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Autore: Vorarephilia    30/08/2013    2 recensioni
Soleil aveva sedici anni e una vita che a molti potrebbe apparire semplice.
Amelie aveva sedici anni e un'esistenza priva di significato.
Soleil aveva un'amica immaginaria, una volta.
Amelie aveva qualcuno con cui passare il tempo, una volta.
Soleil amava guardarsi allo specchio.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 2

Cambiamenti

 

Amelie

 

Dopo aver dipinto tutto il mondo di rosso, iniziai a sentirmi meglio per davvero.

Certo, c'era ancora qualcosa che non andava, ma sembrava poter migliorare.

Non c'era sole, tuttavia, che potesse rendere quel colore brillante.

Dovevo accontentarmi dell'ombra di un rosso cupo, che era comunque meglio del grigio che aveva sempre accompagnato la mia vita.

Mi avventurai per quelle strade che da troppo tempo non percorrevo, per paura di vedere la gente.

Le persone mi avevano sempre messo un po' d'ansia. Così immobili e silenziose, così perse nel loro mondo.

Ma ora tutti erano attenti, ora mi osservavano, senza nemmeno sbattere le palpebre, perchè io ero l'attrazione principale.

Io avevo cambiato le cose.

Avevo dipinto il mondo di rosso.

Il posto che cercavo era uno in particolare, ma era molto lontano dal buco in cui abitavo.

Avevo trovato, lungo la strada, una bicicletta dalle ruote bucate, un'automobile che non si accendeva e un triciclo.

Per quanto camminare mi scocciasse, non sarei andata in triciclo.

Ad ogni passo che facevo, lasciavo cadere delle gocce rosse sull'asfalto scuro.

Il paesaggio attorno a me restava, più o meno, invariato.

Edifici grigi si accatastavano l'uno sull'altro, fatiscenti, mai utilizzati, mai nemmeno costruiti da qualcuno in particolare.

Esistevano e basta.

Perchè ciò che esisteva nel mondo giusto esisteva anche nel mio mondo.

Non c'era bisogno che gli edifici fossero costruiti, i bambini partoriti, le verdure ed i fiori piantati.

Tutto esisteva perchè era così che doveva essere.

 

Dopo tre lunghe e faticose ore di cammino, mi ritrovai davanti all'ennesimo edificio grigio. L'unica cosa che lo differenziava dagli altri era l'elegante semplicità della sua forma.

Era il campanile di una chiesa e si stagliava alto contro il cielo perennemente nero e privo di stelle.
Entrai e un brivido di inquietudine mi scese lungo la spina dorsale.
Per arrivare nella piccola stanzetta che avevo scoperto dieci anni prima c'era un'infinita successione di scalini ripidi, storti e stretti.
Riguardandolo a distanza di tempo, quel posto era ancora più tetro e terrificante.
Mi sedetti per terra, riposandomi un pò.
Vidi di nuovo il suo viso.

Aveva le guance rosse e sorrideva felice. I capelli erano disordinati e gli occhi erano lucidi di sonno e di risate.
Il nero della sua pupilla sembrava vedermi ancora, ma la mia immagine si fermava lì, al centro dei suoi occhi, senza riuscire ad arrivare al suo cuore.
Era talmente bella.
Mi uccideva vederla così.
Stava bene, anche senza di me, mentre io, senza di lei, ero alla stregua di una bambola di pezza, rovinata e rotta.
Il dolore che mi provocò quell'ennesima dimostrazione della mia inutilità mi diede la forza di iniziare la scalinata.


Non ero arrivata neanche a metà e già mi sentivo spossata.

Non potevo fermarmi lì.

Gli scalini erano instabili e non avrebbero retto il mio peso a lungo. Potevo solo continuare a mettere un piede davanti all'altro.

Fare forza sulle gambe, tendere i muscoli, respirare profondamente.
Tutto meccanico, doloroso, semplice.
Dopo più di un'ora, mi ritrovai davanti la porta di legno di quella stanza che mi aveva accolta tante volte, quando ero una bambina.
La spinsi con delicatezza e mi beai di quella visione.
Il soffitto a volta era ricoperto di specchi, dai quali provenivano dolci raggi di sole, le pareti erano colorate di arancione, di giallo, di verde e di azzurro e il pavimento era candido.
Lo macchiai di rosso.
Era così bello il rosso quando il sole lo illuminava. Desideravo che tutti potessero vedere quello spettacolo.
La stanza era piena di oggetti, oggetti veri, provenienti dal mondo giusto.

Oltre ad un altro paio di specchi a parete, c'erano libri e animali di stoffa – pupazzi, li aveva chiamati Soleil una volta – e bambole e tutù e carillon e cianfrusaglie, non più funzionanti, ma meravigliose.
Guardai la mia immagine riflessa. I miei capelli sembravano un pò più biondi, i miei occhi un pò più blu, le mie pupille un pò più nere.
Non ero veramente io.

Era il riflesso di Soleil che si univa con il mio, creando un effetto che mi lasciava senza fiato.
Avrei voluto poter essere come Soleil.
Lei era felice.

Viveva in un mondo pieno di suoni e di colori.
Pieno di luce.
Sapevo, però, di non poter restare nel suo mondo troppo a lungo.

Non se lei fosse stata viva.
L'unica soluzione era ucciderla.
Anche se faceva male solo l'idea, anche se non era giusto, anche se non era ciò che le brave ragazze facevano.

Era la condanna di quelli come noi.

Obbligati a vivere attraverso i Giusti.

Obbligati a restare fermi finchè loro non si muovevano, obbligati a stare in silenzio.

Obbligati ad esistere, essere vivi, in un mondo che di vivo non aveva nulla.

Io non volevo essere così. Volevo sentire, volevo vedere, volevo vivere, vivere davvero, fare esperienze e ridere, gridare, saltare, divertirmi.

Non era giusto che solo Soleil potesse fare tutto questo.

Se l'avessi uccisa avrei potuto prendere il suo posto nel mondo giusto.

Avrei avuto quello che desideravo.

 

 

Soleil

 

Il flash mi accecò per un istante.

Una foto di famiglia.

Zia Dory aveva insistito per fotografarci tutti e tre insieme.

Era il compleanno della mamma e lo stavamo festeggiando. C'era la torta, c'erano le chiacchiere leggere e spensierate e c'era da bere.

Non che i miei bevessero tanto, ma non si rifiutavano una birra o un bicchiere di vino quando capitava l'occasione.

Mamma era un po' brilla e continuava a ridacchiare, aggrappandosi al gomito di papà, che la sosteneva per miracolo.

Era bello vederli felici e rilassati.

Ricordavo un tempo in cui non facevano altro che litigare, ma per fortuna erano riusciti a sistemare le cose.

-Com'è andata oggi a scuola?- mi chiese mia zia, tirandomi per la manica della maglietta e costringendomi a sedermi accanto a lei sul divano.

Dory aveva gli stessi capelli biondi di mia madre e occhi verde prato. Era più giovane di lei di tre anni, ma molto più matura, a mio parere.

Mamma era un po' infantile a volte, irresponsabile e con la testa tra le nuvole.

-Bene.- risposi sorridendo. Papà mi mise un calice di spumante in mano e lo fece tintinnare con il suo. Ne presi un piccolo sorso, appoggiandolo poi sul tavolino da caffè.

-C'è qualche bel ragazzo nella tua classe?- domandò, alzando le sopracciglia e sorridendo maliziosa.

Io ridacchiai, scuotendo la testa.

-No.- dissi.

Nessuno sapeva che mi piacevano le ragazze.

Non ero pronta a fare coming out, perciò dovevo continuare a sopportare quelle stupide domande.

-Vedrai che prima o poi troverai qualcuno che fa al caso tuo. Sei una bella ragazza Sole, non disperare!- mi incoraggiò, battendomi una leggera pacca sulle spalle.

E chi si dispera!? Avrei voluto risponderle, ma mi trattenni e sorrisi educatamente.

 

Proprio come nella favola di Cenerentola, a mezzanotte in punto la festa finì.

Dory tornò a casa sua e papà portò a letto la mamma, che a malapena si reggeva in piedi per il sonno e per l'ebbrezza.

-Buonanotte tesoro.- mi disse, baciandomi la fronte.

-Notte papà.- lo salutai con la mano e mi infilai nel bagno interno alla mia camera.

Le piastrelle erano azzurre e rilassanti. Lanciai un'occhiata al mio riflesso, ma me ne allontanai appena vidi quella scintilla bianca nelle pupille.

Non volevo ricaderci.

Non di nuovo.

Mi bastavano gli incubi, per ricordarmi di quel luogo, di quel mondo sbagliato.


Mi concessi una doccia veloce prima di infilarmi sotto le coperte.
Quest'anno, settembre era clemente e portava con sé una brezza leggera e fresca.
Non ero mai entusiasta quando si trattava di dormire, ma avevo imparato che fare i capricci avrebbe solo allarmato mia madre più del necessario.
Ero grande ormai e potevo combattere da sola i miei brutti sogni.
Spensi l'abat-jour che tenevo sul comodino e restai al buio.
Dalla mia finestra si vedeva la luna, era quasi piena ed illuminava dolcemente la città notturna.
Chiusi gli occhi, abbandonando la testa sul cuscino.
Ripensai alla seduta con la dottoressa Fannie Hewett.

Era brutto doverle mentire.

Era brutto dover partecipare a quelle sedute, in primis.
Parlare di lei, di Amelie, sentire come gli altri la sminuivano, "immaginaria", "malsana proiezione del mio cervello", "scappatoia da una realtà solitaria", "spiegazione irrazionale di un coma durato un mese"; non potevo negare che mi infastidisse.
Sebbene avessi imparato a mentire ai miei cari, dicendo che sapevo che non era reale, io continuavo a credere in Amelie.
Lei era la mia pioggia, era le nuvole grigie che offuscavano la mia luce, la luce del Sole.
Nessuno mi avrebbe mai convinto che lei non esisteva.
Nemmeno la dottoressa Hewett, con la sua dolcezza, la sua razionalità e la sua comprensione.
Sentii le palpebre pesanti e non potei più rimandare il sonno.

Una luce fredda e dolce illuminava la piccola stanzetta.
Le pareti erano colorate e coperte da scaffali pieni di oggetti da bambini, rotti e nostalgici.
Al centro, in piedi, c'era lei.
Era bella, proprio come me la ricordavo, e inquietante.

Allungai una mano per sfiorarla. La sua pelle era fredda e liscia.
Sobbalzò e si volse. I suoi occhi color ciano si spalancarono e le pupille bianche si dilatarono per la sorpresa, diventando grandi punti di luce in mezzo al mare che erano le sue iridi.
Vidi una lacrima scorrerle lungo il viso e la sentii gemella alla mia, calda, piena di dolore, fastidiosa. Le asciugai entrambe con un gesto della mano e le sorrisi.
Le sue dita, tremanti, corsero al mio volto e lo sfiorarono.
-Mi dispiace.- dissi, abbracciandola strettamente. La sentii tremare tra le mie braccia, prima di sciogliersi in un pianto disperato.
-Sei stata via così a lungo.- sussurrò tra i singhiozzi.
Sentivo la sua disperazione rispecchiarsi nella mia.
Faceva male. Tanto male.
Come tutte le volte.


Mi misi a sedere di scatto.

Le lacrime mi bagnavano il viso e offuscavano la vista.
Ero dannatamente stanca di vederla così.
Ero stanca di dover fingere che la cosa non mi provocasse dolore.
Ero stanca di non poter stare con Amelie come quando eravamo piccole.
Gli altri non volevano capire.

Noi eravamo le due metà di una stessa persona, dovevamo stare insieme!
-Ancora incubi?- mio padre si affacciò in camera mia. Gli occhiali inforcati e una penna tra le dita affusolate.
-No, dovevo bere. Che ore sono?- chiesi.
-Le sei. Hai ancora un'ora per dormire.- mi disse, sorridendo.
-Tu hai dormito?- domandai.
-Non molto. Mi ha colto l'ispirazione e, sai com'è...-
-Cogli l'attimo!- finii per lui, ridacchiando.
-Esattamente! Dormi ancora un pò tesoro.- mi consigliò. Soffiò un bacio nella mia direzione e tornò nel suo "Angolo Creativo".
Non avrei sopportato di rivederla, perciò mi alzai e mi feci un'altra doccia.
L'acqua bollente mi sciolse i nervi tesi e i profumi fruttati dello shampoo e del bagnoschiuma addolcirono i ricordi dell'ennesimo sogno.
Era stato diverso, questa volta. C'era luce, c'erano colori. Non era stato il solito paesaggio tetro e scuro che vedevo tutte le notti.
Mi asciugai i capelli e mi vestii con calma, indossando un paio di jeans rossi e una maglietta verde acceso, a maniche corte, sopra la quale misi una felpa nera.
Non ero mai stata brava nell'abbinare i colori, ma l'effetto finale non fu poi così terribile come temevo.
Feci colazione con una tazza di latte tiepido e caffè, in cui inzuppai un muffin alla vaniglia.
Poiché avevo ancora venti minuti di tempo prima di dover uscire di casa per andare a scuola, decisi di appoggiarmi sul divano. Mi misi comoda e mi infilai gli auricolari del lettore mp3.
La musica era piacevole e mi dava la carica.

Incontrai di nuovo Corvette nell'atrio e si offrì di accompagnarmi in aula.
-Il terzo anno è il più divertente, a mio parere, ma il più difficile. Se hai bisogno, non esitare a chiedermi aiuto.- mi disse, sorridendo in quel modo che mi faceva diventare le ginocchia come gelatina appena fatta.
-Oh, certamente... Grazie mille.- bisbigliai. Mi sentivo il viso accaldato e sapevo bene di essere arrossita.
-Se non te ne sei accorta, era un modo per dirti che mi farebbe piacere vederti fuori da scuola.- mi sussurrò all'orecchio prima di lasciarmi davanti alla porta della mia classe.
-Hai fatto colpo, vedo!- esclamò Valkirya, circondandomi le spalle con un braccio.
-Oh, taci!- tuonai io, imbarazzata, correndo a sedermi al mio posto e iniziando a tirare fuori i quaderni che mi sarebbero serviti e l'astuccio.
-Eddai, è una cosa carina.- disse lei, sedendosi sul mio banco e sporgendosi su di me.
-Sarebbe più carina se io non fossi goffa come un cazzo di rinoceronte morto da settimane!- mi lamentai.
-Come la fai tragica. Magari le piaci proprio per questo.- le sue parole mi mandarono in pappa il cervello.
Piacevo a Corvette.
Piacevo alla ragazza più bella della scuola.
I miei pensieri vennero interrotti dall'arrivo del professore di matematica.
Era nuovo, perciò dovemmo fare tutte le presentazione e le tipiche cose che si facevano in quelle situazioni.
Si chiamava Victor Marshall, aveva trentasette anni e viveva appena fuori città, anche se le radici della sua famiglia erano al sud - e questo spiegava il suo buffo accento.
Espose il programma di algebra e geometria, con nostro estremo dispiacere, e accennò qualche argomento di fisica.
Nulla di troppo rilevante.
La sua ora si concluse così, senza che avessimo fatto nulla, ma, d'altronde, era solo il secondo giorno.
Dalle nove alle dieci, restò con noi la professoressa di inglese, che volle sapere qualcosa delle nostre vacanze.
Poi fu il turno di letteratura, filosofia e religione.

Valkirya decise di aspettare con me che arrivasse l'autobus. Lei era vicina a casa e poteva fare il tragitto a piedi, ma io non avevo questa fortuna.
-Non sei ancora arrabbiata con me per prima, vero?- si accertò dopo quasi dieci minuti di silenzio.
Io sorrisi e feci no con la testa.
-Allora cos'hai? Mi sembri triste.- disse, appoggiando la sua mano sulla mia, appoggiata alla panchina che stava giusto di fronte alla fermata del bus.
-Brutti sogni. Mi scombussolano un pò.- confessai.
-Ancora Amelie?- chiese lei, preoccupata.
-No, no. Non preoccuparti.- ridacchiai senza allegria e mi appoggiai con la testa sulla sua spalla.
Non ci dicemmo più nulla finchè non arrivò l'autobus.
-A domani stella.- mi salutò, baciandomi la tempia prima che mi alzassi.
-A domani.- dissi io.
Presi posto di fianco al finestrino, mi infilai gli auricolari e guardai il paesaggio che sfocava attorno a noi.

  
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