando quella volta mio nonno mi mise in mano un fucile per la prima volta”.

Io non lo stavo ad ascoltare. Era troppo borioso e allegro. Il che non faceva male, durante le cupe giornate di navigazione. Ma Abraham era fin troppo borioso e allegro. Forse era troppo giovane per capire cosa c'era in palio. Dopotutto, aveva ventidue anni; a ventidue anni non si dovrebbe andare in guerra.
All'epoca, io avevo ventinove anni e l'aspetto tipico dell'inglese severo e ligio alle regole. Non ero un pezzo grosso, ma comunque venivo rispettato. Nella nave – e, in seguito, nell'imbarcazione da sbarco – ero conosciuto come, appunto, “l'Inglese”. Non che ce ne fossero pochi, di inglesi. Nemmeno io, ora, conosco il vero significato di quel soprannome.
Non avevo mai parlato con Abraham, prima del 6 giugno. Ci mandarono nella stessa imbarcazione, la sera del 5, ma neanche lì riuscimmo a dirci una parola.
Fu sotto le bombe, con i fucili in mano, che ci conoscemmo veramente.

 

Non so come riuscii a sopravvivere a quella carneficina.
Ero nel panico. Pensai che, se non fosse stato un proiettile ad uccidermi, sarebbe stato un infarto a porre fine alla mia vita.
Tutto, intorno a me, era caos. Urla, pianti, imprecazioni, spari, esplosioni. E sangue. Soprattutto sangue. Dappertutto. Anche il cielo era rosso.
L'alba del 6 giugno aveva il colore del sangue e l'odore della morte.
Accanto a me, un soldato – avrà avuto al massimo diciannove anni – pregava, mentre sparava alla cieca. In quella spiaggia, eravamo tutti bambini spaventati e indifesi. Avrei voluto sedermi e rinchiudermi a riccio, come se quello fosse bastato a difendermi, ma l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Mi girai verso il ragazzo che pregava. Lui si girò verso di me. Un proiettile arrivò alla sua testa all'improvviso. E' terribile, terribile, vedere la vita lasciare gli occhi di qualcuno. Nessuno avrebbe conosciuto il suo nome. Nemmeno io lo sapevo. Vedere quel ragazzo perdere la vita fu traumatizzante. Si accasciò al suolo, gli occhi aperti, rivolti al cielo. Avrei voluto piangerlo. Ma non potevo perdere tempo.
Dovevo andare avanti.



Piansi, sparai, odiai. Odiai i tedeschi (ma ora, riflettendoci, erano solo ragazzi spaventati, come noi), odiai la guerra, odiai questo mondo malato che sembra non poter andare avanti senza spargimenti di sangue.
Mi pietrificai quando, girandomi, vidi il bel viso di Abraham, che sembrava paralizzato. Dietro di lui, c'era un soldato tedesco. Aveva il terrore e il dolore negli occhi. Non avevo scelta. Gli sparai alla testa, mentre Abraham girava la testa verso l'uomo che avevo appena ucciso.
L'americano mi raggiunse.

«Grazie» mi disse. Ci guardammo. I suoi occhi, azzurri, luminosi, riuscirono ad estraniarmi per un istante dall'inferno intorno a me.

 

Per tutti i giorni a seguire, mentre ci inoltravamo nel territorio francese, io e Abraham restammo sempre vicini. Ci proteggevamo.
«Mi chiamo Donnie, comunque. Donnie Meyer» gli dissi una sera, una di quelle in cui ci si poteva riposare senza timore alcuno.
«Lo so» rispose lui, con un sorriso tremulo, amareggiato. «Sei l'Inglese».
Con un po' di difficoltà, risposi a quel sorriso. Andava bene un sorriso, ogni tanto, in tempo di guerra. Non ci riposammo affatto, quella notte. Anche se avremmo dovuto. Parlammo, osammo anche ridere. Mi pentii di averlo giudicato infantile. Era coraggioso e forte e anche intelligente.
Tutt'ora, nella mia mente, mi resta impresso il suo viso. Provato, ma incredibilmente luminoso, soprattutto quando rideva. Aveva i capelli castani, disordinati, il mio Abraham; la pelle liscia come quella di un infante; la bocca carnosa e rosea, simile a quella d'una fanciulla. Quando penso a lui – lo faccio ancora, dopo tutti questi anni –, subito lo associo ad una rosa, fresca, non ancora sbocciata.
Quella notte lo baciai per la prima volta. Fu solo un tocco, veloce. Probabilmente, mi ero innamorato di lui da subito.

 

La rosa non sbocciò mai. Il 23 agosto 1944, un giorno prima della liberazione di Parigi, Abraham morì.
Non sarei qui, se non fosse stato per il suo sacrificio. Ero distratto. Si mise davanti a me e prese il proiettile al posto mio, sul petto.
Mi girai. Abraham si accasciò a terra, mi guardò, mi sorrise. Sorrideva sempre, sempre, il mio Abraham. Non l'avrei abbandonato. Lo trascinai dietro ad un cespuglio. Volevo rimanere con lui, mentre moriva. Volevo stargli vicino.
Piangeva e sorrideva, Abraham. Gli accarezzai i capelli, le guance. Lo baciai ripetutamente, con le labbra bagnate di lacrime.
«NON DOVEVI!» gli urlai. «Non dovevi...»
Lui mi guardò, mentre il respiro andava affievolendosi. Mi strinse la mano.
«Ti amo, Donnie Meyer».
Non ebbi tempo a dirgli che, dannazione, l'amavo anche io.
Nessuno si sarebbe ricordato di Abraham Derickson. Nessuno si sarebbe ricordato del ragazzo che pregava. Nessuno si sarebbe ricordato di me. Ma non importava.
Io avrei ricordato.





 



L'angolo della (pseudo)fanwriter

Buonday, lettori!
Ecco che torno di gran carriera con questa storia breve/triste/di dubbio gusto. Ma, ehi, it doesn't matter!
Questa cosa nasce dal panico derivato dal fatto che io dovrei fare i compiti e non fangirlare su Doctor Who. E, sì, questo è uno dei compiti. Siccome dovevo scrivere un testo realistico e avevo appena visto un documentario sullo sbarco in Normandia, mi sono detta: "Yoh-oh, scriviamoci su!" 
E perché non aggiungere ghei? Che io di solito non riesco a scrivere slash. Quindi se è pessima, questa OS, perdonatemi. E perdonatemi anche se ho fatto qualche errore sulle date o sullo Sbarco o su tutto.. Mi sono informata un po', certo, ma magari ho capito male e-. 
Buh, io la finisco qui. 
Tanto amore e tanti biscottini. 

Lills.
   
 
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