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Autore: _Krzyz    27/08/2013    6 recensioni
Tutti conoscono la storia di Katniss e Peeta. La loro vita verrà ricordata per sempre grazie a quella storia. Ma le storie dei Ventidue tributi morti, quelle sono morte con loro. Perchè a nessuno è mai interessato ricordarle. E' così che comincia la Fiaba da Una Terra di Polvere. La Fiaba delle vite degli altri, che ora meritano di essere ricordate, che ora vivranno per sempre.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Avviso: OOC (non uccidetemi, ve ne prego!).
Consiglio: mettete come sottofondo la canzone Dirty Paws degli Of Monsters and Man, il tutto merita molto di più!


“Now Cinderella, don't you go to sleep,
 it's such a bitter form of refuge.
Oh, don't you know the kingdom’s under siege
and everybody needs you ?”
 

Questa è La Fiaba della Bestia dalle Zampe Sporche che Cercava la Luce.

 -“E’ colpa tua se tua madre se n’è andata! Tutta colpa tua!”-
Un colpo. No, non era colpa sua.
-“Non tornerà, capito?! E tutto per colpa tua, sudicia puttana!”-
Due colpi. Lei lo sapeva che non era colpa sua. Non poteva essere colpa sua se sua madre era scappata con un altro uomo.
-“ E ora torna su, prima che ti distrugga la faccia completamente! Muoviti, troia!”-
Altri tre colpi. Poi basta.
 
Tornò in camera sua e si chiuse a chiave dentro. Il volto tumefatto e il labbro spaccato si fecero largo sullo specchio. Non aveva più lacrime da versare, quella ragazza. Si pulì il sangue dalla faccia senza emettere un singolo sospiro. Era ubriaco, suo padre, quella sera. Come tutte le sere , d’altronde, era diventata un’abitudine per lei prenderle da lui.
Si distese nel letto, le coperte tirate su fino agli occhi. Non aveva luce quella ragazza. Viveva nel buio, procedendo a tentoni in un mondo che non la capiva. Solo nascosta tra le pieghe del suo cuscino trovava conforto. Erano il suo rifugio, l’unica ancora di salvezza in un oceano in tempesta.
 
Alla mattina usciva alle 6, meno tempo passava in quella casa e meglio era. Camminava a passo serrato, gli ematomi quasi completamente riassorbiti grazie a una crema alle erbe. Nascosti nel fodero del suo cappotto sgualcito una decina di coltelli le premevano contro il petto. Erano loro che le permettevano di tirare avanti, quelle lame sottili e letali. Arrivava in accademia un’ora dopo, in anticipo di parecchio tempo rispetto all’orario d’inizio delle lezioni. E là saliva su un albero e si dilettava a centrare gli uccelli appollaiati sui rami di fronte a lei, senza mai mancarne uno, fino alle 8. Ogni singolo coltello che lanciava si andava a conficcare nel petto di ogni piccione, passero o merlo che si ritrovava, sfortunatamente, sulla sua traiettoria. Dopo che li aveva finiti li andava a recuperare strappandoli violentemente dalla gabbia toracica dei poveri esserini sporcandosi tutte le mani di sangue. Ecco cos’era lei, una Bestia. Una Bestia senza sentimenti, con le zampe sporche di rosso.
E questa era la fama che aveva in accademia: piccola, spietata, apatica, letale. Una precisione innata nel lancio dei coltelli e una voglia di uccidere senza pari. Non falliva un lancio, tutti i manichini si ritrovavano lame su lame piantate nel petto. Era una bestia.

Di macchine da guerra li dentro ce n’erano parecchie, dopotutto erano nel distretto 2, ma una in particolare spiccava su tutte.
Passava spesso per la palestra dove lui si allenava. I suoi muscoli si contraevano infilzando decine di volte il corpo imbottito di un manichino con una spada. I capelli biondi ondeggiavano a ogni colpo. Era forte e spietato, avrebbe potuto spezzare il collo a qualcuno a mani nude .Ma il motivo principale per cui Cato era così conosciuto era il fatto che, essendo un ragazzo piuttosto attraente, praticamente tre quarti dell’accademia era stata a letto con lui almeno una volta. Era il preferito degli allenatori per via del suo atteggiamento spavaldo e molte ragazze assistevano alle sue sessioni d’addestramento incitandolo e adulandolo ad ogni colpo messo a segno. Lo chiamavano Diavolo.

Clove si fermava a osservarlo molto spesso. Non da vicino. Lo guardava di sbieco attraverso la porta d’entrata della palestra, cercando di farsi notare il meno possibile da lui. I suoi occhi verde scuro passavano sul suo corpo come soffi d’aria, impercettibili scrutavano ogni tendine del ragazzo. Le braccia di Cato danzavano sulle note di una musica che non esisteva colpendo più volte il corpo imbottito di fronte a lui. Non sapeva, la Bestia dalle Zampe Sporche, cosa la spingesse a fissarlo da dietro gli stipiti della porta d’ingresso. Non aveva un motivo vero e proprio per farlo e non aveva un motivo vero e proprio per evitarlo. Semplicemente se ne stava la, osservandolo. Aveva una luce negli occhi, quel ragazzo, un bagliore che gli si accendeva quando la sua mano destra impugnava la spada e che si spegneva quando la riponeva nel fodero. E lei tutte le volte cercava quella luce, come una falena che si era persa nella notte. Perché di luce quella ragazza non ne aveva. Non aveva un amico con cui confidarsi, una spalla su cui piangere, una persona con cui ridere. Era sola, sola nel buio, sola con i suoi coltelli e il suo dolore. Avrebbero potuto definirla misantropa, ma lei non respingeva volontariamente le persone. Dopo tutto il male che le era stato fatto fidarsi di qualcuno era difficile.

E tornava a casa. E subiva le ire immotivate di suo padre. E si detergeva il sangue che le colava giù dal mento. E si accoccolava nel suo rifugio. E il giorno dopo tutto daccapo. Si metteva una corazza di diamante quella ragazza. Doveva essere forte, lei era forte.
 
Accadde durante l’inverno. Il gelo s’insinuava nei suoi scarponi congelandole le dita dei piedi. La giacca non le teneva molto caldo, ma era l’unica che aveva e compensava con tre strati di maglioni. Una sciarpa vecchia di dieci anni copriva gli ematomi che il padre le aveva fatto sul collo con un mestolo la sera prima. Si andava ad allenare in un altro quartiere, era mattina presto e non rischiava di certo di incontrare brutti ceffi lungo la strada. Cominciò a lanciare i coltelli contro un albero, disegnando con gli occhi un bersaglio immaginario e tentando di centrarlo. Un ragazzo attraversò la traiettoria, venendo sfiorato da una quelle piccole lame letali. Ma non era un ragazzo qualunque. Era il Diavolo, il Diavolo aveva attraversato la strada alla Bestia. La luce brillava vivida negli occhi color ghiaccio del ragazzo. Non aveva realizzato che lo aveva quasi preso in pieno viso con un coltello. Parlò per un po’ con Cato, senza capire da che parte voleva arrivare il ragazzo. Quando fece per andarsene però sentì la mano del ragazzo trattenerla per un lembo della giacca. Contatto fisico. La reazione di Clove fu istintiva, afferrò il suo polso con forza e lo torse stendendolo a terra e puntando una delle sue tanto amate lame alla gola del ragazzo. Troppe persone l’avevano toccata per farle del male in passato.
-“Non toccarmi mai più senza il mio esplicito consenso.” – sibilò la Bestia.
Il suo allenatore sarebbe stato fiero di lei in quel momento. Aveva appena steso il ragazzo più in vista di tutta l’accademia. Le sue piccole Zampe Sporche , anche se livide e secche per il freddo, tenevano strette le mani di Cato in una morsa dalla quale era praticamente impossibile liberarsi.
-“Volevo solo sapere il tuo nome”- rispose lui fissandola negli occhi.
Solo allora si rese conto di quello che aveva appena fatto. La Bestia stava per uccidere l’unica cosa per cui poteva provare un minimo d’interesse. Ritirò il coltello levandosi dal ragazzo per permettergli di alzarsi. Potevano dire quello che volevano, ma senza una spada in mano Cato era agile come un ippopotamo con problemi a livello motorio. E la cosa la faceva sogghignare, ora come ora in uno scontro corpo a corpo avrebbe stravinto lei. Ma il biondo stava ancora aspettando una risposta.
-“Clove.”
-“Come?”
-“Il mio nome. Clove. Non farmelo ripetere.”
Aveva passato troppo tempo in quel quartiere. La gente parlava, al distretto 2. Non voleva passare per la nuova preda del belloccio dell’accademia. Fece per andarsene, ma la voce del Diavolo la fermò.
-“Perché mi guardi mentre mi alleno, Clove?”- Le chiese calmo. –“Ti vedo, sai. Seminascosta dietro gli stipiti della porta. Perché lo fai?”
Questo temeva. Che cavolo gli rispondeva adesso? Non lo sapeva nemmeno lei.
-“ Io non ti guardo, Cato. Io ti osservo. E se ti osservo o meno non deve interessarti. ”
Un sorriso sincero si fece strada sul volto del biondo. Non era un sorriso stupido, di quelli che rivolgeva alle oche dell’accademia che tanto lo bramavano. Era spontaneo, quasi traumatizzante. La Bestia si voltò di scatto per tornare a casa, ma di nuovo la sua voce la fermò.
-“Dove posso trovarti, Clove?”
Una fitta attraversò il petto della ragazza. Dove poteva essere trovata? Sul pavimento di una casa in periferia, sanguinante e distrutta dal dolore, tutte le sere. Gli ematomi che aveva sul collo ancora le facevano male. Ma la cosa non era importante in quel momento. Lui l’avrebbe cercata. E l’avrebbe trovata prima o poi, questo se lo sentiva, ma non sapeva se gioirne o preoccuparsi.
-“Pensaci. Tu dove pensi che io possa essere trovata?” – rispose la Bestia senza volerlo. Avrebbe potuto rispondere che non le interessava essere trovata da lui. Avrebbe potuto rispondere che le dava fastidio la superficialità con cui trattava le ragazze dell’accademia. Ma non lo fece, l’istinto aveva prevalso sulla ragione.
Si riavviò a testa bassa sulla strada che l’avrebbe riportata a casa. Eppure allontanandosi sentiva che qualcosa era rimasto davanti a lui. Era stata una stupida.

Quel giorno in accademia le comunicarono che sarebbe passata agli intensivi. Finalmente quei quattro beoti dei coordinatori avevano capito quanto valeva. Gli intensivi significavano praticamente passare metà della sua giornata chiusa dentro ad una palestra allestita su misura per lei, focalizzandosi solo sull’allenamento. E questo lei faceva, e lo faceva volentieri. Non perdeva un minuto a cincischiare, era perennemente concentrata sul centro dei bersagli che le si paravano davanti. Non un singolo manichino scappava dai suoi piccoli coltelli.
Quando tornava a casa la situazione era sempre la stessa. Pazientemente, tutte le sere puliva il vomito di suo padre dal pavimento, cucinava la cena e veniva picchiata per lo stesso motivo. Non era colpa sua, come poteva? Se sua madre aveva tradito quell’ombra di uomo che doveva essere stato suo padre la colpa non poteva di sicuro essere di una bambina che all’epoca aveva nove anni appena. E lei si limitava a subire, ribellarsi a lui avrebbe soltanto peggiorato le cose. Si chiudeva in camera e si levava il sangue dalla faccia con un panno. Un po’ di crema e via, nessuno se ne sarebbe accorto. Era questo che la Bestia si era costruita attorno, la fama di un’assassina misantropa e apatica. Lei non era affatto apatica, aveva semplicemente preferito seppellire i suoi sentimenti cinque metri sotto terra per non sembrare debole. Nel distretto 2 non potevi permetterti di essere debole.

Ma , una sera a settimana, lei si dava il permesso di cedere e scappava dalla finestra. Correva via lungo il selciato che attraversava il boschetto cittadino e arrivava davanti a una grande casa bianca. Saliva sull’albero che la affiancava e guardava dalla finestra. La, sepolto dalle coperte, il motivo di tanta strada riposava beatamente, sognando manichini da sgozzare e spade. Clove non sapeva perché lo faceva, ma il solo fatto di non essere chiusa in quella prigione che era casa sua la faceva sentire meglio. E questo faceva per molte ore, lo osservava. Come una falena che rimane ferma a bearsi della luce al neon di un’insegna, lei rimaneva sul ramo, senza curarsi molto del freddo, ad osservarlo. Lei poteva essere trovata.

Il tempo passava e le cose andavano di male in peggio. Suo padre aveva perso il lavoro e tutti i soldi che avevano messo da parte finivano in rum, whisky, vodka e liquori vari. Erano senza una fonte di sostentamento e lei  mai e poi mai avrebbe lasciato l’accademia. Così mise in atto ciò che il suo maestro le aveva insegnato nel bosco, silenziosa come un’ombra. E ,colpo dopo colpo, rapina dopo rapina, la Bestia con le Zampe Sporche portava a casa il denaro che le serviva per vivere. Andò avanti così per molto tempo, tutte le notti un buon bottino.

E poi le capitò tra le mani una vittima conosciuta. Una vittima inspiegabile. Fece tutto come al solito, appostata dietro un frassino. Aveva sentito dei passi. Uno, due , tre. Aveva preso la persona alle spalle, puntandole il coltello alla gola, come amava fare. Ma la vittima quella notte non si era sbrigata a tirare fuori il suo portafogli e a svuotarne il contenuto per terra. Era rimasta ferma, a testa alta, sussurrando una sola parola.
-“Clove?”-
Conosceva quella voce, la conosceva fin troppo bene. Scostò velocemente la lama dalla gola del ragazzo e lo lasciò andare. Ripose il coltello nel fodero della giacca mentre la sagoma di Cato si delineava alla luce della luna. Allora era vero, quel maledetto la stava cercando e lei non sapeva se sputargli in faccia e dirgli di farsi una bella vagonata di cazzi suoi o se esserne felice. Il solo fatto di sentirsi la preda di qualcuno le faceva saltare i nervi. Era lei che predava, non che veniva predata.
-“Pensavo fossi qualcun altro, non volevo farti del male.”- disse la Bestia nella maniera più calma che conosceva.
-“Dov’eri finita?”- Eccolo che cominciava. La vagonata di cazzi suoi se la doveva fare, eccome. Eppure in quel momento lei non voleva che andasse via.
-“Ho avuto da fare”-
-“Perché non sei più venuta in Accademia?”-
-“Io in Accademia ci vado regolarmente, ma sono passata agli intensivi.”-
Stupida. Perché l’hai detto?
-“Che ci fai qua? Assali le persone nei boschi?”-
-“La mamma non ti ha detto che ci sono i cattivi nel bosco di notte?”-
Un sorrisetto sghembo apparve sulla faccia di Cato, donandogli un’espressione da imbecille come poche altre al mondo. Clove soffocò a fatica una risata. Risata? Quella parola le rimbombò in testa. Da quanto tempo era che la Bestia non rideva? Ormai aveva perso il conto. Anni, forse. Non aveva tempo e motivo per ridere. Ma quella faccia, quella faccia era troppo insulsa per non ridere.
Poi nessuno dei due disse più nulla. La ragazza piantò gli occhi nelle iridi ghiaccio del ragazzo, cercando la luce. Quella piccola scintilla che da troppo tempo non vedeva, talmente assorta negli allenamenti da non prestare più attenzione a niente. Quel bagliore che solo lui aveva, che solo lui poteva avere. La lampadina che attirava la falena che era in Clove. Ci si poteva perdere negli occhi della ragazza, ma in quelli del Diavolo no. La luce che aveva dentro avrebbe fatto strada. Per tanto tempo aveva cercato una guida, una luce, un’ancora di salvezza che non fossero il suo letto e la crema per gli ematomi. Forse, e dico forse, per la prima volta la Bestia dalle Zampe Sporche sentiva che si poteva fidare di qualcuno, di qualcuno che a sua volta voleva fidarsi di lei. Passò tanto, troppo tempo. Il guscio che la ragazza si era creata si stava lentamente e inesorabilmente incrinando.
-“Io devo andare adesso. Non preoccuparti , mi rivedrai prima di quanto pensi”- disse la ragazza prima di voltarsi e proseguire per la sua strada, lasciando impalato Cato.

La sera prima della Mietitura la ragazza tornò sull’albero davanti alla finestra del ragazzo. Seduta sul ramo, osservava la luce. E dopo tanto tempo, una piccola lacrima scese giù dai pozzi verde scuro che erano i suoi occhi. E poi un’altra. Nessuno sa perché, ma per una volta la Bestia mise da parte i coltelli e diede ascolto all’anima.
Clove aveva un bellissimo modo di piangere. Il suo viso rimaneva immobile mentre le gocce salate scendevano lungo le sue guance lentigginose. Avrebbe potuto ridere e parlare normalmente, la sua voce era comunque sicura e senza incrinature. Solo quelle lacrime erano il segno della sua tristezza. Non un singhiozzo, non un tremito. Il volto impassibile, solcato da gocce di sale che bruciavano. Le Bestie non piangevano, le Bestie uccidevano e basta. Eppure non fece niente per trattenerle, le lasciò scorrere liberamente sulle sue gote.
Lasciò che portassero via il sangue degli uccelli che alla mattina le facevano da bersagli mobili.
Lasciò che portassero via l’alcool che suo padre ingurgitava a litri.
Lasciò che portassero via i residui di mistura per curare gli ematomi della sera precedente.
Lasciò che portassero via il suo guscio di diamante.
Lasciò che portassero tutto il suo dolore altrove, perché dal giorno dopo non avrebbe più avuto occasioni di farlo.
 
Alla Mietitura la Bestia alzò le sue Zampe Sporche, come volontaria per gli Hunger Games. Salì decisa sul palco, un occhio nero e il labbro spaccato. Nulla da perdere, tutto da vincere. Perché lei poteva vincere, ne era sicura. Poi un altro paio di mani si alzarono, ma non erano le mani che si aspettava. Si ritrovò a stringere la mano del Diavolo, l’altro tributo per l’Arena.
Il fragile equilibrio che la ragazza aveva instaurato con se stessa si era sgretolato in pochi secondi. Cato come tributo significava una cosa sola.
La falena avrebbe dovuto uccidere la luce, o la luce avrebbe ucciso lei.
Nessuno venne a salutarla, prima che salisse sul treno, ma le arrivò un pacchetto. Dentro un tappo di bottiglia, un sacchettino di chiodi di garofano e un biglietto. Scritte con una matita spuntata, a caratteri tremolanti , un paio di parole.
“Scusami, Chiodino”.
Chiodino. Era il suo soprannome da bambina. Sua mamma l’aveva chiamata Clove in onore dei chiodi di garofano, che gli aveva detto possedere un significato speciale. Il pacchetto era di suo padre, che veniva a chiederle scusa dopo tanti anni.

Se lo portò in arena, il sacchetto di chiodi di garofano.
La Bestia si sporcò le Zampe più volte.
Le sporcò del sangue dei tributi più deboli alla Cornucopia.
Le sporcò di terra mentre tentava di fuggire dagli aghi inseguitori.
Le sporcò di farina quando ricevette il primo paracadute, che conteneva del pane.
Le sporcò di nuovo di sangue, lottando contro la sua luce, prima dell’annuncio.
Le usò per abbracciare Cato, l’unica persona di cui si fidava, quando seppe che potevano tornare a casa insieme.
E un’ultima volta le sporcò di sangue, il suo, che colava dalla ferita alla testa che le era stata fatta al Festino con una roccia. Avrebbe potuto uccidere la ragazza in fiamme, con i suoi tanto amati coltelli, se il ragazzo dell’undici non fosse intervenuto.
Poco prima che la roccia le colpisse il cranio, fracassandolo, lei chiamò il Diavolo.

Lui arrivò, quando tutti se n’erano andati e la sua compagna stava morendo. E la Bestia dalle Zampe Sporche cercò un’ultima volta la luce negli occhi del ragazzo. Ma capì solo in quel momento che lei non aveva bisogno della luce. Lei aveva bisogno di lui. Lui , che la stava pregando di restare viva. Non sarebbe vissuta oltre, ne era consapevole. Una lacrima solitaria le scese un’ultima volta dall’occhio destro. Allora la Bestia usò le Zampe un’altra volta. Prese il sacchetto di chiodi di garofano e lo donò ad un Cato piangente, ricordandone improvvisamente il significato. E prima di chiudere i conti col mondo, disse in un respiro al ragazzo
-“Vinci per me…”
E sorrise, Clove.

Poi l’oscurità trascinò via quella piccola Bestia dalle Zampe Sporche. Ma non avrebbe vagato nel buio, aveva una piccola luce tra le mani. Una luce potente, brillante più di ogni altra cosa.

 E prima di andarsene definitivamente dall’Arena si chiese se Cato avrebbe mai capito il significato di quel piccolo sacchetto di chiodi di garofano, piccoli e profumati.

Chiodi che significavano “Ti ho amato a tua insaputa.”

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IL KACTUS DI KRZYZ

E la povera Krzyz ricevette quattro vergate dalla Collins per il tremendo OOC di questo personaggio. 
A parte questo, ecco a voi un nuovo capitolo, questa volta incentrato su Clove :)
E' stato un lavoraccio e spero davvero che vi piaccia. (Scusate per la lunghezza, non è colpa mia D:)
I chiodi di garofano nel linguaggio dei fiori significano proprio "Ti ho amato a tua insaputa" e Clove in inglese vuol dire chiodo di garofano! 
Sperando che questo capitolone melense vi piaccia, un abbraccio! 
Saluti dal Kactus, _Krzyz
Un ringraziamento speciale a tutti quelli che seguono questa storia con passione! Grazie mille :)!
  
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