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Autore: Codivilla    27/08/2013    1 recensioni
E se dopo l'ultima partita contro i Dallas Ropers, finito lo sciopero dei giocatori professionisti di football, a qualcuna delle "Riserve" dei Washington Sentinels fosse stata riservata una ulteriore chanche?
• Dal primo capitolo:
Abbassò lo sguardo all’orologio che portava per vezzo al polso destro invece che al sinistro. Sbuffò pesantemente sotto i baffi grigi e si aggiustò la visiera del cappellino di paglia che portava calcato sul capo per coprire la calvizie che si faceva sempre più incipiente con l’avanzare degli anni.
«Avanti, giochiamo a football!» gridò infine, verso i suoi giocatori, battendo le mani un paio di volte.
Shane Falco, giuro che appena ti prendo ti uccido.

• Disclaimer: i personaggi citati, a parte quelli creati da nuovo, non mi appartengono e sono proprietà degli autori del film "Le Riseve" (titolo originale: "The Replacements") del 2000, diretto da Howard Deutch. C'è qualche riferimento ad alcune battute del film, ma in maniera sporadica. I nomi delle squadre non sono reali: sono quelli citati nel film, inventati dagli autori dello stesso. Mi scuso per eventuali svarioni in merito alle regole del football che, nonostante la mia documentazione in merito, possono essere presenti.
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Capitolo Uno -
Ritardi e Cacciaviti


***


 

Shane si rigirò sotto le lenzuola. Dormiva placidamente, come un bambino, col respiro regolare che gli faceva ritmicamente alzare ed abbassare il torace. Il sole pomeridiano che filtrava dalla finestra, tuttavia, sembrava avere altri progetti per lui, che non prevedevano il lasciarlo dormire in pace. I suoi raggi gli battevano fastidiosamente, infatti, sulle palpebre chiuse. Increspò le sopracciglia in una smorfia ed alzò leggermente il capo, ritrovandosi con mezzo occhio aperto e l’altro chiuso, ancora evidentemente assonnato. Lasciò ricadere pesantemente la testa sul cuscino ed allungò il braccio destro in uno scatto verso il comodino, afferrando un orologio da polso nero ed avvicinandoselo al viso.
D’un tratto, fu completamente sveglio.
«Cazzo!» esclamò, scattando a sedere sul materasso e buttando all’aria le lenzuola, insieme all’orologio.
Puntò i piedi nudi sul pavimento freddo della stanza da letto alzandosi concitatamente e mugugnando qualcosa mentre vagava, seminudo a parte i boxer neri, alla ricerca dei propri pantaloni.
« …Shane? ...che succede?»
La testa di una ragazza castana, dai capelli di media lunghezza, scompigliati dal sonno, fece capolino dal lato opposto del letto. Il viso di lei rivelava immediatamente quanto fosse stato brusco quel risveglio, quantomeno a giudicare dalla evidente fatica con cui teneva gli occhi aperti.
«E’ tardissimo, Annabelle! Sono in ritardo di almeno mezz’ora per l’allenamento, dannazione!» ribattè Falco, afferrando i pantaloni da sopra una sedia ed infilandoseli velocemente, sollevando poi lo sguardo sulla ragazza «Il coach vorrà la mia testa su un piatto d’argento».
Annabelle sbuffò leggermente in una mezza risata. Quel gesto lo fece improvvisamente sorridere. Scuotendo il capo, le si avvicinò, aggirando il letto per trovarsi dalla sua parte. «Eri in ritardo anche al primo allenamento di due anni fa. E mi pare che la testa tu ce l’abbia ancora attaccata al collo».
«Ma all’epoca non ero un giocatore di football professionista. Ero solo una riserva».
Il giovane si chinò nell’atto di sedersi sul materasso.
«Te l’ho mai detto che sei bellissima quando sorridi?»
La ragazza annuì guardandolo un po’ di sottecchi, mentre lui si sedeva accanto a lei dalla sua parte del letto, e si tirò su a sedere a sua volta coprendosi il corpo nudo con il lenzuolo.
«Mi sembra di avertelo sentito dire, qualche volta» la mano di Annabelle andò a sfiorargli la fronte ampia. I capelli scuri di lui scivolarono fra le sue dita «Dovresti accorciare i capelli» aggiunse, osservandolo con occhio critico.
Shane inarcò un sopracciglio con aria dubbiosa.
«A me piacciono così» si limitò a dire, socchiudendo le palpebre mentre si lasciava accarezzare, come un gatto che si facesse coccolare dal padrone, e poco mancava che facesse pure le fusa. I capelli di Shane erano spesso argomento di disaccordo, fra i due. Lui non diceva mai che li teneva così lunghi sul davanti quasi a sfiorargli gli occhi perché convinto che la sua fronte fosse troppo alta e che i capelli, in qualche modo, mascherassero questo piccolo “difetto”.
Annabelle avrebbe voluto che lui li portasse più corti, ma non la spuntava mai, così come raramente la spuntava su altri argomenti. La ragazza sospirò lievemente, mentre la sua mano scendeva dalla fronte alla guancia di lui.
«Shane, dobbiamo parlare» sussurrò, improvvisamente seria.
«Di cosa?» lui riaprì gli occhi e la guardò di rimando.
«Lo sai».
Shane inspirò facendo fare ad una boccata d’aria un ampio giro nei suoi polmoni. Le narici si dilatarono un poco, fremendo appena. Si alzò dandole le spalle e puntò dritto alla sua t-shirt, in terra ai piedi del letto, chinandosi poi a raccoglierla.
«E tu sai già quel che ne penso, Annabelle» tagliò corto, infilandosi addosso l’indumento e riemergendo da quell’azione con i capelli scompigliati davanti agli occhi.
«Shane…» il tono della ragazza sembrava adesso velato da una punta di rimprovero.
Lui parve sordo a quell’ulteriore richiamo, limitandosi a sedersi nuovamente sul letto, dal proprio lato, per infilarsi i calzini e le scarpe. Annabelle si strinse più forte le lenzuola addosso e schiuse le labbra, come per dire ancora qualcosa. Le parole andarono a morirle in gola, e silenziosamente si morse il labbro inferiore, guardando la schiena di lui. Quando ebbe finito di allacciarsi le scarpe, Shane si voltò verso di lei. La osservò per un lungo attimo, soffermandosi ad ammirare il colore castano screziato di verde dei suoi occhi. Era proprio bella.
«Devo andare» disse in un soffio, chinandosi un poco per riuscire a darle un bacio delicato sulle labbra.
«Va bene. Ti raggiungo al campo più tardi. Oggi ho i provini per sostituire Donna e Kim».
Shane annuì e si rimise in piedi. Recuperò l’orologio e se lo allacciò poi al polso sinistro. Annabelle lo guardò allontanarsi. Quando il rumore del portone dell’appartamento che sbatteva risuonò nella stanza, sbuffò lasciandosi ricadere a peso morto sul letto cigolante, col lenzuolo ancora stretto al petto.
«L’avevo detto io, che i quarterback sono i più bambinoni di tutti!» sbraitò, tirandosi il lenzuolo fin sopra la testa. Con l’intenzione di restarsene a letto fin quando non fosse arrivata l’ora di andare a torturarsi, suo malgrado, dietro alle terribili aspiranti cheerleader che le si sarebbero presentate davanti di lì a mezz’ora.

***


La finestra del soggiorno doveva essere difettosa. Non c’erano spiegazioni, altrimenti, al fatto che non volesse aprirsi in nessuna dannata maniera. Vittoria fece partire un mezzo cazzotto bene assestato alla maniglia, ma non valse a molto. Continuava a restarsene beffardamente bloccata.
Uno sbuffo contrariato le increspò le labbra. Si voltò e si diresse verso il corridoio che dal soggiorno dava alla cucina dell’appartamento. Una montagna di scatole di cartone, alcune chiuse del tutto dallo scotch da imballaggio, altre aperte e piene di roba, la faceva da padrone in ogni dove: accanto ai muri, negli angoli, un paio perfino sulle sedie nella cucina stessa. Dava l’idea della rimessa di un robivecchi.
Come se sapessi dove cavolo è la cassetta degli attrezzi, in questo casino.
Si chinò su una delle scatole, scostandosi dalla fronte un ciuffo di capelli castani che erano sfuggiti alla coda di cavallo con cui li aveva raccolti alla meglio. Se non fosse stato per l’energia con cui strappò direttamente con le mani lo scotch da imballaggio che chiudeva la scatola, a guardarla in viso si sarebbe detto che fosse stremata dalla fatica. Rovistò a lungo tirando fuori di tutto. Alcuni libri, della roba impacchettata in fogli di giornale, un paio di pesi da palestra e solo alla fine, nel fondo della scatola, una cassettina nera. La prese e si rialzò da come si era chinata senza curarsi di rimettere a posto quello che aveva buttato in giro.
Tornata in soggiorno, posò con malgrazia la cassetta sul tavolo coperto da una tela di plastica trasparente impolverata, facendola sbattere con un tintinnio di oggetti metallici.
A noi due.
Le dita affusolate fecero scattare le chiusure. Aperto il coperchio, gli occhi di Vittoria vagarono sommariamente in cerca di qualcosa di adatto allo scopo. Scelse fra i tanti un cacciavite a stella e tornò presso la finestra. Le viti della maniglia ci misero un attimo in più a cedere ai tentativi di essere svitate, ma alla fine, con un cigolio rivelatore del fatto che nessuno ci avesse mai messo mano, vennero fuori dai loro alloggiamenti. Trasse un profondo respiro per poi staccare la maniglia dalla finestra, mettendosi in punta di piedi per guardare all’interno del meccanismo. La vecchia guarnizione era consunta oramai.
Avrebbero dovuto cambiarla già dal decennio scorso. Bah!
Se la rigirò fra le mani nel tornare presso il tavolo. La gomma della guarnizione era talmente consumata da essersi in pratica erosa, fino ad attaccarsi alle componenti in metallo del meccanismo. Si sedette al tavolino e diede di nuovo una veloce occhiata alla cassetta degli attrezzi, posando il cacciavite per prendere, al suo posto, un coltellino svizzero dal quale fece scattare la lama più sottile. Iniziò pazientemente con essa a grattar via la gomma, i cui detriti cadevano man mano sulla vecchia tela plastificata del tavolino, facendo compagnia alla polvere. Quando ebbe finito, soffiò dentro l’incavo ripulito per togliere gli ultimi residui.
Posò la maniglia sul tavolo e sollevò il piano superiore della cassetta degli attrezzi. Al di sotto di esso vi erano viti, bulloni e dadi messi alla rinfusa, insieme a una serie di guarnizioni di diversa forma, spessore e colore. Vittoria ne scelse una tonda che potesse adattarsi in qualche modo al congegno della maniglia e ve la sistemò all’interno con precisione, barando un poco quando serviva e tendendola più del dovuto in alcuni punti per farla aderire bene, nonostante non fosse la guarnizione originale. Riprese il cacciavite e rimontò la maniglia, osservandola poi con aria di sfida. Posò la mano destra su di essa, le fece fare un mezzo giro, e con un sonoro “clac” la finestra, finalmente, si aprì.
Stavolta fu un sorriso vittorioso a disegnarsi sulle sue labbra. Si sporse un poco verso l’esterno, osservando la strada trafficata e caotica. Inspirò profondamente guardando dritto davanti a sé; vedeva solo grossi palazzi, grattacieli e costruzioni. Anche se sapeva che, non molto lontano, scorreva un fiume. Il Potomac River, se la memoria non la tradiva e se ricordava bene la cartina che aveva scorso velocemente durante il tragitto in taxi. Sarebbe andata a farsi un giro in quella zona, prima possibile. Non era il mare, ma meglio che niente. Ed era comunque meglio dello starsene chiusa in quell’appartamento. Specie al pensiero di doverlo ripulire da cima a fondo.
Il suono del campanello la riscosse dai suoi pensieri. Aggrottò le sopracciglia, voltandosi in direzione dell’ingresso, ma restando ferma accanto a quella finestra. Il campanello suonò una seconda volta. Poi una terza. Solo allora i piedi di Vittoria si mossero in uno scatto, dirigendosi verso la porta dell’appartamento.
Sarà un piazzista.
Una bassa signora dall’aria anziana, in vestaglia nera a stampe floreali rosa pesca di gusto giapponese, era l’ultima persona al mondo che si sarebbe aspettata venisse a suonare alla sua porta.
«Vittoria Marchetti?» chiese la vecchietta, con una voce stridula. Doveva avere come minimo cent’anni, a giudicare dal candore dei capelli, raccolti in una instabile permanente da bigodini colorati messi alla meglio.
Le palpebre di Vittoria si ridussero a due fessure. Il suo viso in quel momento era il ritratto della sospettosità e non pareva volerne fare alcun mistero davanti alla sconosciuta.
«Sono io. Perché?» rispose, pacatamente.
«Sono la signora Patterson, l’inquilina dell’appartamento accanto al suo. Normalmente non l’avrei disturbata così presto, voglio dire… le avrei dato quantomeno il tempo di ambientarsi!», disse, con una risatina stridula alla quale Vittoria rispose con un sorriso tirato. «Il proprietario del suo appartamento mi ha pregato di lasciarle questo biglietto».
La signora tirò fuori da sotto la vestaglia una busta bianca.
«Io non l’ho aperto, ovviamente. Non sono un’impicciona».
«Ovviamente». Vittoria le prese il biglietto dalle mani. «C’è dell’altro che deve dirmi?» tagliò corto, inarcando un sopracciglio.
«Oh, beh… solo… benvenuta a Washington!»
A quella frase Vittoria si lasciò sfuggire un impercettibile sospiro.
«Grazie. Buona serata, signora Patterson».
Chiuse la porta dell’appartamento e si diresse nuovamente verso il soggiorno. Strappò il lembo posteriore della busta e tirò fuori il biglietto in essa contenuto.

Gentile Signorina Marchetti,
spero che l’appartamento sia di suo gradimento.
Come specificato nell’annuncio, è poco distante dallo stadio;
se guarda fuori dal balcone della camera da letto può intravederlo,
all'incrocio fra la quinta e la sessantaquattresima.
A piedi lo si raggiunge in venti minuti, basta fare il giro dell’isolato.
Per qualsiasi problema, chieda pure alla signora Patterson.
E’ un po’ impicciona, ma tanto cara.
Le auguro una buona permanenza.

Saluti, Thomas Anderson.

 

P.S.: la maniglia della finestra del soggiorno è rotta da sempre.
Provvederò a mandare qualcuno per aggiustarla.


Vittoria rilesse il biglietto un paio di volte, prima di accartocciarlo fra le dita insieme alla busta. Camminò a passi lenti verso l’unica camera da letto dell’appartamento. Un armadio vuoto, un letto a due piazze e un comodino erano la scarna mobilia che lo adornavano. Gettò la palla di carta sul letto e si avvicinò alla porta-finestra che dava sul balcone. Ne girò la maniglia con molta più energia del dovuto; forse nel timore che anche questa fosse difettosa, ma essa si spalancò immediatamente. Si affacciò oltre la ringhiera in ferro, guardando dritta di fronte a sé. La figura del Nextel Stadium[1], dimora dei Washington Sentinels, le si parava innanzi, poco distante, come promesso dal biglietto. Venti minuti a piedi. Un’occhiata veloce all’orologio da polso.
Chissà quanto ci si impiega correndo?





 

 

 


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Note:
[1]
 Lo stadio di football di Washington D.C. in realtà, è il FedExField, casa dei Washington RedSkins, la vera squadra di football della città.


 

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- Angolo Autrice:
E finalmente, in questo capitolo, fa capolino il nostro amato quarterback con la sua Annabelle.
Oltre che questa misteriosa donna che pare avere un certo caratterino...
Grazie a chiunque passerà di qui e si fermerà a leggere. 


 

   
 
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