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Autore: everlily    28/08/2013    17 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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1.

Come home


- Come home, come home
‘Cause I’ve been waiting for you, for so long, so long
Right now there’s a war between the vanities, but all I see is you and me
And the fight for you is all I’ve ever known
So come home
(Come home, OneRepublic)

Damon


“Signore, le devo chiedere di mettere via il computer, stiamo per atterrare.”

Alzo lo sguardo verso la hostess che sorridendo gentilmente si sporge nella mia direzione.

E’ carina, con un leggero sprazzo di lentiggini sul naso e ad alcune ciocche biondo scuro che sfuggono di proposito dallo chignon di ordinanza per incorniciarle il viso sottile.

“Naturalmente,” replico chiudendo il mio lavoro e spegnendo il portatile.

“Desidera qualcos’altro?” mi domanda e questa volta il suo sorriso si fa un po’ più audace, quel tanto che basta per introdurre nella sua richiesta la giusta dose di sottintesi.

In qualsiasi altra occasione, il nome dell’hotel in cui avrebbe alloggiato quella sera sarebbe stata la prima risposta sulla punta della mia lingua. Ma questa non è qualsiasi altra occasione ed il pensiero per una volta nemmeno mi sfiora.

La congedo con un semplice cenno di diniego della testa, suscitando un accenno di delusione nel suo sorriso che comunque non vacilla, e mi allungo all’indietro sul sedile, ad osservare le distese verdi mentre lasciano il posto al complesso di edifici e strade trafficate che confluiscono in Richmond.

Mentre mi dirigo verso l’uscita del terminal, controllo distrattamente il telefono. Faccio appena in tempo a riaccenderlo ed immediatamente il suo insistente lampeggiare mi avvisa di almeno tre nuovi messaggi in segreteria.

“Damon, lo so che questo non è il momento migliore, ma c’è quell’investitore di cui ti ho parlato il mese scorso che insiste per avere un incontro. Non posso trattenerlo ancora a lungo, se non mi dici-”

Riattacco in faccia alla voce registrata di Ric, quando tra la folla variegata che attende agli arrivi, tra una donna di mezza età che tiene in braccio un cagnolino ed un ragazzino trepidante con in mano un mazzo di fiori, noto l’ultima persona che mi sarei aspettato di trovare ad attendermi.

Mio fratello si guarda attorno con le mani affondate nelle tasche, finché anche lui non mi vede dirigermi nella sua direzione e si prepara ad accogliermi con un accenno di sorriso ed un abbraccio veloce.

“Non ti avevo detto di venire a prendermi. Avrei-” inizio sorpreso, ma mi interrompe subito.

“Tu non dici mai un sacco di cose, Damon. Non ci vediamo da così tanto che era il minimo che potessi fare,” risponde con naturalezza, ma non posso fare a meno di notare come, a dispetto delle sue parole, la sua postura sia rigida e l’atteggiamento fin troppo poco rilassato, persino per i suoi standard.

“Sei arrabbiato con me,” osservo mentre ci dirigiamo nel parcheggio sotterraneo verso la sua auto, e non è affatto una domanda.

“Non sono arrabbiato con te,” replica scrollando le spalle, intanto che con il telecomando elettronico fa scattare le serrature.

“Andiamo, niente stronzate."

Stefan sospira e si blocca nell’atto di aprire lo sportello per gettarmi un lungo sguardo.

“Ok, lo sono,” conferma alzando le spalle. Non ha bisogno di aggiungere il motivo, che conosco perfettamente. Ma lo fa comunque. “Non sei venuto al funerale.”

“Ero impegnato,” taglio corto, buttando la valigia sui sedili posteriori.

“Adesso chi è che dice stronzate?”

Scuoto la testa ed entrambi saliamo in macchina. In breve tempo abbiamo già lasciato l’aeroporto per andare ad imboccare l’interstatale che corre in mezzo a distese erbacee e paesi dell’interno piccoli almeno quanto quello in cui ci stiamo dirigendo.

“Non depone neanche un po’ a mio favore il fatto che sia venuto adesso?” domando guardando fuori dal finestrino, nell’intenzione di distendere almeno un po’ l’atmosfera e placare il mio senso di colpa.

“Due settimane dopo,” replica con una smorfia.

Mi volto verso di lui corrugando la fronte.

“Non iniziare a tirare fuori gli occhietti accusatori, Stef. L’ultima volta che abbiamo parlato mi ha detto che ero come morto per lui. Beh, immagino che adesso siamo pari.”

Stefan si gira appositamente per gettarmi un’esplicita occhiata di rimprovero di fronte al mio macabro sarcasmo, ma non aggiunge altro. Le notizie sull’andamento della produzione di tabacco che stanno passando alla radio sono le uniche cose in grado di rendere il silenzio che segue ancora più pesante.

“Come sta Caroline?” tento di nuovo, andando a pescare un argomento su cui almeno so di andare sul sicuro, “Ancora nessun bambino in disperato bisogno di uno zio figo come me?”

“Se mai avrò un figlio, puoi stare certo che non lo lascerò avvicinarsi a te lontano un miglio,” ribatte, ma posso comunque vedere il suo volto distendersi per la prima volta in un accenno di sorriso sincero, che di fatto annulla qualsiasi potere della sua già vuota minaccia. “E poi, ha appena iniziato questo nuovo lavoro come assistente nel Consiglio Cittadino. E’ troppo presto.”

“Potresti assumerla come la tua di assistente. Se non altro vi fornirebbe l’occasione per interessanti giochetti di ruolo.”

“Sei disgustoso.”

“Lo so,” commento con un sorrisetto.

Abbasso la radio e torno serio per un istante.

“E che mi dici dell’azienda? Qual è la situazione adesso?”

Stefan aggrotta le sopracciglia ed emette un lungo sospiro.

“Questo …. È qualcosa di cui dobbiamo parlare.”


***


“Damon Joseph Salvatore!”

Non faccio in tempo a chiudere il portone alle mie spalle che qualcosa di biondo e profumato di vaniglia, con una spinta sorprendentemente forte per la sua piccola stazza, mi spinge all’indietro mandandomi la schiena a sbattere contro l’ingresso.

“Cosa diavolo è questa storia che stai istigando tuo fratello a mettermi un bambino qui dentro? Ho ventitré anni, per l’amor del cielo, ed intendo mantenere questa linea ancora per un bel po’, se non ti dispiace! Falli te, i bambini, se proprio ci tieni tanto!” mi urla contro con impeto, ma il fatto di interrompersi per un secondo le dà subito il tempo necessario per riflettere sulle sue stesse parole. “Anzi, no, dimentica quello ho detto. Tu non farli, che è meglio.”

“Adorabile come sempre, Barbie,” la saluto con un sorriso ironico. “Aspetta, come fai a sapere …?”

Scambio uno sguardo interrogativo con mio fratello mentre si allontana per andare a portare la mia valigia nella camera degli ospiti e lui, per tutta risposta, si stringe nelle spalle con un sorrisino consapevole.

Lo giuro: odio questi due.

Caroline mette su un broncio offeso e mi assesta un’altra spintarella indignata, questa volta più leggera.

“Non mi hai neanche dato un abbraccio.”

Scuoto la testa e mi chino per stringerla, e come le sue esili braccia mi cingono intorno al collo, mi sussurra, “Oh, e quel giochino dell’assistente? Già fatto.”

“Dio, Care, non lo voglio sapere,” commento con una smorfia sciogliendomi dal suo abbraccio.

“Ehi, sei tu che l’hai tirata fuori!”

Caroline si guarda attorno per assicurarsi che Stefan ancora non sia ritornato e prosegue a voce più bassa. “Saresti dovuto venire, lo sai vero? Per lui …” con un cenno della testa mi indica la direzione da cui Stefan è appena uscito, “… e per te. Per esserci l’uno per l’altro.”

Una stretta di rimorso mi attanaglia le viscere, ancora più forte di prima.

“E’ stato lui ad insegnarti questo sguardo accusatorio?”

“Non fare lo stronzo,” mi rimprovera, “Lo sai che hai sbagliato.”

Riesco a salvarmi dal confronto con le mie responsabilità grazie al ritorno di Stefan, rientrato in sala in quel momento insieme ad una cartelletta color rosa pallido piena di documenti.

“Penso sia il caso di lasciare voi due ragazzi da soli,” ci fa sapere Caroline mentre si infila la borsa sulla spalla e si avvicina a mio fratello per posargli, in punta di piedi, un bacio sulle labbra. “Vi ho lasciato qualcosa di pronto in cucina, se volete mangiare.”

“Grazie, Care,” risponde Stefan sorridendo al suo saluto, prima che la mia bionda quasi-cognata se ne vada facendo ciao ciao con la mano.

“Quindi …” inizia Stefan, mettendo sul tavolo i fogli che ha portato con sé ed andando ad aprire una bottiglia di bourbon, di quelle prese direttamente dal mobiletto accanto al camino. Allora deve davvero trattarsi di qualcosa di serio. “Penso che tu debba dare un’occhiata a questi.”


“Deve esserci un errore.”

Completamente sconcertato, sfoglio un’altra volta i documenti con le ultime volontà di nostro padre che Stefan mi sta illustrando ormai da una buona mezzora.

Il vetro del suo bicchiere riflette per un secondo la luce bassa e calda del tardo pomeriggio che entra dalle vetrate della sala, mentre mio fratello si stringe nelle spalle e ne prende un altro sorso.

“Nessun errore. Credi che non abbia fatto controllare tutto più volte?”

“Allora vuol dire che era impazzito,” concludo, chiudendo tutto e posandolo nuovamente sul tavolo. Mi alzo dal divano e mi dirigo verso lo scrittoio dove Stefan ha lasciato la bottiglia di bourbon per versarmi un secondo drink, mentre ad alta voce continuo ad esporre il filo del mio ragionamento che, ovviamente, non fa una piega, “Perché per otto anni ha fatto finta che io non esistessi e questa cosa, adesso … non ha minimamente senso. Te lo dico. Era andato fuori di testa e tu non te ne sei accorto.”

“Era perfettamente lucido,” obietta Stefan, mentre io scuoto la testa e butto giù un altro sorso, tanto per vedere se mi aiuta a capire il senso di tutto ciò. Si alza, si avvicina per posarmi una mano sulla spalla e prosegue con fare ironico. “Congratulazioni, sei l’orgoglioso proprietario delle azioni di maggioranza delle Salvatore’s & Associates.”

“Stefan …” inizio, del tutto a corto di parole. Poso il bicchiere e lo guardo a lungo, prima di continuare per cercare di farlo ragionare. “Non voglio il controllo dell’azienda. Dovresti averlo tu. Io non voglio averci niente a che fare.”

“Non l’ho scelto io,” replica incrociando le braccia sul petto.

“Beh, puoi farlo adesso. Puoi prenderti tutta la mia quota,” offro con un piccolo barlume di speranza, ma dalla faccia di Stefan capisco che la sta già reputando l’idea più stupida del mondo.

“Non essere idiota,” mi conferma, “Non voglio regali e comunque non avrei i fondi per comprarla in ogni caso. La situazione non è delle migliori.”

“Cosa vuoi dire?”

Aggrotto la fronte e lo guardo sospettoso, mentre lui sospira e si appoggia all’indietro contro lo scrittoio.

“La crisi, un paio di investimenti sbagliati. Se non facciamo qualcosa, siamo praticamente sull’orlo del fallimento.”

Mi osserva in silenzio, in attesa di una mia risposta.

“Perché non mi hai mai detto niente?”

“Non lo sapevo. L’ho scoperto … in queste circostanze.” Il volto di Stefan si tira in un’espressione preoccupata e affranta che mi colpisce dritto all’altezza dello stomaco. “Damon, non posso perderla. Noi non possiamo perderla. Ho bisogno del tuo aiuto.”


***


Resto ancora qualche minuto fermo nella vecchia Camaro, a tamburellare sul volante e ad osservare la piazza principale di Mystic Falls che via via si popola sempre un po’ di più del traffico di gente della tarda mattinata. La fontana che sta al centro per una volta sembra aver deciso di funzionare, ed il Grill, davanti a me, almeno dall’esterno sembra avere lo stesso aspetto di sempre. Sulla facciata ad est noto una scoloritura dell’intonaco ed immediatamente mi dico che devo ricordarle di farlo sistemare.

No, non devo. Non è affar mio.

Scuoto la testa fra me e me, stacco la chiavi dal quadro ed infine mi decido ad andare a trovarla.


Quando la sentii muovere la lingua più a fondo dentro la mia bocca, lo presi come un buon segno. Così la spinsi all’indietro, contro il tronco dell’albero alle sue spalle, e sapendo di essere abbastanza appartati dal resto della festa, non esitai oltre. Feci scendere la mano abbastanza in basso da poterla intrufolare sotto la corta gonna da cheerleader e risalii lungo la coscia puntando dritto verso il bordo delle mutandine.

“Cosa pensi di fare?” strillò scansandomi bruscamente la mano dalle sue gambe.

Alzai gli occhi al cielo e sbuffai scocciato.

“E dai, Kirstie, lo so che a Jimmy Donovan due settimane fa glielo hai lasciato fare.”

Lei incrociò le braccia sul petto e si strinse nelle spalle con fare di sufficienza.

“Perché lui mi ha portato al cinema e poi mi ha comprato questo,” replicò sventolandomi sotto al naso il polso da cui pendeva una catenina di bassa lega con alcuni ciondoli attaccati.

“Un braccialetto?” domandai stupito, “Posso darti 10 dollari e domani puoi comprarti tutti i braccialetti che vuoi.”

Cazzo. Quella mi era davvero uscita male.

“Mi stai sul serio dando della prostituta?!”

Non fui costretto a rispondere alle conseguenze delle parole che mi avevano appena bandito a vita dall’accesso alle mutandine di Kirstie Davidson, grazie al rumore di un ramo spezzato a pochi passi da noi.

Mi voltai di scatto ed in mezzo al fitto degli alberi, rischiarato dalle luci del falò di fine anno che si stava svolgendo a qualche metro di distanza, scorsi la figura minuta della ragazza che aveva appena causato quell’interruzione.

Arretrò di un passo, visibilmente a disagio.

“Mi dispiace, io stavo solo …”

“Cosa cavolo hai da guardare?” la interruppe Kirstie risentita.

“Lasciala in pace,” le intimai.

Se gli sguardi potessero incendiare, con quello sarei già stato ridotto a nient’altro che un mucchietto di cenere.

“Bene. Allora le mani vai a infilarle sotto la sua di gonna.”

Kirstie se ne andò spintonandomi per allontanarmi da lei, lasciandomi lì con quella ragazzina che adesso come minimo mi considerava alla stregua di un maniaco sessuale.

“Non ho intenzione di infilarti le mani da nessuna parte, tranquilla,” cercai di rassicurarla alzando le mani in segno di resa. “Anche perché stai indossando i jeans.”

Lei sollevò un sopracciglio e mi guardò confusa.

“Insomma, non ti toccherei mai,” tentai subito di rimediare.

Ma impiegai la frazione di un secondo, precisamente quello che mi servì per incrociare i suoi intensi occhi scuri e spostare lo sguardo sulle sue labbra ancora socchiuse per lo sconcerto, per rendermi conto di aver appena detto la cazzata del secolo.

“Ok ...” mormorò.

“Non che non vorrei,” mi affrettai a precisare, peggiorando se possibile ancora di più la situazione. “Voglio dire ...”

Santo cielo, Damon, chiudi quella cazzo di bocca.

“Sono Damon,” finii per dire, buttando fuori il mio nome quasi come se fosse una giustificazione.

Abbassò lo sguardo ed una ciocca di capelli le finì sugli occhi. La scostò per portarsela dietro l’orecchio, gesto mi permise di vedere il mezzo sorriso che le piegò le labbra.

“Lo so,” rispose piano, strofinando la punta delle converse nel terriccio umido.

Era una cosa buona?

“Sono Elena,” aggiunse, questa volta sorridendo apertamente nella mia direzione.

“Non dovresti essere al falò?” le domandai indicando il luogo della festa con un cenno del capo, senza riuscire a non farmi sfuggire un sorriso più malizioso, “Rischi di fare brutti incontri a girare da sola nel bosco.”

“Come te?” ribatté divertita con aria di sfida.

“Esatto,” le confermai, annuendo con fare solenne, “Sono un pessimo, pessimo incontro. Corri via più in fretta che puoi.”

Rise, ed immagino che fu quella risata limpida a conquistarmi più di qualsiasi altra cosa. Quella ragazza davvero sapeva come ridere.

“Penso di sapermi prendere cura di me stessa,” mi rassicurò con fare serio, ma con un accenno di sorriso ancora lì, agli angoli della bocca.

“Non ne ho dubbi.”

Stava per aggiungere qualcos’altro, ma il rumore di un clacson proveniente dalla strada che correva poco distante ci fece voltare entrambi in quella direzione.

“È mia madre,” osservò Elena e mi sembrò di vedere un accenno di delusione nel modo in cui corrugò leggermente le sopracciglia. “Devo andare.”

“E’ stato un piacere, Elena,” la salutai.

Si allontanò, ma si voltò comunque un’ultima volta per rivolgermi un altro sorriso, che mi rimase particolarmente impresso. Forse perché, dopo quella notte, passò molto, troppo, tempo prima che potessi vederla di nuovo sorridere in quel modo.


Quando metto piede dentro al Grill, non impiego molto ad individuarla. Non so se sia colpa di una qualche mia capacità sviluppata in passato e che ancora non ho perso, o solo dell’incredibile facilità con cui, senza saperlo, riesce a risaltare anche in una stanza colma di persone.

E’ girata di spalle e si sporge sulle punte dei piedi per rimettere al suo posto una bottiglia nello scaffale dietro al bancone. Quel gesto le solleva l’orlo della maglietta, scoprendole appena la linea del fianco, ed io perdo il controllo dei miei pensieri nell’immaginare le cose che vorrei farle in questo momento.

Sono un caso senza speranza. Non importa quante belle ragazze siano passate nel mio letto, le lunghe gambe che sono adesso in fronte a me, coperte solo da un paio di corti pantaloncini di jeans, riescono ancora con niente a dominare qualsiasi mia fantasia.

“Qualcuno mi ha detto che avete i migliori hamburger del posto.”

Elena si volta di scatto mentre prendo posto al bancone e trasale con un profondo respiro quando il suo sguardo stupito incrocia il mio.

“Damon …” esala il mio nome in un soffio e non posso fare a meno di sentirmi almeno un po’ compiaciuto nel vedere che le faccio ancora qualche effetto.

“Elena,” replico con naturalezza.

Si guarda un attimo attorno spaesata. Non so se stia per caso aspettando anche la banda in grande stile o forse, più probabilmente, qualche catastrofe imminente.

“Cosa ci fai qui?” mi domanda. C’è l’accenno di un sorriso di piacevole sorpresa sulle sue labbra che sembra stia per venire fuori, ma no, non arriva mai alla superficie. Se ne va così velocemente come era apparso.

“Oh, lo sai,” mi stringo nelle spalle e, noncurante, agito una mano nell’aria, “Padre morto, eccetera eccetera.”

“Lo so,” risponde a voce più bassa, con fare partecipe. “Mi dispiace.”

Scrollo le spalle e lei approfitta del mio silenzio per proseguire più esitante. “Non eri al funerale.”

“Questo è il mio crimine, sì. Continuano a ripeterlo tutti,” replico con una smorfia, “C’è qualcosa di meno deprimente di cui possiamo parlare?”

Jenna sceglie proprio quel momento per chiamarla dalle cucine e, come si volta in quella direzione, so già che l’ho persa e che userà quell’occasione per spostare altrove la sua attenzione.

“Damon, mi dispiace, ma … devo lavorare.”

Visto? Potrei scrivere un libro sulla straordinaria abilità di Elena Gilbert di battere in ritirata.

“Quanto resterai?” si degna di domandarmi prima di andarsene.

Sto quasi per rispondere, ma un piccolo luccichio attira il mio interesse. Sposto lo sguardo sulle sue dita affusolate appoggiate contro il bancone e sento lo stomaco contrarsi in uno spasmo quando mi accorgo della sottile fascia che circonda il suo anulare sinistro, con tanto di brillante nel mezzo.

Lei nota la mia espressione smarrita, perché immediatamente sottrae imbarazzata la mano dalla mia vista infilandosela nella tasca posteriore dei jeans.

Ma è pazza se pensa davvero che lasci perdere in quel modo.

“Elena, cosa diavolo significa?”


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