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Autore: Dzoro    30/08/2013    1 recensioni
Angelo è un ex marine veterano della guerra del golfo. Vive in una città americana, da solo, il suo unico amico è un barista di colore. Angelo è un assassino a pagamento. Questa è la sua storia.
Per fan di Cormac McCarthy, Quentin Tarantino e Garth Ennis.
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Angelo Strano'
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Questo è l’ultimo capitolo di quella che considero la prima parte del romanzo. Un romanzo che al momento non esiste, dato che finora sono stati solo racconti accomunati da un personaggio. Anzi, nemmeno da quello. Perché chiedete? Avete ragione, immagino di essermi semplicemente confuso. Comunque, dal prossimo inizia la parte più interessante della vita di Angelo, non perdetevela!

Grazie a tutte le persone che mi leggono. Vedo che siete davvero tanti, se siete arrivati fin qui, potreste mettere tra le vostre storie seguite anche questa, e rendermi il biografo di assassini a pagamento più felice del mondo. Gracias, ve quiero mucho!

Dzoro

Camerata

 

Nichols aveva un sogno. Nel suo sogno c’era una casa, circondata da un giardino, circondato dai rassicuranti confini di una staccionata bianca alta tre piedi. E nel giardino avrebbe invitato i suoi amici a mangiare carne grigliata sul suo barbecue, il suo barbecue grande come auto. E avrebbe regalato dei guantoni da baseball ai suoi figli, e gli avrebbe lanciato la palla, mentre sua moglie avrebbe sorriso da dietro la porta a vetri della cucina, preparando la cena. E lo sapeva che era solo un sogno: Nichols non aveva amici, e non aveva una famiglia. Odiava troppo gli uomini per averne.

Il suo posto nel mondo era esattamente quello in cui si trovava, dove si trovava il suo lavoro. Al tredicesimo piano di un palazzo color polvere, incastrato tra i monoliti di cemento di un quartiere in mano agli spacciatori e gli scarafaggi. Il più vicino possibile al pulsante cuore nero della città, il più nascosto possibile dal fastidioso giudizio di Dio.

Alcune sere, quando alla tivù non davano niente di interessante, o non aveva nessun lavoro da sbrigare, a Nichols piaceva mettersi davanti a un giornale di enigmistica e a una tazza di tè caldo, seduto sul tavolo foderato da tovaglia di plastica color linoleum della cucina. Passava il suo tempo così, fino al momento in cui la sua stanchezza non era un pretesto sufficiente per nascondersi sotto le coperte. Solitamente sfogliava il giornale distrattamente, soffermandosi di tanto in tanto sulle vignette umoristiche, fino a che non trovava le pagine delle parole crociate. Iniziava quindi a farle, bevendo un sorso dalla sua tazza ogni tre o quattro definizioni azzeccate. Sulla tazza c’era scritto “Alla migliore mamma del mondo.”

Quella sera era una di quelle sere: Nichols aveva appena finito il suo the, subito dopo essersi ricordato che le iniziali del terzo presidente degli stati uniti erano la T e la J. Mancava poco al completamento del quadro, solo poche linee bianche ancora.

“La capitale della Corea del Nord.” Questa era facile, Seoul. Stava per scriverla, ma vide che c’erano più di una casella che sarebbero rimaste bianche. Come era possibile? Ah, vero, che imbecille, Seoul era la capitale della Corea del sud. La Corea del Nord aveva come capitale…

- La capitale della Corea… della Corea del nord.- disse tra se, ad alta voce, sbuffando frustrato. Iniziò a tamburellare con la punta della matita sulla superficie del tavolo, cercando di ricordare. Sembrava proprio non venirgli in mente, ed era strano: lui era sicuro di conoscere la risposta. Beh, ci avrebbe pensato dopo, sotto con un'altra definizione.

“Il campo della boxe.” Questa era facile, e Nichols stava per scrivere la risposta, quando qualcuno suonò alla porta. Il suono elettrico del campanello fece voltare Nichols di scatto, e anche un po’ trasalire:

- Chi è?- Fece, alzandosi dalla sedia. Mentre si avvicinava alla porta, il campanello continuò a emettere il suo suono fastidioso, con brevi pause tra una scampanellata e l’altra.

- Arrivo, arrivo accidenti! Ma lo sai che ore sono? Stai calmo!- appena Nichols ebbe tolto il fermo della porta, essa si aprì violentemente. Un uomo entrò nella casa barcollando, quasi travolgendo il dottore dall’altra parte. Fece pochi passi, prima di piombare a terra. Ansimava come qualcuno che ha appena terminato una lunga corsa. O a cui hanno appena sparato: tutto il sangue che aveva addosso tolse subito al dottore il dubbio.

- E adesso che cazzo succede?- si disse tra se, come di suo solito ad alta voce. Mise il corpo dell’uomo supino, e come volevasi dimostrare una ferita d’arma da fuoco spiccò come un bel fiore rosso in mezzo alla camicia azzurrina dell’uomo. Niente di grave probabilmente, al massimo un polmone perforato. Comunque richiedeva cure mediche al più presto. Nichols guadò la moquette verde: si era sporcata. Scosse la testa:

- Senti amico, io non ti conosco, e sono anche stanco. Non ti costerà poco.-

 

Il ferito, cinque minuti dopo, si trovava sdraiato sul divano del soggiorno di Nichols, ricoperto di giornali e fogli di carta assorbente. Nichols stava pulendo in cucina i ferri, rimasti incrostati di sangue dopo l’ultima operazione. Era stata due sere prima, e l’aveva tenuto in piedi dalle cinque di pomeriggio fino a mezzanotte: un ragazzo, figlio di un nome importante nel campo della prostituzione, era arrivato con nel petto otto pallini di fucile a pompa, uno dei quali per poco non gli era entrato nel cuore. Era sopravvissuto, Nichols sapeva il fatto suo. Solo pochi nel giro della mala conoscevano il suo nome, e a lui andava bene così: la polizia non si era mai accorta della sua piccola attività, e lui guadagnava di più di quando lavorava come chirurgo al St Agnes. Passò uno straccio imbevuto di disinfettante sull’ultimo bisturi, e lo buttò in una bacinella di metallo insieme agli altri. Prese da sotto il lavandino la scatola con i guanti di lattice, e da un appendiabiti vicino al frigo un grembiule da cucina bianco, appeso accanto ad almeno altri cinque grembiuli puliti.

- Ehi, dottore, ce l’hai da bere?- gli urlò il ferito, dal soggiorno. Era un uomo dalla faccia pulita, senza un filo di barba, con dei bei vestiti e un corpo atletico. Doveva avere poco più di trent’anni. Aveva una anello al dito. Il dottore provò fastidio al pensare che avesse una fede. Per quanto cercasse di fregarsene, sapere che l’uomo a cui doveva salvare la vita aveva dei legami gli faceva sentire come se gli avessero affidato una responsabilità più grande di quella che avrebbe voluto assumersi. Certo, tutti gli esseri umani ha dei legami, delle persone che piangono la loro morte. Le fedi glielo ricordavano soltanto.

Chissà chi era, che gli aveva sparato, perché l’aveva fatto. La professionalità del dottor Nichols gli impediva sempre di chiedere qualsiasi cosa ai suoi clienti, ma ciò non impediva che in lui ogni volta nascessero un’infinità di domande. Nichols prese la bacinella di alluminio con i ferri. Si avvicinò al frigorifero, e ne estrasse una bottiglia di vodka mezza vuota, adagiata vicino ad un mezzo limone raggrinzito e ad un barattolo aperto di burro d’arachidi. Poi prese una siringa, sigillata in un pacchetto di plastica ermetico, che si trovava in una vaschetta di plastica insieme a molte altre siringhe. In soggiorno, buttò la vodka al suo paziente, poi si mise il grembiule. Il ferito si attaccò subito alla bottiglia, e ne bevve quasi un terzo senza staccarsi un attimo. La staccò dalle labbra facendo una smorfia:

- Bah, che schifo. I russi hanno poco da andare fieri di questa merda, è quasi meglio l’alcool etilico. Non ce l’ha del Jack Daniels, per caso?-

Nichols si infilò i guanti di lattice, facendoli schioccare contro il braccio.

- Posso andare a comprarlo, ma non è compresa nel prezzo, e più il tempo passa più la ferita si infetta, sempre che tu sappia cosa voglia dire. Stattene zitto quando opero, oppure potrei finire per aprirti un buco ancora più grosso.- detto ciò, prese un bisturi dalla bacinella, e iniziò ad esaminare la ferita. Il ferito abbozzò un sorriso:

- Okay, lasci stare. Lei non ne vuole?-

- Ho smesso di bere da dieci anni. Ero alcolizzato una volta.-

- Non sapevo che un medico potesse essere anche un alcolizzato.-

- Un medico può fumare e bere come chiunque. Può anche bere abbastanza per andare al lavoro ubriaco, e trasformare un povero stronzo in paraplegico, dopo avergli segato la spina dorsale un po’ di più del dovuto. Zitto ora.- Nichols prese la siringa, e la iniettò nel braccio del suo paziente.

- Non si dovrebbe… non mischiare medicine e alcool?- chiese il paziente, mentre la voce gli si impastava.

- No, certo che no. Stai fermo.-

Aspettò solo qualche minuto, il tempo che il pentothal facesse effetto, poi infilò il bisturi nella ferita.

- Erano brutti tempi, quelli.- continuò, anche se sapeva fin troppo bene che l’uomo al quale stava salvando la vita poteva capire ben poco in quel momento. Ma a lui piaceva parlare. Lo trovava catartico.

- Ma non tutto il male viene per nuocere. In prigione conobbi un tizio che mi propose di aprire uno studio con lui, una volta uscito. In carcere era famoso, un associazione umanitaria al tempo aveva fatto un gran casino per concedergli l’infermità mentale, e cazzo se la meritava tutta quel perverso. Aveva tagliato le gambe di sua moglie con una segatrice da granito perché diceva che dentro ci abitassero dei diavoli. Capito il tipo, no? Credeva di avere una non so che cazzo di missione, di dover guarire tutti i mali del mondo. Credo che una volta uscito abbia ammazzato qualcun altro. Forse ora gli hanno già cotto il cervello sulla sedia elettrica. Che ne parlo a fare, come se me ne fregasse qualcosa. Però l’idea che mi aveva dato era buona, e riuscì anche a mettermi in contatto con gente che mi avrebbe protetto e permesso di lavorare. Così eccomi qui, a estrarre piombo e ricucire ferite. Non male, eh? Ecco, ci siamo quasi.- Nichols aveva in quel momento afferrato il proiettile con le pinze, e lo stava facendo lentamente scivolare tra le pieghe della ferita.

- Ci siamo. Ci siamo… ecco!- era fuori. Nichols lo fece cadere in un posacenere, dove poté adagiarsi insieme ad almeno un'altra decina di proiettili incrostati di sangue. Nichols pensò per l’ennesima volta quella settimana che avrebbe dovuto farli sparire.

 

L’operazione si era conclusa in tempi relativamente brevi. Nichols aveva già ricucito la ferita, e bendato il torace al suo paziente.

- Ehi, bel lavoro doc. Grazie.-

- Risparmia i ringraziamenti per qualcun altro, sono cinquecento dollari. Ora sei a posto, ma hai perso troppo sangue. Non devi fare movimenti bruschi, ed devi anche evitare di muoverti, se possibile. Ora non è possibile per esempio, caccia i soldi, e poi levati dai coglioni.- sbottò Nichols, mentre si spogliava dai suoi abiti da lavoro.

- I soldi sono nella mia giacca. Non prenderne di più di quanto ti devo, mi raccomando. Uh, che sonno.- l’uomo si sdraiò di nuovo sul divano.

- Ehi, che cazzo fai, dormi? Dai, devi andartene. Ehi!- Nichols diede un paio di colpi sulla testa del paziente, ma era troppo tardi: era già caduto in un sonno profondissimo, di quelli che terminano solo a mezzogiorno del giorno dopo. Nichols sospirò, e se ne andò un attimo in camera sua. Tornò di lì a poco, e buttò una coperta addosso all’addormentato sul suo divano.

- Sappi però che ti verrà a costare un supplemento.- borbottò, dirigendosi verso la giacca con i soldi, appesa sull’attaccapanni vicino all’ingresso. Trovò un portafogli in una delle tasche interne, e subito ne rovesciò il contenuto sul tavolo della cucina. Tra i soldi cadde anche una carta d’identità, sulla quale il dottore intravide un nome: Sidney Russel. Un indizio in più sull’identità dell’uomo che aveva appena operato, ma non doveva importargli. Iniziò a contare le banconote, lanciando di tanto in tanto un’occhiata sul paziente che dormiva alle sue spalle. Nichols temette per un attimo che stesse fingendo soltanto di dormire, ma subito un russare gorgogliante e profondo cancellò ogni preoccupazione: dormiva di sicuro, e anche se fosse stato vero il contrario non c’era da temere. Ridotto com’era, era inoffensivo, non c’era pericolo che lo strangolasse durante la notte e scappasse senza pagare. A proposito di pagare, Nichols aveva appena finito di contare i soldi:

- Quattrocentoottanta e trenta centesimi. Pezzo di merda.-

 

Nichols quella notte si gettò di traverso sul suo letto, e si addormentò nel giro di pochi minuti. L’operazione lo aveva sfiancato definitivamente, non aveva nemmeno messo a posto il tavolo della cucina: capì che avrebbe ignorato quale fosse la capitale della Corea del nord per l’eternità. Anzi, i suoi ultimi pensieri furono di colossali parate militari con bandiere rosse e gigantografie di Kim Jong-Il, prima di venire sopraffatto dall’incoscienza. Si addormentò tranquillamente, disturbato soltanto da un rumore lontano, che se fosse stato più sveglio avrebbe identificato come un telefono che veniva alzato e un numero che veniva composto.

 

Il sonno del dottor Nichols si infranse contro il trillare incessante del suo campanello, tre ore dopo. Erano le tre e mezzo di mattina. Il primo pensiero della giornata fu quindi un “Chi cazzo è?”, al quale seguì un frettoloso vestirsi e correre alla porta. Una volta aperta, non sommerse di insulti quell’inopportuno visitatore solo per due motivi: era troppo stanco, e davanti a se si trovava una donna. Doveva avere la stessa età del suo paziente, e un veloce occhiata del dottore riuscì a trovare una fede sulla sua mano sinistra. Capì subito.

- Cosa desidera?- chiese comunque Nichols, squadrandola da capo a piedi nel frattempo. Non era neppure male.

- Io… credo che mio marito sia in casa sua. Posso entrare?-

“ E no, cazzo, sono le quattro di mattina, io non sono stato ancora pagato e il mio paziente usa la mia casa come una fottuto albergo! Ma ora basta, ora quello stronzo se ne va insieme alla sua troia, se ne va via!”

- Prego.- rispose il dottore, aprendogli del tutto la porta e invitandola ad entrare. Subito dopo gli indicò dove si trovava il marito, quindi se ne andò in cucina. Dato che aveva la netta sensazione che il sonno l’avrebbe colto di nuovo da un momento all’altro, decise di prepararsi un caffé. Riuscì non solo a prepararlo, ma pure a finirlo, e quei due erano ancora nel suo soggiorno, che continuavano a parlare. Adocchiò in quel momento la sua enigmistica, ancora aperta sul cruciverba della sera prima. Ma proprio non riusciva a ricordarsi quale fosse la capitale della Corea del nord. Guardò l’ennesima volta in direzione dell’uomo e la donna nella sua cucina: ore i due erano abbracciati, e rimasero così per lungo tempo. Quando si staccarono l’uno dall’altro, Nichols tirò un sospiro di sollievo. La donna si alzò dal divano, e si diresse verso l’uscita: il dottore le si avvicinò.

- Grazie per avermi fatto entrare. E mi scusi.- mormorò lei. Nichols notò con fastidio che la sua voce era strozzata, come se dovesse scoppiare a piangere da un istante all’altro. E l’ultima cosa che voleva dover fare quella notte era tentare di consolare una donna in lacrime sull’ingresso di casa sua.

- Di niente, di niente.- Nichols disse solo quello, prima che lei uscisse. Avrebbe voluto chiedere perché non si portava dietro anche il marito, ma sapeva che la sua reazione non gli sarebbe piaciuta.

Tornando in soggiorno, vide il suo paziente raggomitolato sul divano, che fingeva di essersi riaddormentato. La carta assorbente e i giornali erano stati appallottolati in un gomitolo sanguinolento sulla moquette. Nichols lasciò stare, voleva soltanto tornare a letto. Notò però, prima di andarsene, che sul tavolo vicino al divano era comparso un quaderno di cartone color carta da pacchi, con la copertina rigida, come di quelli che si usano per tenere le fotografie. Ma cosa poteva importergliene a lui?

 

Angelo accese l’autoradio.

“Ancora latitante l’assassino dell’imprenditore ucciso ieri sera nei pressi della sede del consiglio municipale. La vittima, Martin Krieger, era proprietario di una catena di concessionarie d’auto e diverse attività nel campo della ristorazione, ma era famoso soprattutto per la sua grande attività di filantropo. Opera sua è stata la fondazione Krieger, che dal 1992 ha permesso a più di centomila senzatetto di costruirsi una vita e trovare un lavoro e una casa. Krieger è stato colpito da due proiettili di una pistola semiautomatica dotata di ottica, il che fa pensare al lavoro di un assassino professionista. Il killer ha esploso i colpi dal tetto di un palazzo vicino. La vittima è stata subito trasportata in ospedale, ma è deceduta prima di poter raggiungere la sala operatoria. L’assassino è stato avvistato dalle guardie del corpo del signor Krieger, che hanno subito aperto il fuoco contro di lui. Alcuni testimoni hanno visto un uomo ferito allontanarsi a bordo di una Chevrolet El-Camino rosso scuro. Sono questi al momento i principali indizi a disposizione degli inquirenti per ritrovare questo spietato killer. I funerali del signor Krieger si terranno…” Angelo spense l’autoradio. Parcheggiò vicino ad una Chevrolet El-Camino, e scese sul marciapiede: conosceva bene il posto, e sapeva che avrebbe trovato Sid laggiù.

 

Era già la seconda volta in ventiquattrore che Nichols veniva svegliato dal suo campanello. Questa volta erano le otto e mezzo di mattina. Questa volta, Nichols giurò a se stesso di incenerire d’insulti chiunque, donna, uomo o bambino, si fosse trovato in quel momento dietro la sua porta, di sbattergli la suddetta in faccia e tornarsene a dormire, anche se sapeva che riprendere sonno era ormai una speranza assai remota. La sua marcia furente in direzione della porta però si bloccò di colpo, appena uscito dalla camera da letto: l’uomo non era più sul divano, ne in un qualsiasi altro posto in cui Nichols l’avrebbe potuto vedere.

“Eh no, cazzo, quel tizio mi deve ancora venti dollari.” subito iniziò ad aprire tutte le porte che davano sul soggiorno, sapendo che il paziente non poteva essersene andato lontano, con quella ferita. Il campanello, intanto, riprese a suonare.

- Un attimo, porca puttana, smettila di suonare il fottuto campanello, un attimo e ti apro!- urlò Nichols in direzione della porta, e in quell’esatto momento il campanello smise di suonare. Il dottore non aveva ancora trovato il fuggitivo: stava per rassegnarsi, quando vide la porta che dava sulla scala antincendio aperta. Vi si fiondò subito:

- Ehi, Russel! Ehi, sei qui?- gridò, guardandosi tutt’intorno.

- Sono qui, sono qui, tranquillo. Pensavi fossi scappato?- gli fece il paziente, dall’alto. Nichols non sapeva dove avesse trovato la forza, ma era riuscito a salire la scala antincendio fino al tetto della palazzina (non troppo distante, sia chiaro: l’appartamento di Nichols era all’ultimo piano).

- Ricordati che mi devi dei soldi, perché io non me lo dimentico. Ora c’è qualcuno alla porta, tu stai fermo dove ti trovi!- gli gridò contro Nichols, prima di tornare nel suo appartamento. Raggiunse la porta d’ingresso alternando i passi alle imprecazioni. La aprì con violenza, già pronto a vomitare tutti gli insulti che aveva elaborato fin dalla sera prima, quando quella scocciatura era iniziata. Doverli ingoiare tutti insieme, fu per lui un vero colpo. L’uomo dietro la porta lo conosceva, e chi nel giro non lo conosceva?

- Cosa ci fa qui?- una domanda stupida, detta con una voce da stupido. Angelo non rispose nemmeno. Con un braccio fece scostare verso una parete del corridoio il dottore, ed entrò guardandosi intorno con circospezione. Nichols rimase immobile nel posto in cui Angelo l’aveva spinto, a fissarlo, mentre il respiro gli si faceva sempre più affannoso.

- Dimmi un po’, doc, per caso stanotte hai operato?- la domanda di Angelo giunse improvvisa, e Nichols rispose subito:

- Senta, io li opero soltanto, non me ne frega niente di cosa hanno fatto o per chi lavorano. Mi basta ricevere i miei soldi, e non chiedo…-

- Lo so doc, lo so. Capisco perfettamente la tua preoccupazione, ma ti assicuro che non hai nulla da temere. Tu hai fatto il tuo lavoro, io sto per fare il mio. E ora dimmelo: dove si trova?-

 

- Ottantasei. No, era l’ottantacinque. Dio, quelli sì che erano tempi. Il mondo era nostro, eravamo noi al comando. Ma anche questa non tornerà più.- Russel si trovava sul tetto della palazzina, uno spiazzo rettangolare occupato da qualche condizionatore, materiale edile abbandonato e dalla sporcizia dei piccioni che vi abitavano. Sidney era seduto, appoggiato con la schiena ad una pila di sacchi di cemento. Tra le ginocchia teneva l’album delle fotografie, e lo sfogliava pigramente, come se dovesse trovarne una in particolare, ma avesse tutto il tempo del mondo per cercarla. Non smise di sfogliarlo nemmeno quando i passi di Angelo fecero gemere e scricchiolare il metallo arrugginito della scala antincendio. Prima di degnarlo di attenzione, Russel aspettò che gli si fosse avvicinato. Alzò lo sguardo solo quando Angelo gli fu a meno di un paio di metri di distanza, abbozzando, riconosciuto di chi si trattava, un sorriso.

- Cosa? Tu? Oh, Dio mio..- tentò di ridere - Dio, ma da quanto..?-

- Non ricordo di preciso, Sidney. Dalla guerra mi pare.- Rispose Angelo. Si piegò sulle ginocchia, avvicinandosi di più a Russel.

- Quindi ora lavori per Krieger? Sapevo che eri entrato in un brutto giro, sai, le voci. Ma lavorare per Krieger… sono deluso.- sospirò Sidney, scuotendo la testa.

- Non per lui. Non solo, almeno.- rispose Angelo, ridestando l’attenzione del suo interlocutore.

- Sei un assassino a pagamento?-

- Si dice così, no? Dovresti saperne qualcosa, hai organizzato una bella festa al vecchio Martin, e se te lo dico io, ti puoi fidare. Inoltre ho una buona notizia per te: ha tirato le cuoia prima che lo potessero operare.-

- Davvero?- Sidney sorrise di nuovo, piacevolmente stupito. – Allora non è stato del tutto inutile. Grazie vecchio mio, sei ancora un amico dopo tutto.-

Anche Angelo sorrise, ma lo fece mentre estraeva la sua Glock silenziata.

- Le ultime parole famose, eh?- mormorò Sidney. Tornò a sfogliare l’album, finché non sembrò aver trovato qualcosa che gli interessava. Estrasse la foto, e la mostrò all’assassino:

- Ehi, guarda questa. Ci sei anche te.- Angelo la riconobbe: uomini sudati, ricoperti della polvere del Kuwait, che tentavano di sorridere. Desert Storm.

- Perché hai preso l’album?- chiese.

- Beh, la sai quella storia, che quando stai per morire rivedi tutta la tua vita passarti davanti? Diciamo che non mi andava di aspettare, così ho chiesto a Grace di portarmelo.-

- Grace?-

- Mia moglie. Scusa se non ti ho mai invitato a pranzo, mi sarebbe piaciuto fartela conoscere.-

- Ti sei pure sposato. Cazzo se ne è passato di tempo. Ne è passato.- Angelo puntò la pistola contro la testa di Sidney, premendo l’acciaio del silenziatore contro la pelle della fronte. L’altro, dal canto suo, riprese a sfogliare l’album più velocemente. Sapeva che non c’era più tempo.

- Ehi, la vuoi vedere questa?- la porse ad Angelo, che la afferrò impassibile. Era una bambina, doveva avere sei anni al massimo.

- Lei chi è?-

- Mia figlia. Mary.- Angelo la osservò, chiedendosi dove Sidney volesse arrivare.

- È carina. Stai tentando di commuovermi?- Lo disse con un tono cinico, quasi una risata sarcastica. Ma Sid non era altrettanto allegro, non sorrideva nemmeno. Aveva un funerale dipinto in faccia.

- È morta.- un lungo silenzio seguì la sua affermazione. Angelo sembrò quasi sussultare, quando sentì quella parola: morte. Non era una parola strana per lui, la conosceva come se fosse sua madre. Eppure, in quel momento, quando la sentì, provò qualcosa che non aveva mai provato, come se si trovasse nel posto sbagliato. Sgradevole, inaspettato, un brivido gli corse lungo la schiena.

- Chi è stato?- domandò subito. Perché quando Sidney aveva detto morta, chiunque avrebbe capito che intendeva uccisa.

- E me lo chiedi?-

- Krieger?-

- Ti racconto una storia. Un ragazzo ha passato gli anni migliori della sua vita con un fucile in mano, a mangiare sabbia in un deserto miglia e miglia lontano da casa. Decide di cambiare vita: si sposa, ha una figlia, apre un ristorante. Ma i soldi non bastano, ha bisogno di un prestito. Una grossa somma.-

- Te li ha dati Krieger, quei soldi?-

 

Sid non rispose.

- Stavo camminando per strada, insieme a mia figlia, e questa macchina si ferma vicino a noi. Krieger, ovviamente, insieme ad alcuni uomini. Dio, tu non l’hai visto. Non hai visto come l’ha guardata.-

- So dei passatempi di Krieger.- disse Angelo. - Mi dispiace per tua figlia.-

Sidney scoppiò in una risata isterica che, come quella di un pazzo, nacque e morì nel giro di un respiro.

- Vaffanculo!- L’insulto scivolò fuori dalle labbra di Sidney improvvisamente, dapprima strozzato, poi allargandosi in un urlo rabbioso - A te non è mai dispiaciuto nemmeno di te stesso, sei un fottuto animale! Ma come cazzo fai? Speravo che tornare a casa ti avrebbe reso normale, che la guerra sarebbe davvero finita per te. E invece... Ma ti rendi conto? Di cosa sei? Di quello che fai? Come fai a vivere? Come fai a dormire, la notte? Sai, in guerra, tra i ragazzi, correva una voce: che a te, in fondo, piacesse quel merdaio. Che ti piacesse uccidere.-

- Basta, Sid.- l’ordine di Angelo giunse calmo, deciso. Forse sofferente, ma solo un vecchio amico se ne sarebbe potuto accorgere.

- Basta.- Angelo puntò di nuovo la pistola. Sidney lo guardò negli occhi, lasciando sbollire la rabbia che era esplosa in lui un momento prima. Si accasciò sul muro dietro di lui, tenendo l’album stretto sul suo petto.

- Senti… Okay. Va bene così.- Chiudendo gli occhi, Sid si raggomitolò su se stesso. Aveva capito che quella era la fine.

- Okay. Dove vuoi che lo faccia?- Sidney ci mise un attimo per capire cosa Angelo gli stesse chiedendo. Poi ci arrivò:

- Al cuore. Non mi va la testa, Grace non lo sopporterebbe.-

- Va bene. Addio, Sidney.-

- Addio.- I loro sguardi si incrociarono. Sidney portò l’album di fotografie sul cuore, e chiuse di nuovo gli occhi. Angelo prese la mira.

L’esplosione lacerò il mattino, frantumando il silenzio in mille pezzi. Il proiettile sfrecciò in aria sibilando, e quando Angelo sentì il suo fischio pensò che fosse la voce del mondo, impazzito, che urlava. Non era stato lui a sparare. L’album di fotografie si era aperto, in una nuvola di frammenti di cartone, lasciando uscire il proiettile. Sidney doveva aver nascosto la pistola nella giacca. Angelo maledisse la sua ingenuità, quando il colpo gli raschiò la pelle sulla guancia. Aveva mancato la morte di una spanna. Il secondo colpo fu lui, però, a spararlo. E le sue mani erano troppo esperte per poter sbagliare mira. Colpì Sideny in pieno, il proiettile affondò nella tenera pelle che ricopriva la gola, incidendo uno squarcio che esplose nel giro di un respiro in un fiotto di sangue rosso e denso. Sidney tentò di tappare la ferita, mosso da un primordiale istinto di sopravvivenza, mentre la sua voce si tramutava in un rantolo liquido. Il suo ultimo sguardo, lanciato da due occhi spalancati sull’abisso, si fermò negli occhi di Angelo. Dall’album era scivolata fuori una foto: Sidney, sua moglie, la bambina. Una famiglia. Cadde in mezzo al sangue, e ne venne ricoperta. Angelo guardò quel povero cadavere per minuti lunghi un eternità, senza mai abbassare la pistola, ne cambiare espressione. Il fondo dei suoi occhi era rimasto impiastrato di un sentimento a lungo dimenticato, che la ferita sulla guancia aveva ripescato, grattando sul fondo di qualche remoto, dimenticato angolo del suo cuore.

 

“Dio mio, ma perché è successo? Perché è successo a me, poi? Ora gli spara, gli spara e lascerà pure il cadavere sul tetto! Mio Dio, sono nella merda. Arriverà la polizia, e perquisirà l’appartamento, e io devo far sparire tutto, e dovrò cambiare appartamento, e non avrò più un solo cliente. Cazzo, ma quello stronzo doveva proprio venire qui? Che giornata di merda, che giornata di merda, che gi…” Lo sparo interruppe il flusso dei pensieri del dottore, facendolo sobbalzare.

“L’ha fatto! Dio onnipotente, l’ha fatto! Ma non ne ha usato una silenziata? L’avranno sentito tutti! Ora arrivano gli sbirri e… no, no cazzo! Non voglio finire di nuovo in prigione! Ma io non c’entro niente! E poi i miei clienti non lo permetteranno! Chi posso chiamare? Green? Trevor? Si, chiamerò Trevor. Vaffanculo, gli ho salvato la sua vita del cazzo, non può lasciarmi nella merda. Sì, ora lo chiamo, può risolvere tutto, può…

- Ehi, dottore. Non è che hai del caffé?- Angelo era tornato. Doveva essere appena sceso dal tetto. Nichols aveva atteso il suo ritorno raggomitolato nella sua vestaglia, quasi in posizione fetale, seduto sul divano. Vedere Angelo lo rassicurò, in un qualche modo. Ora se ne sarebbe andato, e forse sarebbe stato ragionevole, e l’avrebbe aiutato a sbarazzarsi del cadavere. Ma un attimo, la polizia sarebbe arrivata da un momento all’altro, e se trovava il cadavere…

- Rilassati, e tutto finito. La polizia non arriverà prima di un ora, me ne sono occupato prima.- continuò Angelo, come se gli avesse letto nel pensiero. Non doveva essere difficile per un professionista come lui corrompere un paio di sbirri. Nichols tirò definitivamente un sospiro di sollievo: la notte era andata troppo male perché la mattina potesse andare allo stesso modo. Ora gli avrebbe preparato il suo maledetto caffè, e poi se ne sarebbe andato. Passarono pochi minuti ed entrambi si trovarono in cucina. Angelo era rimasto silenzioso, dopo la sua ultima domanda. Il suo sguardo era basso, e si perdeva nel vuoto. Nichols, mescolando una tazza di caffé solubile, si chiese se stesse bene: sembrava strano. Gli posò la tazza davanti, suscitando una minima reazione:

- Grazie.-

- Prego.- Nichols lasciò Angelo bere un paio di sorsi, poi si fece coraggio e chiese – Mi scusi, ma ora, quel cadavere, sul tetto. Non… potrebbe…- la richiesta di Nichols sembrò riscuotere Angelo da un qualche strano sonno.

- Cosa? Oh. Sì. Certo. PyongYang.-

- Cosa?-

- La capitale della corea. PyongYang.- disse Angelo, facendo un cenno verso la rivista di enigmistica ancora aperta sul tavolo.

- Oh, grazie.- rispose Nichols.

- Di niente.- Rispose Angelo. - Di niente.-


 

   
 
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