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Autore: Gaia Bessie    30/08/2013    2 recensioni
«Penso di essere nata perché tu avevi bisogno di qualcuno»
Simon non ha mai pensato cosa sia dover fare i conti con l'immortalità. Cosa voglia dire passare la vita a vedere tutti gli altri morire, senza affezionarsi mai a nessuno.
"E se nessuno vuole ucciderti e tu devi morire, significa sempre che esiste una sola scelta, se sei abbastanza coraggioso da compierla. "
[Simon/OC, Accenni di Jace/Clary, OC a profusione| Accenni di incest| Angst]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clarissa, Jace Lightwood, Nuovo personaggio, Simon Lewis
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Incest
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Doverosa premessa: Non ho ancora letto l'ultimo libro della saga, quindi questa shot è stata scritta (per così dire) alla "cieca". Di conseguenza si dirama un what if che non so come si leghi alla storia originale. Di conseguenza, preciso le seguenti cose (causa quinto libro non letto, meglio esplicitare): Simon e Izzy non stanno insieme, proprio per niente. Sebastian è morto, defunto e sepolto (quindi tagliamo anche la fine di "Città degli angeli caduti"). Potrebbe essere presente una buona e notevole dose di OOC, anche se io l'ho vista come un evolversi del personaggio di Simon (gente, si parla di anni e anni! Non puoi rimanere sedicenne nel pensiero per anni), ma per sicurezza ho inserito l'avvertimento. Detto questo, vi lascio alla mia prima fic nel fandom (sperando che non sia un disatro). 
 


 


Others
{Memories remain}



Mi avevano detto che, quando hai l'eternità davanti, il tempo passa fin troppo in fretta: i giorni e le ore si raggrumano in una massa indefinita di tempo che fugge via, finendo solo per condensarsi nell'unicità di un ricordo sepolto fra i suoi simili; e tu un giorno ti alzi convinto di vivere in un altro tempo e in un altro luogo. E scopri che tutto è cambiato, che solo tu sei identico a com'eri prima, mentre magari lì fuori nulla è più come prima. Ti addormenti durante un'estate lenta e torrida, solo per svegliarti a dicembre inoltrato: ti si staglia davanti una landa immensa e desolata, come i tuoi ricordi, cancellata da un cataclisma che non hai saputo prevedere. Fa freddo, ma non lo senti, e la neve crolla sul terreno in delicati bioccoli che non hai la forza di spazzar via. Un po' ti ricorda un'infanzia talmente lontana da sembrare sbiadita, quando era tutto palesemente più semplice e diverso e non dovevi fare i conti con il trovarti nell'epoca sbagliata e con le persone sbagliate. Ne ho visti tanti, di luoghi e uomini, così tanti che non è possibile ricordarli tutti, né lo vorrei, con tutta probabilità. Essere immortali è anche questo, oltre alla certezza inossidabile che non cambierai mai. La morte.

Corre e non ti raggiunge mai, ma intercetta tutti quelli che erano con te. E tu vivi sempre nella perenne sensazione di aver perso qualcosa, qualcuno, che magari nemmeno ricordi. Solo perché tu sei destinato a rimanere in movimento con il continuo avanzare della storia, mentre loro rimangono minuscoli punti – e nomi e volti – sepolti fra di loro, in un continuo fondersi di ossa e ricordi. Ma tu rimani sempre vivo, di solito, e non puoi farci niente.

 

*

 

La mia esistenza si è condensata in un numero indefinito di nomi e fatti, che mi tornano alla mente quando meno me lo aspetto. Solitamente si palesano in quella sfilza di nomi che torna sempre indietro, colpendomi come una lama nella carne: Clary, Elenie, Astrid, Céline, Jocelyn, Lilian. E poi di nuovo Clary e via dicendo, in un continuo ossessionarmi di ricordi che s'intrecciano a fatti nuovi per non farsi più distinguersi. C'è chi ancora non ha compreso che i nomi, a loro modo, sanno essere potenti quanto l'arma più affilata, se ben utilizzati possono distruggere qualsiasi cosa. In tutta quella massa infinita di tempo che mi è scivolato addosso, non ho fatto altro che notare il generico susseguirsi di un'alternanza di nomi sempre identici, di epiloghi simili per quelle maledizioni imposte ai figli dai genitori.

Lo capisci quando, un giorno, cominci a vagare per il cimitero e conosci tutti quei nomi sulle lapidi, trovi sempre un nome o un cognome che ti suona familiare. E realizzi che magari non hai mai dimenticato, hai solo tentato di farlo per non dover sentire quella spiacevole morsa al petto quando inconti chi ha ereditato il nome di qualcuno che conoscevi. Continui a vagare in una fitta nebbia, densa di ricordi, avanzando senza una meta ben precisa, almeno finché non lo senti. Come una puntura, il pizzicore vagamente fastidioso di una vecchia coperta di lana, il motivo che ti spinge a voltarti indietro, anche se solo per pochi istanti. Quando vedi qualcuno che credi di conoscere e ti fermi, incerto, e cominci a spogliarti di quel grigiore che si accumola sulla pelle come uno scudo indistruttibile, ti sfogli come una margherita e disperdi nella nebbia i tuoi petali. E, alla fine, magari scopri una nuova pelle sotto quella protezione che ti eri gettato sulle spalle, una nuova persona che potrebbe somigliarti.

Succede che finisci sempre per tornare indietro, lo sguardo fisso su una bambina di appena due anni, i capelli rossi che scintillano come una maledizione. Clary. E i suoi occhi dorati. Corri verso di lei, sentendoti un po' il bambino di dieci anni perennemente innamorato della sua amica del cuore, per raccoglierla dalla polvere. E, in quel momento, cominci a capire che forse, se sei rimasto vivo, è perché hai uno scopo.

 

*

 

Erano fin troppo belli, insieme: come quei fiori delicati che fioriscono prematuramente e muoiono nell'innocenza più assoluta, sepolti da candidi fiocchi di neve. Non potevano durate, esattamente come quei boccioli, che crescono fra le crepe e poi muoiono da soli. Jace e Clary si sono consumati davanti alla luce tremolante di una candela, proprio loro che credevo che non mi avrebbero lasciato mai. Troppo presto, in ogni caso, pochissimo tempo passato per non lasciarmi quel senso di rimpianto a corrodermi il cuore: si erano sposati appena maggiorenni, come si aspettavano tutti, senza aspettare nemmeno il consenso di una Jocelyn tutt'altro che incredula.

Forse lo ricordano in pochi, ma io c'ero, perché era prima che sparissi nel nulla per osservarli da lontano, tutti quanti. Quel giorno, erano bellissimi entrambi, sembrava che una fata li avesse cosparsi di polvere magica, come nelle fiabe. Sorridevano continuamente, anche Jace che aveva smesso quel sorriso asimmetrico che mi faceva sempre venir voglia di schiaffeggiarlo. Era un giorno di dicembre, la condensa che appannava i vetri e ti rimaneva sempre un po' addosso, in un abbraccio spettrale che non ti scrollavi mai via. Non nevicava, le nuvole sembravano intenzionate a mantenere un'atteggiamento avaro nei nostri confronti, negandoci la soddisfazione dei candidi bioccoli che sono nell'infanzia di tutti. Nostro era solo quel freddo pungente che ti gela le ossa – io non lo sentivo – e che preannunciava l'arrivo di una nevicata che però non arrivava mai. Forse l'avevo capito in quel momento, quando Clary si era unita eternamente a Jace, che non sarebbero durati, indipendentemente dalla vita relativamente breve che conducevano mediamente tutti i Cacciatori. Erano troppo forti, belli e giovani per poter abbellire il mondo per troppo tempo: come quei fiori che sbocciano a dicembre e muoiono sotto la neve, fra le crepe del marciapiede, senza farsi notare. E forse lo sapevano anche loro, in quella loro fretta di trascorrere insieme tutto il tempo del mondo, probabilmente avevano già cominciato a concepire un mondo che non li comprendesse entrambi. Lo si vedeva nella durezza dello sguardo di Jace quando Clary – sua moglie – si allontanava anche solo per pochi attimi, e lo si vedeva nel sorriso un po' malinconico di Clary che esibiva quando qualcuno la portava via da suo marito. Si erano sposati in tutta fretta, con le rune marchiate sulla pelle e gli anelli – tutte le promesse che mi aveva fatto, in un altro tempo, in un altro luogo. Infrante e contornate dal velluto blu della scatola, giacevano in quei cerchietti dorati che non riuscivo a guardare – che scivolavano dolcemente lungo le dita.

Per loro, il conto alla rovescia, era cominciato allora: durante un giorno di dicembre che non ricordo, senza neve, con gli anelli ancorati sulle dita. Felici. Lo sarebbero stati per troppo poco tempo.

 

*

 

Non li vidi per un po' o solo saltuariamente, con la cadenza irregolare che avevano assunto da quando avevano cominciato a comportarsi come un'unica persona: Clary e Jace viaggiavano, combattevano e s'irretivano a vicenda in quell'amore tanto tormentato che non riuscivano a mettere un po' da parte. Crescevano, riempivano i vuoti che la guerra aveva lasciato, si fasciavano a vicenda le ferite, si guardavano le spalle. E io cominciavo già a rendermi conto che il tempo mi scorreva addosso con troppa velocità, lasciandomi sempre identico, l'eterno sedicenne che continuava a domandarsi il canonico “cosa sarebbe successo se...?”. Se, se, se... forse non lo sapevo nemmeno io, in cosa speravo, quali ricordi cercavo di portarmi in un'altra vita, a cosa cominciavo già ad aggrapparmi per non scivolare via. Loro erano già abbastanza lontani da me, diversi, più grandi in quei sorrisi che li illuminavano quando si sfioravano accidentalmente. Quando Clary cominciò, improvvisamente, a indossare abiti più larghi e a uscire sempre di meno, così come Jace che la vegliava con una delicatezza che stonava ampiamente con la forza che gli si leggeva nel volto. E io continuavo a dirmi che era troppo presto, era passato veramente troppo poco tempo per vedere Clary sorridere e sussurrarmi che lei e Jace aspettavano un bambino. Come uno sciocco, io la vedevo l'eterna sedicenne che non era più, sorvolando sulle forme arrotondate e il sorriso più consapevole. E l'anello, l'anello che sembrava urlarmi che il tempo era passato senza che io potessi farci nulla, che qualcosa si era portato via l'ennesimo pezzo di Clary e non l'avrei più vissuto.

Passavo la maggior parte del tempo con loro, anche quando Clary cominciò a rintanarsi nell'Istituto perché Jace non voleva che corresse rischi inutili, quando cominciò a passare le giornate ad annoiarsi e accarezzare il vente prominente e canticchiare canzoncine per bambini. Farneticava sempre sul fatto che sarebbe stata femmina, una figlia, perché lei era convinta di essere la mamma adatta a una bambina: con un maschio non avrebbe saputo come approcciarsi, dichiarava, soprattutto se fosse stato – in verità ci sperava, credevo. Ci sperava e un po' lo temeva, come le insicurezze che l'avevano assalita – una fedele riproduzione di Jace. Lei era la mamma di una bambina, lo sapeva, senza tener però conto che suo marito avrebbe avuto una certa difficoltà a entrare nel mondo pieno di pizzi e bambole di pezza di quella figlia che Clary avrebbe certamente cresciuto nella bambagia. Come tutte le madri, d'altronde, lei non avrebbe fatto eccezione a una regola vecchia di secoli.

Aveva perfino scelto il nome, quando una sera si era svegliata dopo un sogno leggero come una nuvola di tulle: Céline, come la madre di Jace, morta ancora prima di riuscire a partorirlo. E lei avrebbe chiamato sua figlia Céline nell'ennesima manifestazione d'amore per suo marito, nell'ennesimo sacrificio che s'imponeva da sola per dimostrargli – come se ce ne fosse davvero bisogno – che l'amava sopra ogni cosa. E lei avrebbe anche chiamato sua figlia Céline, Céline Lightwood, ma Jace non aveva voluto. Probabilmente lui lo sapeva bene, che i nomi hanno un valore, che incidono su pietra il futuro di chi nasce sotto una determinata scelta. E le aveva chiesto di scegliere un altro nome, perché non voleva un'altra Céline sulla terra, non di nuovo. Clary era stata accomodante – cosa rara, effettivamente, durante il proseguirsi della gravidanza – e insieme al marito aveva scelto un altro nome. Aveva già chiamato sua figlia Elenie perché lo sapeva, che era sicuramente una femmina. Lo era davvero.

Ma Clary avrebbe avuto davvero poco tempo per rallegrarsene, anche se né lei né Jace se ne rendevano davvero conto.

 

*

 

Durante quei tempi, Jace lo vidi solo per una manciata di volte, e le altre era solo una figura di contorno, il cavaliere silenzioso che gettava sempre una protezione silenziosa sulle spalle di Clary. Un giorno scomparve nel nulla, a rendere sicuro il mondo per sua figlia, sparito nel nulla con un biglietto che gli ustionava le mani.

Clary non pianse. Nemmeno una volta si lamentò, per tutte quelle volte in cui si era sentita costretta a sentire la mancanza di Jace. E poi lui tornò, venuto dal nulla, sano e salvo. E sembrava che dovesse andare tutto bene. Lo pensavamo.

 

*

 

Si presentò durante un giorno brumoso di ottobre, stringendo al petto un fagotto avvolto in una coperta vecchia e logora, gli occhi spalancati e le ciglia umide di pioggia: non dubitai nemmeno per un secondo che fosse acqua piovana perché, d'altronde, nessuno aveva mai visto Jace piangere. E poi fu tutto dolorsamente chiaro, appena lui mi mise fra le braccia quel peso così vivo, quando riuscì finalmente a notare l'aura di disperazione che l'avvolgeva. Sembrava una vecchia storia riavvolta al contrario, Céline che prendeva il posto di Stephen in un comico deja-vu al contrario. E Jace era distrutto, mentre già cominciava a ribellarsi all'idea di quel mondo nuovo.

Perché Clary era morta, mentre dava alla luce la bambina. E Jace sapeva che non sarebbe mai riuscito a farle da padre.

«Portala dai Lightwood» mi sussurrò, con un sorriso congelato sul volto. «Stai con lei, almeno per un po'. Raccontale di quanto fosse meravigliosa sua madre».

«Stai fuggendo, Jace?» furono le uniche parole che mi uscirono dalle labbra, perdendosi nel freddo secco dell'aria. La bambina dormiva, avvolta nella coperta. «Devo raccontarle di come suo padre l'ha abbandonata?» ero risentito, irritato dalla sua improvvisa codardia: stava scappando e Clary era morta.

Ma lui non c'era già più, era davvero sparito nei labrinti di strade e luoghi, per andare chissà dove. Era fuggito lasciandomi sua figlia, una bambina minuscola, con una delicata pelurisa bionda sulla testa e occhi del colore dello sciroppo d'acero. Il ritratto di Jace, come avrebbe voluto Clary, anche se non l'aveva mai detto. Elenie, una bambina bellissima, senza né madre né padre, poiché escludevo che Jace si sarebbe fatto vivo. Fuggì che era metà ottobre e io non l'avrei visto mai più.

 

*

 

Non ricordo molto dell'infanzia di Elenie: un'accozzaglia d'immagini sfumate di qualcosa che probabilmente non volevo vedere. Penso che l'avrei considerata maggiormente se avesse preservato qualcosa di Clary, esclusa la dolcezza del profilo, talmente diversa dall'insostenibile durezza di Jace; o probabilmente avrebbe solo aperto delle ferite che non si sono mai chiuse. Non fu da me, quel comportamento, l'apatia che mi avvolse come una cappa che non lascia scampo, chiudendomi in un altro mondo. Per Elenie non c'era posto, forse perché mi ricordava troppo suo padre – lo invidiavo perché lui l'aveva raggiunta, Clary. Lo sapevo e non riuscivo a imitarlo. Non ne avevo il coraggio – in ogni suo gesto, come quando rubava la frusta a sua zia Isabelle e la usava con una grazia di ballerina, che proprio non sapevo identificare.

Cresceva, Elenie, sotto i miei occhi, di pari passo con l'unico figlio di Isabelle – di chi fosse, non so dirlo: prese il suo cognome, non incontrò mai suo padre. Anche lui – sotto il mio eterno aspetto di sedicenne della passata generazione. La vidi ridere, innamorarsi e fare suo quel modo di ritrarsi quando Jonathan – Jace. Isabelle non aveva compreso quanto fosse pericoloso scagliare maledizioni sui propri figli – la baciava, come faceva Clary, ogni volta. E io la guardavo, ma restavo sempre sullo sfondo.

 

*

 

Fu un po' un finale previsto e da fiaba: Elenie e Jonathan si sposarono giovani, come i genitori di lei, come la madre di lui quando scoprì che non tutte le bravate finiscono bene. Fu allora che, in contemporanea col crescere di quella bambina a cui mi ero rifiutato di legarmi, cominciai ad allontanarmi, a vagare in altri luoghi: forse mi aspettavo di trovare Jace, ancora nel fiore della sua giovinezza, con Clary, circondato da bambini coi capelli rossi e gli occhi dorati. Anche se sapevo che non avrei trovato nulla, se non ricordi scomodi, così cominciai a lasciar scolorire i ricordi della mia vita umana. Accetta di essere morto, mi avevano consigliato, e solo in quel momento cominciai a fare i conti con la mia esistenza immortale. Mi ero dovuto gettare alle spalle i miei amici, la figlia di Clary, tutto quanto.

Forse non sapevo nemmeno io, perché stavo fuggendo. In realtà non riuscivo a fare i conti con quella dolcezza contenuta nel profilo di Elenie.

 

*

 

In qualche modo, venni a sapere che Elenie aveva avuto due figli, due gemelli: Astrid e Zane Lightwood, due bambini che io non vidi mai. Ho conservato una vecchia foto, dove Astrid non ha nulla dei genitori, nei lineamenti marcati e negli occhi e capelli scurissimi. Di Zane ho un frammento d'immagine, un ragazzo dai lineamenti dolci e delicati, ma senza nulla che ricordasse in maniera particolare i suoi nonni. Li cercavo, Clary e Jace, nei loro nipoti: scrutavo le poche foto che avevo ottenuto, che Elenie era riuscita a mandarmi senza il mio consenso, cercando qualcosa che mi spingesse a tornare. Una chioma rossa, il profilo dolce di una bambina. Ma non c'era nulla.

Rimasi sul margine, in quella storia, accontentandomi di brevi ritoni per apprendere sporadiche notizie: la dipartita di Isabelle, di Alec, di Elenie, di Jonathan, della piccola Astrid a soli dieci anni. La morte li aveva scelti, ricordo che pensai, la morte aveva scelto di perseguitarli. L'unico superstite fu Zane, il piccolo e indifeso Zane a portare avanti la linea di sangue, a permettermi di pensare che avrei potuto rivedere un'altra Clary. In un altro tempo, in un altro luogo. Ma non la trovavo.

I luoghi dove cercarla sparivano con la stessa facilità con cui il vento soffiava: sua figlia era morta, dilaniata da un Demone – perché il sangue di Shadowhunters è più una maledizione che una fortuna – con suo marito, sua nipote era morta da bambina. Suo nipote si era sposato e aveva generato una bambina piccolina e malaticcia, con una rada peluria ramata e occhi azzurri. Céline, come Clary avrebbe voluto chiamare sua figlia. Una bambina minuscola, con mani e piedini perfetti, decisamente troppo delicata per poter tollerare la maledizione del sangue di Clary e Jace. E io continuavo a cercare, in quella massa di nomi e morti, sparizioni e punti che si fondevano fra di loro. Ma non trovavo la mia migliore amica e dunque perseveravo nel fuggire, convincendomi che non avrei vissuto mai più.

 

*

 

Delle seguenti due o tre generazioni, non ricordo poi molto: furono una serie piuttosto numerosa di maschi sani e forti, usciti dal ventre di Céline per avventurarsi in un mondo che non sapevano essere così duro da tollerare. Non ne conosco nemmeno i nomi, ma ricordo vagamente delle sfumature di rosso di capelli o oro negli occhi, sempre le tonalità sbagliate che mi spingevano ad allontanarmi sempre di più. Non m'importava più, conoscere ciò che rimaneva di Clary, per un po' mi convinsi che non l'avrei mai ritrovata. Non ci speravo più. Mi rimaneva solo un ricordo sempre più lontano e irraggiungibile, un sorriso che nessuno mi rivolgeva da un po'. Cercavo Clary in tutte le donne che incrociavano il mio cammino, prendevo le distanza dagli uomini dai capelli biondi – anche se un po' comprendevo quel senso di colpa che aveva provato Jace, quando mi aveva guardato con aria colpevole. Come se fosse stato lui a ucciderla – anche se ero già consapevole di provare un terrore irrazionale per un incontro che non avrebbe avuto luogo. Jace era morto, Clary era morta, tutti se n'erano andati senza lasciare traccia: perfino Magnus si erano perse le tracce, forse io avevo voluto perderle, da quando Alec ci aveva lasciati tutti quanti. E io rimanevo al mio posto, immutato, mentre il tempo mi scorreva accanto. Aspettavo qualcosa – qualcuno – che mi spingesse a ripercorrere i miei passi. Non arrivava mai.

 

*

 

Non ricordo quando tornai: erano passati altri anni, anche se non ho mai compreso bene lo scorrere del tempo, un'entità vagamente estranea che si è sempre limitata a lasciarmi esistere. È questa, dunque, l'eternità. Il non ricordare nulla, perché mille battaglie finiscono per somigliarsi un po' tutte, e quello che non rivivi scolorisce inevitabilmente, e tu sei sempre uguale a te stesso. E non so perché ebbi il coraggio di tornare indietro, in cosa speravo, perché avevo voglia di risentire quei nomi noti appartenenti a persone che non conoscevo: c'era stata una Jocelyn e poi un'altra Céline, intervallate da una Lilian. Eppure, quando arrivai, ad accogliermi non c'erano bambine di nome Jocelyn o Céline o Lilian. Il nome mi colpì prima dell'interezza della visione, un coltello che m'incideva quel nome nella memoria.

Clary. Una bambina con una fitta massa di riccioli rossi che rideva, seduta sul prato, tenuta d'occhio da sua madre. E io ricordo solo che mi fermai a pochi passi da lei, disorientato. Aspettai con ansia che alzasse lo sguardo. Aveva gli occhi del colore dello sciroppo d'acero ed era un bene, perché non avrei potuto sopportare una seconda Clary. Mi nascosi fra gli arbusti prima che lei riuscisse a vedermi, cosa che feci per gli anni a venire: la osservavo da lontano, mentre cresceva e mi ricordava fin troppo la prima Clary. La mia Clary, la mia migliore amica, la ragazza che avevo amato – per cederla a Jace, convinto di meritarla ben più di me. E la vidi crescere, in un battito di ciglia, troppo simile a una persona sepolta da anni: era una sensazione di già vissuto che mi assaliva quando la guardavo rimanere così minuta da sembrare una bambina, i capelli rossi sempre tenuti fermi da una matita. E io ero lì, che cercavo un posto nella sua vita, che cercavo di farmi accettare da lei come quell'amico di famiglia che era stato via per un bel po' di tempo. Ma forse lo sapevano tutti, che il Clary vedevo lo spettro del mio ricordo: lo sapeva Céline, quando mi appoggiava sua figlia sulle ginocchia – e non ne compredevo il perché dato che ciò che conosceva di me era una vecchia foto di famiglia – e mi sorrideva con aria malinconica. Forse lo sapeva anche Clary bambina, quando mi donava una perfetta replica del sorriso di Céline, come se capisse. Forse lo sapeva davvero.

 

*

 

«Simon, perché le farfalle non possono parlare?» erano le domande con cui mi assillava Clary quando entrò nei fatidici dieci anni. «Simon, cosa succederebbe se i pesci non fossero in grado di nuotare?» un continuo domandarmi cosa assurde, fantasie. «Simon, perché viviamo fra i mondani?».

A quella non rispondevo mai, incerto, perché Céline aveva scelto di prendere le distanza dagli altri Cacciatori. Una persona sbagliata, avevo captato da un discorso che aveva intrattenuto con suo fratello, l'uomo sbagliato. E così lei si era rinchiusa fra i mondani, con sua figlia. Ed era tutto troppo simile.

«Simon, perché stai sempre qui con me?» chiedeva Clary nella sua innocenza da bambina. «Perché il mio papà non viene mai?».

Me lo spiegò la stessa Céline, in risposta alle mie continue domande, un giorno di aprile in cui l'aria era fresca e profumata di fiori. Si avvicinò a me con fare incalzante, un sorriso ironico sulle labbra – certe cose non cambiano mai – e lo sguardo denso di sottintesi.

«Era mio fratello» disse, semplicemente, lo sguardo affilato come una lama. «Il padre di Clary è mio fratello. Per questo me ne sono andata».

Ricordo solo che barcollai, cercando disperatamente di carpire una boccata d'aria che non mi serviva. L'unica cosa che pensai fu un disperato “non di nuovo”. Eppure la sofferenza, così come la morte, sembrava decisa a perseguitare una famiglia già sufficientemente distrutta.

«Facciamo che sei tu, il mio papà?» mi chiedeva Clary, ogni tanto. «Facciamo che tu sei il mio papà, anche se non hai i capelli rossi».

Giocavamo così per ore, Céline in agguato sul divano, guardava sua figlia come se avesse paura di vederla rompersi. Ma non succedeva mai, Clary era forte come lo era stata la sua omonima, poteva correre o disegnare per ora prima di spalancare gli occhi e sbadigliare per la stanchezza. E continuava a domandare, come se nella sua testa ci fosse un vuoto da colmare con le risposte che le davo, ogni volta che lei mi chiedeva una fiaba diversa. E io le raccontavo di qualcosa, o qualcuno, quando le mi domandava se un principe l'avrebbe mai trovata, un principe dai capelli biondi – e allora mi assaliva sempre la paura che la seconda Clary decidesse di andarsene con un altro Jace – e gli occhi dorati. Le rispondevo sempre che la migliore scelta sarebbe stato il vampiro dai capelli scuri.

«Simon, ti senti mai come se fossi nato per uno scopo?».

 

*

 

Clary cresceva con un ritmo straordinario – sempre che non fosse colpa del tempo che, come sempre, si prendeva gioco di me in tutti i modi possibili – e somigliava sempre di più a quella parvenza di ricordo che mi rimaneva. Non sembrava interessata al mondo degli Shadowhunters, passava intere giornate a disegnare: non erano mai rune, controllavo sempre con un misto d'incertezza che voleva divorarmi. Ma Clary sembrava non possedere nemmeno la Vista, a differenza della sua omonima.

Parlava tanto, in continuazione, e versava fiumi di colori sui fogli: disegnava altri mondi, altri sogni imprigionati in un limbo di carta. Niente rune, la storia non si ripete uguale a sé stessa, non lo fa mai. E io rimanevo lì a guardare, in silenzio, aspettando di capire quale progetto divino comprendesse la mia esistenza.

«Uno scopo, Clary?» le chiedevo, ogni volta che lei mi rivolgeva la stessa domanda. «Non ne ho idea» mi si formava un sorriso amaro sulle labbra. «Aspettare, forse».

Ma cosa stessi aspettando, non lo sapevo: avevo assistito allo scorrere inesorabile del tempo, immobile, mentre aspettavo che un'occasione mi si palessasse. Ed ero stanco, nel frattempo, di attendere che la mia vita immortale acquisisse improvvisamente un senso: se era vero che si poteva vivere per sempre, io bramavo la mortalità come nient'altro al mondo. Coraggio, mi dicevo, arrenditi. A cosa serviva esserci sempre, se tutti quelli che amavo morivano?

«Cosa stai aspettando?» voleva sapere lei, ogni volta, quando gettava la matita sul pavimento e si perdeva nella contemplazione del suo stesso lavoro. «Qualcosa?».

Io non le rispondevo mai, convinto che la memoria fantasiosa di una bambina avrebbe colmato i vuoti: non spettava a me pronunciare le parole impronunciabili, per spezzare un incanto silenzioso che mi affliggeva da anni. Come quella lenta litania fatta di nomi e fili che il tempo aveva reciso con fare impietoso.

Avevo conosciuto diverse persone dopo Clary e Jace: Elenie, Astrid e Zane, Céline, Jocelyn, Lilian, di nuovo Céline. E infine Clary, il nome che segnava che l'altra Clary, la mia Clary, era ufficialmente entrata a far parte del mondo più inaccessibile. Quello dei morti, dove stavano anche gli altri. Tranne Céline e Clary. Tutti morti.

E io non riuscivo a scrollarmi di dosso l'imposizione di un'immortalità non voluta, dell'impossibilità di essere ucciso. E se nessuno vuole ucciderti e tu devi morire, significa sempre che esiste una sola scelta, se sei abbastanza coraggioso da compierla. Era una la domanda che mi teneva sveglio la notte, quando non facevo che chiedermi se avrei avuto il coraggio di recidere con le mie stesse mani quello stelo fragilissimo che mi ancorava alla vita terrena. Ero abbastanza coraggioso? Possedevo forse la forza per decidere di andarmene dal mondo, di congedarmi dall'immortalità e diventare solo un nome nella storia? Me lo chiedevo in continuazione.

Finiva sempre che dovevo ammettere, almeno con me stesso, che forse non ce l'avrei mai fatta.

 

*

 

Céline ci abbandonò che eravamo nel pieno del diciottesimo anno di vita ci Clary: un giorno sparì, senza lasciare traccia – se non la mia assoluta convinzione che fosse tornata dal suo amante, il padre di sua figlia. Suo fratello – nemmeno un biglietto per spiegarle il perché. Ma lei non fece domande, per quell'unica volta.

Sembrava abbattuta nel profondo, stanca. Mi guardò solo per un secondo, gli occhi dorati pieni di lacrime, proprio lei che non l'avevo mai vista piangere.

«E adesso?» mi ricordo di aver chiesto, in una parodia di aiuto che non sembrava riuscire così bene. «Cosa hai intenzione di fare?».

Lei mi aveva sorriso placidamente, scoprendo appena i denti. Aveva inclinato il volto alla luce del sole, rendendo più palesi le sottili vene che le si diramavano lungo il collo. Si tormentava le mani, mentre cercava una risposta soddisfacente, passando le dita lungo i bordi delle unghie, dove i denti avevano reciso il legame con la pelle. E falliva miseramente quando faceva mulinare i capelli, con aria irritata.

«Ti sei mai sentito come se fossi nato per uno scopo?» mi domandò, scrollando le spalle. «Magari tutto questo serve per trovare il mio».

 

*

 

Non so bene quando cessai di vedere la mia Clary nella sua omonima, quando smisi di considerare la seconda Clary come una mera proiezione della prima: lei aveva appena compiuto diciannove anni, io continuavo a possedere l'aspetto che avevo quando ero ancora un sedicenne insicuro, pieno di quelle incertezze dell'adolescenza. Ancora scottato per quell'unica volta in cui mi ero innamorato di una persona, una sola volta. Quando avevo compreso che non avrebbe funzionato con nessun'altra, se non con la mia Clary – che era di Jace: Clary era di Jace e io non potevo farci proprio nulla – che mi considerava ancora il suo migliore amico.

Sta di fatto che un giorno mi alzai e capii che forse qualcosa era cambiato, e lo era davvero, quando lei mi sorrideva e si accostava a me come la vecchia Clary non aveva mai fatto. Non so dire perchè accadde, qualcuno direbbe che le cose succedono perché è destino, io in quel momento pensai che fosse un dono: che qualcuno si fosse accorto che vagavo nella nebbia già da un po'. Accadde in un movimento casuale, un sorriso giornaliero che da sorriso divenne abbraccio e poi bacio. Andava bene così.

«Sai, a volte penso di essere nata per uno scopo» mi sussurrò, una sera. «Penso di essere nata perché tu avevi bisogno di qualcuno».

Lei non poteva saperlo, ma era la più assoluta verità.

 

*

 

Il tempo è passato, ancora, troppo in fretta per poter sentire la mancanza del poco che non ho avuto: se un tempo mi guardavo indietro a cercare i morti – Clary e Jace, Elenie, Astrid e Zane, Céline, Jocelyn e di nuovo Céline. Tutti morti, tutti con un pezzetto del mio tempo attaccato addosso – adesso guardo solo avanti.

Clary è cresciuta, inevitabilmente: ha compiuto venti, trenta e molti altri anni. Non ho voluto concederle un pizzico della mia maledizione, l'eternità, un peso talmente grande da sopportare che io stesso ho ormai perso il conto di tutte le persone a cui ho detto addio.

E poi è morta. Due mesi fa, per l'esattezza, morta con un sorriso dolcissimo sul volto e le rughe che le increspavano la pelle. Morta, anche lei.

La lapide bianca taglia l'orizzonte come un coltello affilatissimo, riflette la luce del tramonto e mi costringe a socchiudere gli occhi. Va bene così, mi arrendo alle divinità superiori, che mi hanno concesso una parentesi significativa in una vita assolutamente priva di eventi. Il fruscio della lama che penetra nella carne è noto, desiderato e unico. Sorrido. Va bene così.

   
 
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