Capitolo Settimo
Emeirin Stone
Alle
sue spalle, sente Shepard che si coordina con la flotta dell’ammiraglio
Hackett.
La
sua voce è più leggera, come se si fosse tolta un peso. Come se il cadavere di
Kai Leng, ai suoi piedi, fosse davvero importante.
Javik
scuote la testa: perché compiacersi di una vittoria così piccola?
Ma
non è quella, l’origine del suo malumore. C’è qualcosa che lo perseguita, da
quando è entrato nella stazione Cronos. Qualcosa che gli pulsa nelle tempie,
uno sfarfallio davanti agli occhi.
Non
abbastanza forte da privarlo della concentrazione ma abbastanza luminoso da non
permettergli di ignorarlo. E’ un presentimento. Quasi. Più che altro, una
sensazione, un brivido sotto la pelle. Aspettativa, mista forse ad un
reverenziale timore.
Pulisce
la pistola, cercando di non pensarci.
Eppure,
istante dopo istante, la cosa diventa
più forte, più netta.
Quando
Shepard parla, la sente solo parzialmente, al limite della sua coscienza
-
IDA, abbiamo raccolto tutte le informazioni utili?-
-
Sì, comandante. Possiamo lasciare la stazione al tuo ordine.-
-
Bene, comunica a Joker la nostra posizione e dì di mandarci Cortez con la
navetta…-
Le
parole di Shepard suonano lontane, come una remota eco, ma quando Javik ne
coglie il significato generale, afferra Konstantin per un braccio e la guarda
negli occhi
-
No, comandante.- sussurra - Aspetta.-
-
Cosa succede?-
Il
prothean si guarda intorno, disorientato.
C’è
qualcosa, solo che lui non sa descriverlo. Non troverebbe il modo di farlo
capire ad un membro della sua razza, figuriamoci se ci riesce usando il
linguaggio arcaico e sterile delle razze meno progredite.
Il
presentimento cresce, sempre più forte, un’entità calda e palpitante.
-
Torniamo indietro, Shepard.-
-
Indietro?- Konstantin gli lancia uno sguardo perplesso - Dove?-
Una
strana chiarezza si fa largo nella mente del prothean.
-
Al Razziatore.-
-
Perché?- insiste Shepard
-
Io per primo ti ho sempre ripetuto che il fattore tempo è essenziale… e che
quello della galassia ormai si sta esaurendo. Eppure… adesso… vieni, comandante.-
l’afferra per un braccio. La sua stretta è forte e secca.
- Siha - dice Thane, alle sue spalle, con
voce calma e placida - nel nostro lavoro, l’istinto è tutto.-
-
Va bene.- annuisce Shepard, alla fine - IDA, dì a Cortez di aspettare il nostro
segnale.-
Uno
strano sollievo dilaga nell’animo di Javik.
Man
mano che percorrono a ritroso i propri passi, tornando verso quell’inferno nero
dove veniva accudito il Razziatore Umano, il sollievo diventa ansia, l’ansia
diventa dubbio.
Poi
svolta l’angolo e il dubbio ridiventa euforia, l’euforia ridiventa sollievo e
tutto ricomincia dal principio.
In
verità, il prothean si sente piuttosto sciocco, assoggettato in quella maniera
ad un’emotività improvvisa, da cui è sempre riuscito a difendersi.
Nel
laboratorio, il silenzio è cupo e assordante.
I
macchinari sono morti e spenti, qualche scintilla sporadica danza sui monitor
come una lucciola impazzita.
Il
Razziatore giace riverso su sé stesso, un monumento all’orrore cosmico.
Javik
s’incammina verso il centro della struttura, guidato da qualcosa che è più
profondo dell’istinto. Qualcosa a cui qualche umano troppo romantico darebbe il
nome di “destino”.
Quando
arriva davanti alla porta che stava cercando, semplicemente sa di essere nel
posto giusto.
Tutte
le emozioni - il sollievo, la paura, l’irritazione, la stanchezza - si fondono
in un crescendo di agitata soddisfazione. In tutto l’universo, è quello il
posto dove deve trovarsi, anche se quello che c’è oltre quella porta potrebbe
non piacergli affatto.
-
Bypasso la serratura.- annuncia IDA, avanzando di un passo.
Ma
Javik la ferma, posandole una mano sulla spalla (si sorprende sempre delle
immagini che il contatto con IDA ricrea nella sua mente, la sensazione fisica di un essere sintetico)
-
Non serve.- dice, a bassa voce.
Si
avvicina al pannello e, non appena vi posa la mano, il circuito si riattiva e
una luce verde illumina lo schermo. Lentamente, faticosamente, come se ormai la
sua carica si fosse del tutto estinta, la porta si apre. Rimane bloccata a tre
quarti, ma è abbastanza per passare.
Oltre,
c’è una stanza buia come la notte. Un bagliore metallico si anima sulla parete,
quando vi entra la luce.
Poi,
un suono. Nel silenzio completo, Javik riesce a percepire un suono, debole ma
inconfondibile. E’ il suono di un respiro.
Finisce
di aprire la porta e la luce artificiale dei laboratori illumina l’ultimo
anfratto.
Accucciata
in un angolo, c’è una figura umana.
Lancia
uno sguardo al prothean, sbattendo gli occhi per abituarsi alla luce.
- Chi
sei?- domanda poi, con voce fragile, incrinata
- Non
lavoro per Cerberus.- ribatte Javik, tendendole una mano.
Lei
scuote la testa e, appoggiandosi al muro, riesce a rimettersi in piedi.
Avanza
a passo malfermo verso la porta ma, ad ogni movimento, sembra riacquistare sicurezza.
-
Tu chi sei?- la interroga Javik, ancora sospettoso
-
Una prigioniera di Cerberus. Niente di più, niente di meno.-
-
Hai un nome, umana?-
-
Naturalmente - la voce della donna è placida, il suo tono basso come un
sussurro - tutti noi abbiamo un nome, che definisce chi siamo e ci distingue
dagli altri esseri.-
Oltrepassa
la soglia, riordinandosi i lunghi capelli castani.
Una
volta fuori, i suoi occhi si fermano sul Razziatore umano e, per un istante,
nelle sue iridi viola pallido scintilla qualcosa che può sembrare malinconia.
Poi
tutto si blocca.
Davanti
alla straniera, le mani di Konstantin Shepard perdono la presa sul fucile, che
cade a terra con un rumore metallico.
-
Non è possibile…- geme la comandante, sconvolta -… tu…-
La
donna solleva lo sguardo su di lei e le sue labbra pallide s’incurvano in un
sorriso
-
Ciao, piccola mia.-
Per
la sua storia, per l’addestramento, per l’istruzione ricevuta, per tutte le
volte che si è fidata e che è stata tradita, Konstantin Shepard dovrebbe aver
imparato a sospettare di tutto e tutti. Soprattutto di chi spunta fuori
all’improvviso in una base nemica. Eppure, nell’attimo esatto in cui la donna
si volta verso di lei, ogni muro crolla, ogni dubbio si dissipa come polvere
portata via dal vento.
-
Non è possibile.- mormora, mentre sente qualcosa di bagnato pungerle gli occhi
Lei
la guarda, sorridendo, e sembra esattamente la donna che era in Irlanda, che
preparava i biscotti e il the bollente, che si acciambellava sulla sedia a
dondolo e che sembrava sempre assorta nei suoi pensieri.
- …tu…-
sussurra, sentendo la propria voce commossa ed insicura
Emeirin
Stone si passa una mano fra i capelli e non smette di sorridere.
-
Ciao, piccola mia.- dice infine, dopo un silenzio interminabile.
Konstantin
si avvicina alla donna e lei, dolcemente, le accarezza una guancia.
-
Le foto su extranet non ti rendono giustizia, bambina.- scherza Emeirin, con
tono leggero, prima di abbracciarla.
Per
un attimo, l’universo si ferma attorno a lei.
Il
profumo familiare della donna l’avvolge, le sue dita le passano fra i capelli
come facevano tanti anni prima. Emeirin è tutto quello che le rimane della
propria infanzia, del tempo euforico e sereno in cui non c’erano Razziatori,
non c’erano organizzazioni criminali, in cui la guerra era una realtà
fastidiosa ma lontana, qualcosa che si poteva facilmente dimenticare,
costruendo un pupazzo di neve.
A
malincuore, Shepard si scioglie dall’abbraccio della donna, con un leggero
colpo di tosse.
-
Come stai?- le chiede, sottovoce.
-
Bene.- risponde Emeirin, quietamente, senza aggiungere altro.
Konstantin
si volta verso i membri della sua squadra.
-
Lei è Emeirin Stone, la migliore amica di mio padre. La donna che si è presa
cura di me mentre i miei genitori erano impegnati nella guerra del primo contatto.-
-
E’ un piacere conoscerla, signorina Stone.- saluta IDA, tendendole la mano.
Gli
occhi di Emeirin indugiano qualche secondo sul volto artificiale dell’IA, poi
la donna accetta la mano.
-
Il piacere è mio.-
Stringe
anche la mano di Thane ma, quando si trova di fronte a Javik, lui la squadra
con una strana freddezza, con una sorta di ostilità latente.
Non
dice niente eppure, quando le tende la mano ed Emeirin gliela stringe, si sente
travolto dalle emozioni della donna, dalla tempesta che si agita oltre i suoi
tranquilli occhi violetti.
Lo
coglie impreparato, con le difese abbassate, e l’urgano entra dentro di lui.
Per
quanto quell’umana possa sembrare serena, la sua anima è in subbuglio. La sua
intera storia - l’esperienze che hanno scolpito solchi incolmabili in lei,
invisibili cicatrici saettanti - è imbevuta di un sordo dolore, latente,
sommerso, divenuto infine solo nostalgica malinconia. Ma più di ogni altra
cosa, il contatto della mano di lei gli trasmette un’immensa solitudine.
E’
la stessa sensazione, lo stesso gelo interno, lo stesso vuoto che prova anche
lui.
La
cosa che più assomiglia alla coscienza di essere l’ultimo membro vivente della
tua razza, di una razza che era grande, un tempo e che sembrava destinata a
prosperare per sempre.
Quando
le dita di Emeirin si sciolgono dalle sue, l’uragano indietreggia, lasciando
solo lo sciacquio della risacca. Javik sa che ci metterà molto tempo, a
dimenticare quella sensazione.
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Oggi
c’è davvero poco da dire J Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi
rinnovo i miei ringraziamenti per essere arrivati fino a qui!
Un
bacio!
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